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Bambini e genitori di fronte all’ospedalizzazione. Il ricovero ospedaliero, è visto dai bambini
come uno dei castighi peggiori; a ciò reagiscono con ansia, depressione, senso dell’abbandono
perché lasciati li dai genitori (ai quali spesso si chiede una presenza continua). Si ritrovano in un
nuovo letto, ad avere una vita pubblica, condividere la stanza con altre persone, dottori che
entrano ed escono. Ma più saranno preoccupati i genitori, più lo saranno anche i figli.
Le reazioni dei genitori. Per non terrorizzare i bambini, spesso i genitori tengono loro nascosta la
malattia o un’operazione: capita però che il bambino capisca cosa stia succedendo, ma temono di
fare domande e rimangono in silenzio. Il risultato, soprattutto in caso di malattie mortali, è che sono
lasciati soli alle loro paure.
Un aspetto particolare: la sala giochi. Giocare permette al bambino di ridurre l’ansia e la paura
della malattia; in particolare giocare diventa quasi necessario, per passare il tempo. Le sale giochi,
in cui sono presenti diversi materiali, diventano un luogo di incontro tra genitore e bambino in cui la
malattia passa in “secondo piano”. Sono luoghi che ricordano casa, l’asilo, in cui c’è la presenza di
animatori o volontari: a volte però questi luoghi diventano noiosi per i bambini, perché si fanno
sempre le stesse cose. In generale la sala giochi serve a distrarre il bambino dalla malattia. Vi è
così una contraddizione: il bambino deve considerarsi malato (per giustificare la permanenza in
ospedale) e a momenti alterni no (quando gioca o deve fare i compiti per non rimanere indietro).
2. Operatori sanitari e bambini in ospedale
Operatori sanitari e bambini malati. anche per i medici è difficile affrontare la malattia dei
bambini: molte volte fanno ricorso alla maturità del bambino (“non piangere, sei un ometto!”), ma in
ogni caso preferiscono mantenere un certo distacco. Se si affezionassero di ogni bambino e si
commuovessero, perderebbero la loro lucidità e professionalità: se un bambino è molto malato o
muore essa crolla e iniziano i sensi di colpa. . I medici devono quindi indossare una maschera e
identificare i bambini per la loro malattia, questo permette loro di soffrire di meno. Inoltre
rimanendo freddi, risultano antipatici, ma si mostrano sicuri e precisi, ovvero come si aspettano i
genitori.
Le paure di fronte al bambino malato. Il terrore dei medici è quello di non riuscire ad aiutare o
guarire il bambino, provocando una svalutazione della propria professionalità. Il medico può quindi
diventare molto freddo con il bambino e aggressivo con i genitori, ritenuti i responsabili del male
del bambino. Altro terrore è provocargli dolore sia fisico che psichico, per questo gli nascondono la
malattia; ma quando il bambino ne è consapevole, teme di essere abbandonato, quindi non ne
parla nemmeno lui e prova ad essere un bravo bambino.
Il bambino invisibile. Quando i medici parlano dei bambini, lo fanno in maniera generale, parlano
di bambini ideali e non reali o specifici. Sono stati intervistati numerosi pediatri, quasi tutti
concordano sulla visione del bambino come un’entità da proteggere con cui è un piacere interagire
e creare un rapporto. L’immagine di innocenza e spontaneità, permette ai medici di rompere le
barriere create tra sé e il paziente: il rapporto ovviamente varia, con i più piccoli è difficile
comunicare, già dai 3 anni in su è più semplice e si diventa amici, mentre dagli 8 anni in su è più
difficile da un lato perché sono coscienti e fanno domande sulla malattia, capiscono cosa viene
loro fatto, ma se c’è fiducia viene superato tutto. Ma per instaurare un rapporto di fiducia, dicono
alcuni medici, occorre molto tempo, a volte c’è a volte non c’è, spesso ci sono troppi bambini,
troppi affollamenti per cui è più difficile relazionarsi con tutti. Però, una volta che il medico è
identificato come figura di riferimento e ci si fida di lui, il lavoro è più facile, perché i bambini si
lasciano sottoporre alle terapie.
Medici e “pazienti pediatrici”: una relazione a due o a tre? Il rapporto medico-paziente, quando
si tratta di bambini, non è mai un rapporto a due, perché c’è sempre la presenza dei genitori. Nei
convegni o nei testi medici si parla di “pazienti pediatrici”, espressione che deriva dalla difficoltà dei
medici di interagire direttamente con il bambino, se non tramite parole e gesti dei genitori. Il
medico quindi non sa quali siano realmente le parole del bambino e quali della madre, frutto
magari di interpretazioni sbagliate: capita infatti che i genitori non capiscano i segnali dei bambini e
o li portano troppo spesso dal medico per niente, oppure li portano solo in casi estremi. Per i
medici, è difficile anche comunicare direttamente ai genitori, soprattutto quando si tratta di malattie
gravi: in seguito a delle interviste, alcuni medici hanno detto che basta non utilizzare un linguaggio
troppo tecnico e tutti riescono a capire, ma il difficile è trovare le parole giuste in base agli umori,
alle reazioni, e alla sensibilità dei genitori, ed essere pazienti. infatti per i genitori la malattia del
figlio è un evento insopportabile, e spesso dopo lo shock iniziale o collaborano o rifiutano di capire
quello che sta succedendo. Il medico deciderà quindi se trattare i genitori da pari, da cooperatori
per la cura o assumersi tutte le responsabilità tenendoli fuori: il modo migliore di lavorare e
cooperare con i genitori è prima di tutto riconoscerli responsabili del bambino e che vanno coinvolti
nella cura, tenere lontane le ostilità, gestire l’ansia, anche perché non bisogna dimenticare il
legame familiare tra bambino e genitori.
