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M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 61.
4 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 62.
5 C. BONINI, op. cit., p. 25. Le squadre «Tigre» sono «funzionari della CIA e del servizio segreto militare,
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dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia, del Dipartimento di Stato e dell’Ufficio naturalizzazione e
immigrazione».
M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 62
7 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 62: «“collaborate e potrete tornare a casa”»; oppure «molte persone
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lasceranno questo posto nei prossimi giorni. Se collaborate potrete unirvi a loro”»; o ancora, «“sappiamo chi
sta dicendo la verità e chi sta mentendo. Dite la verità”».
potranno essere né minacciati, né insultati, né esposti ad angherie od a svantaggi di qualsiasi
natura». Inoltre, un altro aspetto negativo è quello del rischio, che diviene quasi sempre reale, di
ottenere affermazioni inaffidabili. Infatti, «Dopo essere state tenute per due anni in isolamento, le
persone sarebbero disposte a dire qualsiasi cosa, specialmente se dalle dichiarazioni che fanno
dipende il loro prossimo pasto o il fatto di evitare ulteriori misure coercitive» . Collaborare
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«significa confessare qualsiasi cosa [che chi ti interroga] voglia farti confessare» : notizie sulla
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propria vita e sul conto di altre persone che potrebbero essere successivamente catturate. Il tutto
ovviamente dietro ricompensa: «un osceno Big Mac» , uno spazzolino, una doccia, il permesso di
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fare esercizio fisico oppure anche un medicamento necessario a guarire una malattia. È chiaro che,
in questa situazione, il prigioniero dichiarerà la sua collusione con Al Qaeda, includendo, in questa
macchina del terrore, altre persone innocenti. Una delle procedure più frequenti era quella di
mostrare ai prigionieri «video in cui sembravano essere in compagnia di Osama bin Laden» ,
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mentre, in realtà, erano solo dei fotomontaggi: sottoposti agli abusi peggiori, i prigionieri
confessavano di essere stati a fianco di bin Laden. Si raccontavano anche storie false: per esempio,
si diceva ai detenuti che erano tra le persone più ricercate nel mondo, perché erano stati trovate
delle liste in una grotta di bin Laden, nelle quali comparivano i loro nomi. Si sputava nel cibo dei
reclusi, i quali venivano minacciati, mostrando loro le foto di famiglia o i poster di donne
palestinesi uccise dagli israeliani. Infine, veniva utilizzata anche la macchina della verità. Tre
domande erano ripetute continuamente: «“sei un membro di al Qaeda?”»; «“sei stato addestrato al
campo di al Farook?”»; «“hai ricevuto l’addestramento per l’uso di qualche arma speciale mentre ti
trovavi in quel campo?”» . Qualunque fosse l’esito del test, peraltro inaffidabile, non veniva
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concessa la liberazione. In caso di risultato negativo, i prigionieri venivano rasati, cosa che viene
recepita come offesa alla religione musulmana. Bush ha affermato che avrebbe praticato torture a
Guantanamo solo per ottenere informazioni richieste dalla necessità militare, non ottenibili con
metodi differenti. Così, l’Amministrazione legittimava i trattamenti disumani, facendosi beffa del
diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. E
infatti, a Guantanamo, durante gli interrogatori, avvengono «il denudamento, l’ammanettamento
stretto e l’uso di informazioni sulla salute dei detenuti per minacciarli e obbligarli a collaborare» 14
M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 61.
9 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 63.
10 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 63.
11 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 78.
12 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 83.
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allo scopo «di annullare l’identità delle persone» , «annullare la volontà degli individui, renderli
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anonimi, sradicando la loro cultura, la loro fede religiosa e le loro identità» . Le testimonianze di
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due prigionieri confermano questa linea di condotta. Il primo è Muhammad Naim Faruq, afgano,
che racconta di aver subito interrogatori per mesi . Anche Mohammed Taher, della stessa
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nazionalità, ricorda ben poco, a causa delle continue somministrazioni di medicinali sedativi,
tuttavia afferma che i suoi interrogatori si sono protratti fino a dieci mesi . I detenuti interrogati non
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possono proferire parola con gli altri prigionieri, né avere contatto con i giornalisti. La finalità di
tale impedimento è quella di evitare che mandino messaggi: il maggiore Van Natta, infatti, ritiene
che siano «molto furbi» . Un altro prigioniero, Jamal Udeen, inglese, ha sofferto torture che gli
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hanno portato danni permanenti, tra cui la gobba. L’afgano Haji Osman è stato a Guantanamo per
diciotto mesi con il cugino, mentre un cameraman di Al Jazeera di nazionalità sudanese è stato
tenuto in prigione per due anni: entrambi erano innocenti. Mohammed Khan, anch’egli afgano, ha
subito abusi per settimane. Ha raccontato che a lui, come ad altri, «“hanno fatto di tutto: hanno
torturato i nostri corpi e le nostre menti, le nostre idee e la nostra religione”» . Muhammad Sidiq,
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invece, ha affermato: «“Ci coprivano la faccia (“…”) e cominciavano a colpirci sulla testa e a farci
l’elettroshock”» . Aziz Khan era stato incatenato: a volte era costretto a stare in una gabbia per
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uccelli, altre in un container. A Hamad Abderrahman Ahmed, «i soldati (“…”) tenevano premuta la
testa a terra con gli anfibi, lo calpestavano e lo legavano con un laccio sottile che lo faceva
M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 60.
