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I.
Cosa sono le scienze cognitive
I.1.
Per Scienza Cognitiva s’intende l’unione di ricerche multidisciplinari che studiano i
processi cognitivi. Nella scienza cognitiva confluiscono studiosi provenienti da vari ambiti
quali filosofia, psicologia, linguistica.
Questo pluralismo ha portato a dei pro e dei contro: da una parte viene visto come motivo
di dialogo e incontro mentre dall’altro come motivo di confusione.
L’idea al centro della discussione è però una: l’ipotesi per cui si possono mettere in
relazione alcune specifiche aree del cervello con alcuni aspetti del comportamento.
Queste questioni emergono in base a nuove teorie sperimentali di cui si avvalgono le
neuroscienze per unire comportamento e cervello, in primis con le tecniche di Brain
Imaging, considerate come le strategie più promettenti per quanto riguarda la
corrispondenza di comportamento e aree di elaborazione del cervello.
La Neuropsicologia classica
I.1.1.
La Neuropsicologia è lo studio dei rapporti fra lesioni cerebrali e disfunzioni
comportamentali ed ha rappresentato il terreno più fertile per lo studio dell’organizzazione
funzionale del cervello umano.
La teoria classica dice che le lesioni in particolari regioni della corteccia cerebrale
generavano deficit specifici di determinate capacità.
L’idea che alcune disfunzioni lasciano inalterato il resto delle facoltà ha dato origine alla
concezione del cervello come sistema costituito da organi autonomi specializzati in diverse
funzione.
Il principio di ‘’assunzione di trasparenza’’ infatti, stabilisce che schemi comportamentali
deficitarii possono essere interpretati a patto che rimangano inalterate le restanti capacità
cognitive. Il cervello del paziente che presenta una lesione cerebrale è lo stesso di un
soggetto normale, tranne la lesione interessata.
L’assunzione di trasparenza postula che una lesione cerebrale non altera tutta
l’organizzazione dei sistemi cognitivi e fornisce una cornice teorica per classificare i
disturbi e la previsione di deficit non osservati.
Le tecniche di visualizzazione cerebrale
I.1.2.
L’impiego di tecniche di visualizzazioni cerebrali quali PET e fMRI ha permesso di
osservare la sede e l’estensione di danni cerebrali e di visualizzare le modifiche di attività
cerebrale in seguito allo svolgersi di compiti mentali.
La PET rivela le variazioni di un indice dell’attività cerebrale.
Il metodo utilizza un tracciante radioattivo, che viene iniettato nel paziente, che permette di
individuare le aree in cui il debito sanguigno aumenta conseguentemente ad un aumento
di un’attività cognitiva e successivamente, localizzando le zone dove il tracciante decade,
la PET permette di individuare l’area dove si è verificata un’attività neurale.
La PET permette di rivelare fenomeni di attivazioni cerebrali di larga scala ma sotto il
profilo temporale è una tecnica povera in quanto i tempi per le acquisizioni delle immagini
sono più lunghi dei processi misurati inoltre, utilizzando dei traccianti radioattivi, è una
tecnica invasiva e gli esperimenti per soggetto sono limitati.
L’fMRI invece, acquisisce le immagini in tempi talmente ridotti da poter seguire lo
svolgimento del metabolismo.
L’insieme di queste tecniche permette di misurare l’attività neurale e studiare fenomeni
intorno alla durata dell’ordine del millisecondo (come l’interazione fra neuroni) fino a
fenomeni lenti come quelli dell’apprendimento.
I limiti delle tecniche
I.1.3.
Con l’introduzione di queste tecniche i modelli neuropsicologici classici si sono dovuti
confrontare con le mappe anatomo-funzionali del cervello.
Come le altre metodologie che si occupano del rapporto fra cervello e comportamento
umano il brain imaging adotta una serie di metodi atti a rendere più chiaramente possibile i
dati osservativi in quanto vengono applicati modelli comportamentali all’interpretazioni di
dati neurofisiologici.
La metodologia più accetta è quella della sottrazione cognitiva.
Questa metodologia, consiste nell’idea che la durata di una fase di elaborazione può
essere misurata mettendo a confronto il tempo necessario a risolvere un compito con
(premere un pulsante dopo un riconoscimento visivo), con una seconda versione del
compito a cui viene tolta la fase di elaborazione (solo la reazione allo stimolo visivo).
La differenza nel tempo rappresentano il tempo speso nello stadio di elaborazione.
Questo metodo è stato poi applicato agli studi di Brain Imaging utilizzandolo nella
ricostruzione dei fattori che generano l’attività neurale rilevate attraverso le tecniche di
visualizzazione cerebrale: sottrarre nelle mappe di attivazione rivelate dalla PET, i valori
relativi allo stato di controllo da quelli dello stato attivato.
Possiamo affermare quindi che lo studio dell’anatomia non fornisce dati indipendenti
rispetto ai modelli psicologici dei processi cognitivi.
La grande innovazione portata da tecniche come PET e fMRI, consiste nel fatto che hanno
permesso di visualizzare il flusso sanguigno cerebrale che indica un’attività del cervello.
La Modularità
I.1.4.