Il genitore detestabile. In realtà la presenza del genitore aiuta il medico, che si libera da ogni
responsabilità (di non riuscita della cura, ansia nel lavorare con bambini malati) rigettandola su di
loro: in effetti il medico non può farsi carico di tutte le ansie derivate dalla sofferenza di ogni
bambino. A volte però il genitore, spesso definito detestabile, diventa una persona da tenere
lontana per non intralciare l’operato dei professionisti. Il problema è che i medici si sentono sfruttati
e sono continuamente sotto pressione da parte di coloro che vogliono “sapere tutto e subito”, ma
non si tiene conto che non esiste solo quel bambino e che sono necessari dei tempi di diagnosi.
Oggi grazie ai media, anche chi non è medico è più informato, ma a volte i genitori si sentono così
competenti che non accettano i consigli dei medici, per questo alla base del loro rapporto ci deve
essere la fiducia e ascoltare le prescrizioni e seguire le manovre per la cura.
Il medico estraneo. I genitori spesso hanno problemi di comprensione causati dall’uso del
linguaggio, d’altro canto a volte i medici sono poco disponibili nel chiarire i dubbi. Dato questo
evidente problema, i genitori, a cui non bastano mai le informazioni, si rivolgono a più medici per
“essere sicuri”, ma questo accade anche quando i medici sono stati chiari ed esaustivi. Il problema
sta quindi da entrambe le parti, perché il medico che si esprima bene o no comporta nel genitore la
ricerca di una conferma da parte di altri medici, perché hanno bisogno di essere rassicurati.
Infermieri /genitori /bambini malati. la situazione degli infermieri è diversa da quella degli altri
operatori medici, poiché stanno molto più a contatto con i pazienti e i genitori. L’entrata delle madri
in ospedale al fianco del bambino malato, ha portato ad una serie di problemi pratici per gli
infermieri: ad esempio maggiori controlli, per verificare che le madri rispettino le loro prescrizioni,
per capire se si possono fidare di loro. Questo a volte fa sentire le infermiere inutili che si ritrovano
da un momento all’altro ad avere tempo libero. Spesso però le madri delegano ogni compito alle
infermiere per paura di sbagliare, d’altro canto anche loro si sentono osservate di continuo. A
causa dei pochi chiarimenti con il medico, le infermiere diventano la vera confidente della madre,
persona a cui fanno riferimento per capire quale sia la terapia: mostrandosi disponibili si crea un
clima tranquillo, ma devono sapersi approcciare con ogni famiglia, poiché sono tutte diverse. Da
eliminare saranno quindi i pregiudizi, che potrebbero compromettere la valutazione e la cura della
malattia.
I meccanismi di difesa degli operatori. Gli operatori spesso scelgono di lavorare in un reparto
pediatrico perché amano i bambini, ma devono sopportare il fatto che soffrano. Come i medici, il
problema degli altri operatori sanitari è quello di mantenere la giusta distanza per non rimanere
troppo coinvolti, perciò il loro lavoro diventa tecnico e di routine senza intrattenere veri rapporti ne
con i genitori ne con il bambino.
3. Insegnanti in pediatria
Le maestre in ospedale. La malattia prima e l’ospedalizzazione dopo provocano nel bambino
paure di perdere le acquisizioni raggiunte nel corso dello sviluppo: egli finisce con l’accettare ciò
che il contesto gli suggerisce, ovvero che lui è la malattia, non un bambino che ha una malattia.
Perciò da un lato la presenza dei genitori lo rassicura poiché non si sente abbandonato, dall’altro
lato è stata introdotta la scuola negli ospedali per farli sentire “solo” malati. Già dagli anni ’60 si è
notato come l’ospedalizzazione abbia un ruolo centrale nel determinare la depressione del
bambino, situazione che viene migliorata dall’introduzione di attività ludiche; dagli anni ’80 invece è
stata confermata la scuola in ospedale, ma anche nei day hospital e nelle case, la difficoltà è
trovare il giusto insegnante, preparato in maniera specifica. Mentre in alcuni paesi il personale è
scelto in modo specifico, in Italia si prendono dalle scuole vicine agli ospedali, senza dare spazio a
coloro che potrebbero avere una migliore preparazione.
I perché di una scelta. Sono vari i motivi per cui un insegnante possa decidere di lavorare in un
ospedale, come il desiderio di cambiare, uscire dalla routine; l’assegnazione degli insegnanti non
avviene con un progetto serio e articolato di selezione, inoltre la formazione iniziali delle insegnanti
destinate alle pediatri è molto ridotta: questa non viene nemmeno colmata del tutto, poiché
vengono messi a disposizione solo brevi corsi e raramente dei convegni in cui insegnati in ospedali
possono confrontarsi.
Inventarsi un lavoro: maestre allo sbaraglio. Le differenze tra la scuola tradizionale e quella
osped