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Allora disdegna la stretezza della precedente dimora. Qanta è infati la distanza tra le coste più remote della Spagna e l’India?
Uno spazio di pochissimi giorni, se il vento propizio spinge la nave. Ma quella regione celeste ofre un viaggio di trenta anni al
pianeta più veloce che mai s’arresta, ma procede con un moto uniformemente veloce.
Là fnalmente apprende ciò che a lungo ha ricercato; là inizia a conoscere Dio. Che cos’è Dio? La Mente dell’Universo. Che cos’è
Dio? La totalità di ciò che vedi e non vedi interamente per la tua limitatezza. Così fnalmente a Lui è resa la propria grandezza,
di cui non è possibile pensare nulla di maggiore, se è vero che da solo è il tuto, che abbraccia la sua opera sia dall’interno che
dall’esterno.
Che diferenza c’è dunque tra la natura di Dio e la nostra? La parte migliore di noi è l’anima, in Dio non esiste alcunché al di
fuori della sua anima. E’ interamente Ragione, mentre d’altra parte un tanto grande errore domina la realtà mortale che gli
uomini ritengono questo mondo, di cui non v’è nulla di più ben fato né di più armonicamente disposto né di più coerente nel
conformarsi al volere del destino, prodoto del caso e in sua balia e perciò agitato tra fulmini, nubi, tempeste e altri fenomeni dai
quali la Terra e la prossima atmosfera è batuta.
E questa follia non si limita al pensiero del volgo ma riguarda anche quelli che hanno fato professione di saggezza. C’è chi
ritenga di avere un’anima invero capace anche di prevedere il futuro, in grado di regolare ogni singolo avvenimento suo e d’altri,
mentre questo Universo, in cui ci troviamo pure noi, sia trascinato, privo di un piano razionale, o da una qualche cieca sorte o
dalla Natura che non sa cosa stia facendo.
Qanta importanza atribuisci al conoscere tuto ciò e al determinare i limiti esati di ciò che è, quanta ne dai al conoscere la
potenza di Dio: se proprio Lui crei la materia o se ne usi una già data; quale dei due principi preceda l’altro, se la ragione abbia
seguito la materia o se la materia sia succeduta alla ragione; se Dio crei qualsiasi cosa voglia o se in molte circostanze la materia
su cui deve operare lo ostacoli e dalla mano del grande artefce molto risulti malamente formato, non perché venga meno l’arte,
ma perché ciò su cui viene esercitata spesso non ne è conforme?
Osservare atentamente tuto ciò, apprenderne i risultati, starci assiduamente sopra, non signifca forse oltrepassare la propria
condizione mortale e passare ad un destino migliore? “Che giovamento ne trarrai?”,chiedi. Se non altro, certamente questo: mi
renderò conto della limitatezza di tuto quello che mi circonda, dopo aver misurato la grandezza di Dio.
Le Naturales Qaestiones, opera composta negli anni del secessus Senecano [62-65, Seneca stesso informa i letori che, quando
cominciò a scriverla, era “ormai vecchio” e che “la vecchiaia incalza alle spalle” “dopo aver passato già il mezzogiorno della mia
vita” (III pref.)], sono un tractatus costituito da sete libri, relativamente indipendenti tra di loro, ognuno dedicato all’esame di
un fenomeno naturale particolare. All’interno di ciascun libro è individuabile uno schema ricorrente: quasi tuti hanno un
prologo ed un epilogo di caratere morale, in mezzo si sviluppa un’articolata sezione dove si afrontano problemi di tipo
scientifco. Nel comporle, Seneca è mosso da un duplice interesse: da una parte quello per i fenomeni naturali, per la ricerca
fsica e, dunque, per l’uomo, dall’altra dal suo intento etico-pedagogico.
Dal momento che Nerone si era ormai rivelato un feroce tiranno, nonostante le preoccupazioni e gli insegnamenti del maestro,
Seneca pare cercare nei fenomeni naturali la pace e la serenità. Tutavia, in lui è insita l’atenzione per i dati umani e dunque,
anche in un tratato apparentemente “scientifco”, si dispiega l’osservazione morale e, quasi in ogni pagina, è presente l’uomo.
Le Naturales Qaestiones hanno un caratere dossografco: l’esame di ciascun problema ha alla base l’analisi delle opinioni dei
vari pensatori coinvolti, i cui nomi a volte vengono citati, altre sono generalmente con dei “quidam”, “alii” di cui è riportato il
pensiero.
La Praefatio alle Naturales Qaestiones nasce dal bisogno di Seneca, tradito dalle contingenze politiche, deluso e bersaglio delle
invidie altrui, di ritirarsi alla vita contemplativa, massimamente di ritirarsi in sé, e di dedicarsi alla speculazione.
Constatando la soferenza quotidiana e la miseria umana, sente la necessità di elevarsi agli estesi spazi della scienza, di
penetrare e ragionare sui più nascosti segreti dell’Universo infnito. Così, il corpo assume le sembianze di una prigione, anche i
più vasti imperi sembrano punti in confronto alla maestà dell’armonioso cosmo, tuto dominato da Dio e da cui l’uomo sente di
derivare e dunque tende, bramoso di conoscenza. Adotando la visione monistica stoica, secondo la quale tuto è Logos, tuto
avviene secondo un piano razionale, riscata dal caso le vicende dell’uomo, che nella sua razionalità trova il rifesso di quella
divina e universale. Come si arriva a tuto ciò? Scoprendo se stessi, scrutando la propria anima, liberandola dai vincoli del corpo
e, in intimità con se stessi e con il cosmo, essere felici.
