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devono essere separati dagli altri detenuti che appartengono alle loro stesse forze armate, fatto salvo
un benestare che manifesti una volontà diretta a tale separazione, espresso dagli stessi. Il caso di
Shaha Mohamed serve a spiegare il trattamento che viene riservato ai detenuti rinchiusi a
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Guantanamo, in una continua violazione della III Convenzione. In un anno, ha tentato quattro volte
il suicidio. Il terzo comma dell’articolo 22 sancisce: «La Potenza detentrice raggrupperà i
prigionieri di guerra nei campi o in sezioni di campi tenendo conto della loro nazionalità, della loro
lingua e delle loro usanze, con riserva che questi prigionieri non siano separati dai prigionieri di
guerra appartenenti alle forze armate nelle quali servivano al momento della loro cattura, a meno
che vi consentano». Le parole di Shaha, che era stato inserito nella zona degli arabi, testimoniano
un’altra violazione da parte americana: «Non riuscivo a scambiare con loro neppure una parola.
Non c’era niente da fare. Non ci capivamo. Io non parlavo la loro lingua, loro non parlavano la mia.
Fu così che cominciai a sprofondare» . Alla violazione seguì il tentativo di togliersi la vita, reiterato
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per tre volte ancora, poiché la sua supplica non fu accolta: voleva essere trasferito con i pakistani e,
invece, continuava ad essere reinserito tra gli arabi. Ogni volta veniva ricoverato e sedato con
psicofarmaci, fino alla fine della prigionia, durata trecentotrenta giorni. Come Shaha Mohamed, le
stesse incomprensibilità linguistiche e le incompatibilità culturali e sociali spinsero anche Rustam a
cercare la morte: «Mi avevano messo nel blocco degli Uzbeki. Gente completamente fuori di testa.
Passavano le loro giornate a battere il capo contro le pareti delle celle. A gridare insulti alle guardie.
Sentivo che stavo impazzendo. Che non avrei retto a lungo. Cominciai inutilmente a chiedere di
essere trasferito in un altro blocco. Di poter essere interrogato. Finché non decisi di impiccarmi. Le
guardie mi soccorsero subito. Mi liberarono e quindi mi trasferirono di blocco, dopo avermi
riempito di medicine» .
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Nell’articolo 23 è previsto un divieto assoluto di mandare o trattenere il prigioniero di guerra
in una regione di guerra e di utilizzarlo come strumento per evitare che la guerra colpisca
determinate zone o regioni. Inoltre, i detenuti godono delle stesse garanzie accordate alla
popolazione civile locale, per quanto riguarda i rifugi contro i bombardamenti aerei, altri pericoli
militari e altre misure di protezione. I prigionieri possono recarsi nei rifugi non appena sia dato
l’allarme, ad eccezione dei detenuti addetti alla protezione delle proprie sezioni.
Le Potenze detentrici hanno poi il dovere di comunicazione reciproca relativa alla situazione
geografica dei campi dei prigionieri: per questo si avvalgono delle Potenze protettrici.
C. BONINI, op. cit., p. 56.
3 C. BONINI, op. cit., p. 56.
4 C. BONINI, op. cit., p. 57.
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