14 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 60.
15 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 61.
16 C. BONINI, op. cit., p. 26: «Mi interrogarono il giorno stesso del mio arrivo a Guantanamo. Poi, per tre
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mesi, più nulla. Improvvisamente, al quarto mese, decisero che dovevo essere di nuovo ascoltato.
Cominciarono a portarmi nella sala degli interrogatori ogni trenta giorni, o almeno così credo, perché non
avevamo certo un calendario da consultare. E lì restavo per ore. Non saprei dire quanto. Le domande erano
sempre le stesse. E sempre le stesse non potevano che essere le mie risposte. Alla fine di ogni interrogatorio,
mi dicevano che sarebbe stato l’ultimo. Che sarei stato rilasciato. Andò avanti così per mesi. E per mesi,
quando tornavo nella gabbia, capivo che quella promessa non sarebbe stata mantenuta… Che volevano
soltanto spezzarmi i nervi».
C. BONINI, op. cit., p. 26: «Sono stato interrogato per otto, forse dieci mesi consecutivi. Ma da quando
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sono tornato a casa non riesco proprio a ricordare più nulla di quei giorni lì dentro…».
C. BONINI, op. cit., p. 26-27.
19 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 87.
20 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 87.
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sanguinare» . Un altro prigioniero, che diceva di avere tra i novanta e i cento anni, era stato legato
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al girello e piangeva tutto il giorno.
Scopo ulteriore degli interrogatori è «il reclutamento di informatori musulmani (“…”) che
facciano spionaggio per l’America» . Secondo alcuni soggetti responsabili degli interrogatori,
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«alcuni prigionieri “vengono considerati come una specie di database di al Qaeda che chi interroga
può consultare a tempo indefinito”» . È accaduto ad alcuni prigionieri inglesi ai quali la CIA disse:
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«“quando tornate in Inghilterra vogliamo che diventiate nostri informatori, che ci forniate
informazioni sulla comunità musulmana; se lo farete vi daremo una bella casa e tutto ciò che
desiderate. E vorremmo che firmaste una confessione, perché se non lo fate non potrete andarvene
da qui”» .
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Secondo l’articolo 18, il prigioniero di guerra, eccezion fatta per armi, cavalli,
equipaggiamento militare e carte militari, ha facoltà di tenere con sé effetti e oggetti d’uso
personale. Inoltre, può rimanere in possesso di elmetti, maschere anti-gas e altri oggetti per la
protezione personale, che gli siano stati consegnati, e di effetti necessari per l’abbigliamento o il
nutrimento, anche se siano parte dell’equipaggiamento militare ufficiale. A Guantanamo, questa
facoltà non trova realizzazione pratica, poiché i prigionieri non possono portare oggetti personali
nelle proprie gabbie.
È poi vietato privare i prigionieri di guerra delle insegne del grado e della nazionalità, delle
decorazioni e degli oggetti di valore personale o sentimentale, come le fotografie della propria
famiglia . Ciò vale anche per le somme di denaro, a meno che non sussista un ordine di segno
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opposto espresso da un ufficiale, e, in ogni caso, dopo l’iscrizione in un registro speciale
dell’ammontare totale delle somme e delle caratteristiche del prigioniero che le possiede e dietro
ricevuta. È prevista l’iscrizione a credito delle somme del prigioniero che siano espresse in valuta
della Potenza detentrice. La stessa procedura applicata agli importi in denaro vale anche per gli
oggetti di valore, che possono essere sottratti ai prigionieri solo per motivi di sicurezza.
La Potenza detentrice è tenuta a custodire e restituire, nella forma iniziale, alla fine della
prigionia, gli oggetti di valore e il denaro, che siano in valuta diversa da quella della Potenza
detentrice e non siano stati convertiti, a causa dell’assenza di una richiesta di tal genere da parte del
proprietario.
M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 88.
22 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 68.
23 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 59.
24 M. RATNER e E. RAY, op. cit., p. 85.
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26 E. GREPPI, op. cit., p. 23.
L’articolo 19 è una disposizione volta a evitare che i prigionieri siano esposti al pericolo:
infatti, la norma richiede che questi, non appena ne sia effettuata la cattura, siano trasferiti in campi
lontani dalle zone di guerra e sistemati in luoghi sicuri, lontani da obiettivi militari. Possono essere
tenuti in una zona di pericolo, ma solo temporaneamente, i prigionieri feriti o malati, per i quali il
trasferimento potrebbe portare gli stessi a correre ulteriori rischi. È, peraltro, vietato esporli
inutilmente al pericolo nell’attesa di trasferirli altrove. I luoghi di detenzione, per esempio, non
possono essere attaccati, anche se è difficile che uno Stato lanci un attacco armato contro zone in
cui si trovano i suoi stessi soldati. A tal proposito, può essere richiamato il caso pratico del
personale delle Nazioni Unite, messo volontariamente in pericolo nelle vicinanze de