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Aspettative, permessi e indennità degli amministratori locali
A norma del combinato disposto della L. n. 816 del 1985, artt. 1 e 2, recante norme in tema di "Aspettative, permessi e indennità degli amministratori locali" - possono essere collocati, a domanda, in aspettativa non retribuita per tutta la durata del mandato i lavoratori dipendenti pubblici o dipendenti da imprese, aziende o enti, pubblici o privati, eletti alle cariche di cui alla presente legge (fra le quali è compresa quella di sindaco di un comune). La ratio della norma in esame volta a rendere compatibile, per i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive, l'espletamento di tali funzioni con la condizione di prestatore di lavoro subordinato. Essa costituisce una coerente applicazione del principio di cui all'art. 51 Cost., comma 3, secondo cui chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha il diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro. Da ciò consegue altresì che deveè possibile escludere che rientri nel potere discrezionale del datore di lavoro stabilire se il dipendente che richiede l'aspettativa possa o meno continuare a rendere la prestazione lavorativa durante l'adempimento dell'incarico elettivo. Il "cambiamento di appartenenza sindacale" del componente di Rsu è costituito da un mero cambio di identità, che può consistere anche nella sopravvenuta assenza di una qualsivoglia appartenenza sindacale e non presuppone l'iscrizione ad altro sindacato; esso si configura con le dimissioni da un sindacato e l'iscrizione a un altro. Le modificazioni oggettive e soggettive del rapporto di lavoro Tra le modificazioni soggettive del rapporto di lavoro occorre anzitutto affrontare la tematica sulla cessione del contratto (art. 1406 c.c.) e sul trasferimento di azienda (art. 2112 c.c.). Sapendo che il contratto di lavoro ha natura sinallagmatica a prestazioni corrispettive (do ut des – do ut facias) nonè consentita la cessione unilaterale di una singola posizione contrattuale, essendo sempre necessario un successivo accordo trilaterale fra: cedente, cessionario e lavoratore ceduto. In difetto di accordo, il rapporto di lavoro continuerà a produrre tutti i propri effetti fra i contraenti originari. Il licenziamento, motivato con la cessazione dell’attività e la liquidazione della società datrice di lavoro, dovuto alla cessione di ramo d’azienda, è nullo o inefficace, il che giustifica la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e la condanna del datore al risarcimento del danno. Il trasferimento di ramo d’azienda disposto in favore di un soggetto privo di effettiva autonomia imprenditoriale, il quale - presi in carico i lavoratori appartenenti al predetto ramo - ne utilizzi la prestazione per brevissimo tempo e cessi quindi l’attività restituendo i beni aziendali al cedente, costituisce negozio in frode alla legge essendo.volto ad eludere le norme in tema di licenziamento collettivo. In tale ipotesi la comunicazione del cedente ai dipendenti, essendo comunque volta ad interrompere il rapporto di lavoro con lo stesso, deve essere equiparata a licenziamento illegittimo con conseguente applicazione dell'art. 18 SL.
Il trasferimento di azienda (art. 2112 c.c.) presenta una disciplina che introduce una ipotesi di accollo cumulativo esterno ex lege tra cedente e cessionario con la responsabilità solidale di entrambi per i debiti e obbligazioni pregresse maturate, sempre che i dipendenti dell'imprenditore cedente siano transitati senza soluzione di continuità al cessionario, stante il divieto di licenziamento, individuale o collettivo, motivato dal solo presupposto della sopravvenuta cessione del compendio aziendale. Per tutti i rapporti di lavoro che legittimamente proseguono, il cedente ed il cessionario sono coobbligati in solido per tutte le pregresse.
Pendenze debitorie insoddisfatte nei confronti dei lavoratori. Di contro, per i soli rapporti cessati ante tempus la responsabilità resterà concentrata in capo al cedente. La ragione sottostante questa tutela "rafforzata" sta nel fatto che l'imprenditore cedente, cedendo l'azienda, può restare privo di beni sui quali potersi adeguatamente soddisfare. I dipendenti transitati dal cedente al cessionario conservano il CCNL applicato loro dall'ex datore di lavoro fino alla scadenza triennale dello stesso, anche se diverso, per settore merceologico, da quello applicato ai dipendenti assunti ab initio dal cessionario. È tuttavia possibile che per accordo ex artt. 410 e 411 c.p.c. la responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. sia concentrata sul solo cessionario, con totale o parziale esonero del cedente per le obbligazioni pregresse.
Evoluzione della normativa sull'estinzione del rapporto di lavoro. La disciplina originariamente
Predisposta dal c.c. artt. 2118 e 2119, dedicata indistintamente al licenziamento e alle dimissioni, prevedeva la regola della c.d. libera recedibilità (salva la giusta causa), in base alla quale il rapporto di lavoro, come contratto di durata, poteva essere risolto ad iniziativa di ciascuna delle parti a prescindere da qualsiasi giustificatezza, col solo obbligo del preavviso. La disciplina successiva, a partire dalla l.n. 604/1966 si è tutta incentrata sulla tutela del lavoratore contro il licenziamento, prevedendo anzitutto, la necessaria giustificatezza dell'atto di recesso datoriale che poteva (e può), essere intimato solo per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo o soggettivo, come previsto dalla normativa che precede. La predetta disciplina tuttavia si applicava ai soli datori di lavoro imprenditori e non che occupavano complessivamente più di 35 dipendenti e all'art. 8 l. cit. faceva riferimento soltanto ad una tutela di natura indennitaria.