L’ipotesi che il cervello sia costituito da sistemi che operano in maniera autonoma e
indipendente gli uni dagli altri ha assunto sempre più importanza di conseguenza di
indagini psicologiche. La più rappresentativa è quella di Jerry Fodor.
Fodor definisce ‘’modulo’’ un componente di un sistema più complesso caratterizzato da
una serie di proprietà. Tra queste, la più importante è la specificità di dominio, la
caratteristica che intende valutare la destinazione di un sistema nell’elaborazione
dell’informazione proveniente da un solo stimolo sensoriale, precludendo quindi che lo
stesso componente possa trattare input diversi dal dominio per cui è designato.
Un’altra proprietà del Modulo è l’impenetrabilità cognitiva, ovvero un sistema è
‘’incapsulato’’ se non riceve informazioni da un altro sistema. Le operazioni del modulo si
avvalgono di informazioni specifiche al suo interno, senza ricorrere a conoscenze più
generali disponibili al resto del sistema (come nel caso della vista, che svolge
autonomamente l’elaborazione degli stimoli).
Inoltre un modulo è veloce (non subisce interferenze da altri sistemi tali da rallentare il
processo), obbligato (non può, ad esempio, percepire una frase come una sequenza di
suoni) e hanno un ritmo e sequenza caratteristica.
Dall’idea di Modulo rimangono fuori gli stati mentali complessi (come credenze e desideri)
che non si possono ricondurre ad una singola funzione mentale. Fodor li tratta come stati
globali, non implementabili all’interno di un modulo e non trattabili di conseguenza.
Contro questa ipotesi, la cognizione può essere spiegata come un funzionamento
coordinato di più moduli specializzati in un dominio specifico mentre la proprietà di
cognizione generale è da ricondursi all’interazione tra moduli.
Il Cervello Automatico
I.1.5.
Per molto tempo si è pensato che gli esseri umani avessero capacità cognitive generali
che potessero essere applicate ad ogni tipo di problema e che quindi, ci si comportasse in
maniera equivalente ai problemi che si presentavano con le stesse caratteristiche.
L’automaticità del cervello invece, evidenzia che il modo di agire dipende da come è
valutato un problema da un modulo neuronale specializzato, che si adatta a quel tipo di
analisi.
I processi automatici, sono il contrario di quelli controllati (che vengono iniziati
volontariamente), non necessitano di uno sforzo intenzionale e sono vissuti come
percezioni. I due processi (automatici e controllati) interagiscono tra loro anche se, i
processi automatici hanno la meglio in quanto sono più rapidi.
La Neuroeconomia
I.2.
La Neuroeconomia è una branca dell’economia comportamentale che indaga il ruolo dei
meccanismi psicologici senza rigettare la teoria classica basata sulla massimizzazione
dell’utilità, degli equilibri e dell’efficienza. Questi concetti sono stati rimpiazzati da ipotesi
maggiormente realiste che tengono conto dei limiti umani in materia di capacità di calcolo,
volontà ed egoismo.
La Neuroeconomia è stata definita lo stato in cui l’utilizzazione dei processi cerebrali
permette di trovare nuovi fondamenti per le teorie economiche.
Nel Modello Dell’Utilità si suppone che la scelta presa abbia una più grande utilità rispetto
alle alternative concorrenti.
Un esperimento di Platt e Glimcher ha dimostrato come il cervello possa codificare la
funzione d’utilità. L’esperimento ha dimostrato come la regione laterale intraparietale del
cervello delle scimmie codifichi sia la probabilità sia il valore associato ad una ricompensa.
Sino ad oggi si era sempre pensato che nei primati quest’area fosse deputata alla
semplice traduzione dei segnali visivi in comandi motori per il movimento degli occhi. Ma
l’esperimento ha dimostrato che essa è anche direttamente coinvolta nei processi
decisionali.
L’esperimento consisteva nell’insegnare alle scimmie a scegliere tra due punti luminosi.
Quando le scimmie effettuavano la scelta giusta, ottenevano una ricompensa (cibo). Nel
secondo esperimento, invece, entrambi gli stimoli luminosi erano rinforzati da un premio,
ma uno in misura maggiore rispetto all’altro.
Il fatto che il cervello delle scimmie fosse in grado di codificare la quantità della
ricompensa quanto la probabilità dimostra che alcuni concetti della teoria economica
possono trovare posto nel quadro d’analisi delle neuroscienze.
Economia e neuroscienza possono quindi beneficiare l’una dell’altra.
Utilità e substrato cerebrale umano
I.2.1. Il Neuromarketing
II.
Le neuroscienze del consumatore
II.1.
La Neuroscienza del consumatore ha come obiettivo di descrivere e spiegare i processi
mentali (sia emozionali che cognitivi) e i conseguenti comportamenti di soggetti impegnati
in situazioni commerciali.
Il marketing, adotta un approccio di tipo naturalista in quanto da alcuni anni si è avvicinato
alle posizioni di neuropsicologi per spiegare i ragionamenti e le scelte di acquisto dei
consumatori.
La rapida crescita di neuroeconomia e Neuromarketing è dovuta all’incontro tra diversi
ricercatori che, muovendosi in discipline diverse, hanno comunque come obiettivo quello
di spiegare i processi decisionali prima dell’acquisto di un prodotto.
Il termine Neuromarketing indica lo studio di tutti i