Naturales Qaestiones, Praef.,
“Lucili”: Lucilio Iuniore, è il destinatario di quest’opera, del De Providentia e delle Epistulae Morales ad Lucilium. Seneca prova
per lui grande afeto e stima, appellandolo spesso con “virorum optime”. Rappresenta l’ipotetico interlocutore, spesso chiamato
a porre domande o porre obiezioni, a cui Seneca risponderà prontamente.
“quae ad homines...quae ad deos pertinet”: vengono distinte l’etica (o flosofa morale) e la fsica (o flosofa naturale),
comprendente anche la metafsica in quanto, secondo gli Stoici, Dio e Natura fanno un tut’uno, un Deus sive Natura, deto con
Spinoza.
“multum permisit sibi; non fuit oculis contenta”: la fsica si estende oltre la limitatezza umana, che si basa sulla conoscenza
immediata dei sensi.
“suspicata est...posuisset”: il verbo suspicor + pono al congiuntivo indica un pensiero soggetivo, ipotetico, della flosofa, che
viene personifcata in una “mente” (rifesso del Logos universale).
“quid...agendum sit”: la perifrastica passiva indica un dover essere, tipico della morale. (Kant riprenderà questo principio di un
“comando interiore” nella sua Critica della Ragion Pratica, formulando l’Imperativo Categorico come base dell’agire morale).
“errores nostros discutit et lumen admovet”: gli errori, come i vizi, sono delle tenebre che bisogna dissipare atraverso la
contemplazione razionale e la mancanza di passioni sfrenate.
“volutamur”: da volutor, che indica un muoversi vorticosamente, un dibatersi spossante, tipico di un’umanità ancora cieca
dinanzi alla verità cosmica. Condizione diversa è quella del sapiens, come già aveva descrito Lucrezio all’inizio del libro II del
De Rerum Natura:“Suave, mari magno turbantibus aequora ventis/ e terra magnum alterius spectare laborem;/ non quia vexari
quemquamst iucunda voluptas,/ sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.”.
“Equidem”: Seneca, addentrandosi nei segreti della natura, può diferenziarsi dagli altri in quanto è intenzionato ad apprendere
(=discere) ogni suo singolo particolare. “Cum disco” è seguito da quatro incalzanti interrogative indirete disgiuntive che
esplicitano quatro problemi fondamentali circa la nozione dell’Universo, tute incentrate sul conceto di Dio (se sia il Dio
incurante epicureo, se sia una Provvidenza, come ritengono gli stoici, se sia un principio primo trascendente o, secondo la
visione panteistica-immanentistica, se sia l’anima del mondo, come pensano pure gli stoici, il principio ativo che forma la
materia, se possa sotrarsi o meno alla necessità del fato).
“necesse est...”: viene espresso il conceto della perfezione divina, Dio come colui che non manca di nulla e che ha disposto tuto
nel migliore dei modi possibili, in quanto pura Razionalità.
“Nisi ad haec admiteret, non tanti fuerat nasci”: atraverso l’indagine sulla Natura, su Dio, sui misteri cosmici, l’uomo può
prendere coscienza della sua natura razionale e dei suoi fni, dunque liberarsi dai vincoli della corporeità ed elevarsi.
Segue una serie in climax ascendente di interrogative direte al congiuntivo per esprimere la valenza dubitativa, tute incentrate
sui limiti della fnitezza umana, tuta legata alla materia corporea. Ha poco senso, tra mortali, cercare le diferenze in base allo
stato fsico (“robustior est in valetudinario”) in quanto preoccuparsi dell’anima è la chiave per il benessere terreno e ultraterreno.
“Efugisti vitia animi:...”: Rivolgendosi non solo al suo amico, ma anche al letore in generale, elenca i principali vizi,
aggiungendo pathos tramite fgure retoriche come l’anafora del “nec”, la gradatio in “turpiter...turpius”. L’enumerazione culmina
in una lapidaria sententia senecana: “multa efugisti, te nondum”. Necessario è scoprirsi come anelito divino.
“non quia...sed quia...”: l’aponìa epicurea non basta a garantire la felicità, serve la Virtus, che può garantire il “consortium deo”,
leteralmente il partecipare alla sorte divina (cum+sors): ciò è per l’uomo in bene più grande e completo.
“mundum et, terrarum orbem”: viene diferenziato l’universo nella sua armonia dal globo terrestre, dove gli uomini si dibatono
e ritengono che il bene più sfarzoso sia quello che adorna ciò che li circonda.
La Terra non è che un punto insignifcante rispeto al cosmo. Qesta osservazione, come la successiva immagine delle formiche,
verrà ripresa da numerosi autori della modernità (Leopardi nelle Operete Morali, Pirandello ne la Seconda Premessa Filosofca
de “Il fu Matia Pascal”, ad esempio).
Successivamente, dopo aver reso la presunta estensione terrestre tramite gli spazi e i confni naturali, dalla forte valenza visiva,
viene illustrata una scena di vita militare, che viene come ridicolizzata in quanto, dall’alto, fle di uomini belligeranti non
sembrano altro che formiche.
“Punctum est...currit”: Seneca, usando la seconda persona plurale, si rivolge agli uomini tuti, innalzando il tono, che diventa
solenne in questi due periodi minimi caraterizzati da anafore (in quo...in quo...