da 2,5 a 6 mensilità dell'ultima retribuzione corrisposta (in base all'anzianità di servizio del lavoratore ed alle dimensioni aziendali), nel caso di illegittimità del licenziamento. La più significativa novità intervenuta in questa materia è stata l'art. 18 SL che ha introdotto l'istituto della reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato nel posto di lavoro, con l'effetto della ricostituzione retroattiva del rapporto dalla data del licenziamento fino alla riammissione in servizio ed una somma indennitaria, per questo periodo di tempo, pari a tutte le retribuzioni e contribuzioni maturate e non percepite. - Il licenziamento discriminatorio e le altre ipotesi di nullità del licenziamento Le ipotesi di nullità del licenziamento sono tipiche e tassative e riguardano, anzitutto, il licenziamento discriminatorio art. 3, legge n. 903/1977, art. 54, d.lgs. n. 151/2001, intimato per ragioni di sesso, razza, lingua.religione, affiliazione politica, sindacale, sociale, etc. In particolare, per la lavoratrice madre la tutela ex art. 54 cit. decorre dall'inizio della gestazione e si estende fino al compimento del primo anno di età del bambino, con un meccanismo di presunzione assoluta di discriminatorietà del recesso iuris et de iure che prescinde persino dalla conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro. In tutti gli altri casi previsti dalla legge l'onere della prova afferente alla discriminazione (art. 2697 c.c.) incombe sul lavoratore che può assolverlo anche con meccanismi di tipo presuntivo ex art. 2727-2729 c.c., col deferimento del giuramento decisorio (art. 2736 c.c.) oppure con la confessione giudiziale (art. 2733 c.c.). Senza dubbio la materia del licenziamento discriminatorio e, più in generale, di quello nullo è avvertita oggi con vivo interesse da parte degli operatori del diritto, costituendo l'unico residuo caso, pergli assunti dopo il 7 marzo 2015, in cui continua ad operare, in modo pieno e completo, la tradizionale reintegrazione nel posto di lavoro. In caso di licenziamento discriminatorio, la nullità opera obiettivamente in ragione del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. Nell'ipotesi di licenziamento ritorsivo, invece, non solo il recesso deve essere ingiustificato, ma è necessario che il motivo che si assume illecito sia stato anche l'unico determinante. - Il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo. Il licenziamento disciplinare. L'art. 2119 c.c. definisce il recesso per giusta causa come quello determinato da un "fatto tale" da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria (rectius: per il periodo del preavviso), del rapporto di lavoro (c.d. recesso in tronco). Il comma 2, della stessa norma,prevede che nel caso di dimissioni per giustacausa il lavoratore ha diritto all'indennità di mancato preavviso, onde evitare una indebita loclupletazionedel datore di lavoro che, al fine di evitare il pagamento del preavviso, metta alle strette il propriodipendente, costringendolo a dimettersi. Dal licenziamento per giusta causa (GC) differisce, sul pianoquantitativo e qualitativo, il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con preavviso (GMS) di cuiall'art. 3, legge n. 604/1966. La norma parla, a tal proposito, di un notevole inadempimento agli obblighicontrattuali da parte del lavoratore. Pertanto, sul piano quantitativo la condotta dolosa o gravementecolposa del lavoratore deve aver costituito un inadempimento contrattuale di non scarsa importanza (art.1454 c.c.), ma non talmente grave da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto dilavoro (come nella giusta causa - GC). Sul piano della differenza quantitativa tra GC e GMS,La giurisprudenza ha ritenuto rientrante fra i poteri officiosi del giudice anche quello di "derubricare" un licenziamento intimato per GC (rivelatosi poi cagionato da una condotta del lavoratore non impeditiva della prosecuzione del rapporto), in licenziamento per GMS, facendo applicazione di un vero e proprio principio di continenza del GMS nella GC.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e il licenziamento collettivo per riduzione di personale. L'art. 3, legge n. 604 del 1966 prevede, oltre al giustificato motivo soggettivo, il licenziamento, con preavviso, per giustificato motivo oggettivo (GMO) originato da ragioni tecniche, organizzative, produttive, per l'organizzazione del lavoro e per il regolare funzionamento dell'organizzazione del lavoro. Questo licenziamento, detto anche "tecnologico", si caratterizza per la soppressione del posto di lavoro originariamente occupato dal dipendente, a seguito di una scelta organizzativo-gestionale operata dall'imprenditore.
avoro sia basata su motivi oggettivi e non discriminatori. In secondo luogo, è necessario che il datore di lavoro abbia adottato tutte le misure possibili per evitare il licenziamento, come ad esempio la riqualificazione del dipendente o la sua ricollocazione in altre mansioni. La Corte di Cassazione ha stabilito che il licenziamento per GMO può essere considerato legittimo solo se rispetta questi due presupposti. Inoltre, è importante sottolineare che la giurisprudenza ha riconosciuto che il licenziamento per GMO può essere considerato discriminatorio se il datore di lavoro non ha dimostrato in modo convincente che la scelta di licenziare il dipendente era basata su motivi oggettivi e non su pregiudizi o stereotipi. In conclusione, la giurisprudenza italiana ha stabilito che il licenziamento per GMO può essere legittimo solo se rispetta i due presupposti di motivi oggettivi e non discriminatori e di adozione di tutte le misure possibili per evitare il licenziamento.