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QUAESTIONES EXTRAORDINARIE
e
QUAESTIONES PERPETUAE Andrea Zucchini
Classe 19
Diritto Romano – Modulo 2
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Il diritto e il processo criminale romano come fondamento dei moderni sistemi
processuali
Qualunque studioso che intraprenda una disamina sui sistemi processualistici europei non può prescindere
dallo studio del diritto romano quale fondamento dei moderni ordinamenti giuridici. La legislazione
romanistica, nella sua evoluzione storica e nei suoi molteplici ambiti, costituisce un costante riferimento per i
giuristi e per tutti gli studiosi del diritto. Pur evitando di eseguire qualsiasi trasposizione delle norme e della
cultura romanistica romana negli ordinamenti contemporanei, procedendo così a un’attualizzazione tanto
rischiosa quanto da molti discutibile, appare immediata la ripresa di diversi concetti e procedure proprie
dell’antica Roma nei moderni codici di leggi occidentali.
La maggiore attenzione degli studiosi si è focalizzata sul diritto privato romano, trascurando, almeno fino
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agli ultimi trent’anni, lo studio del diritto criminale. Forse a causa della scarsità delle fonti considerate
“tecniche”, tradizionalmente privilegiate dagli storici del diritto, oppure a causa del desiderio di «non mettere
in discussione convinzioni profonde e radicate come quella della razionalità dei greci, della superiore civiltà
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dei romani e della eternità del loro diritto».
Da queste analisi è quindi emerso che nel diritto criminale romano si sono formate quelle nozioni e quei
procedimenti che hanno costituito il fondamento, pur mutuato da altre influenze, degli attuali princìpi del
diritto penale e del diritto processuale penale, con particolare rilevanza al tema del “giusto processo”. Tale
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espressione, che si differenzia dal mero diritto a un processo, ha assunto un’importanza sempre maggiore a
partire dal 1950, quando venne riconosciuto nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). All’articolo 6 sono enunciati i canoni che consentono di
definire equo un processo, ripresi poi dal Protocollo 11 firmato a Strasburgo nel 1994 nella rubrica «Diritto a
un processo equo» e recepiti nell’ordinamento italiano dalla legge costituzionale n. 2/1999, rubricata
«Inserimento dei principi del giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione».
La problematica di garantire a ogni cittadino un giusto processo era già stata affrontata dalla legislazione e
dalla dottrina romanistica, specialmente nell’ambito criminale. Si deve a Marco Tullio Cicerone la prima
formulazione dell’espressione giusto processo (aequum iudicium). L’oratore dovette affrontare questa
problematica nel corso della sua attività forense, proprio in un processo criminale nella fase
tardorepubblicana.
Nel 66 a.C. egli assunse la difesa di Aulo Cluenzio Abito, accusato da Oppianico dell’avvelenamento (72
a.C.) del padre di questi. Il processo era stato preceduto da intrigate vicende e tensioni tra i cittadini, e si era
creato un clima potenzialmente compromettente per l’imparzialità della giuria popolare. Nella sua arringa
difensiva Cicerone disse:
«Nihil esse homini tam timendum quam invidiam, nihil innocenti suscepta invidia tam optandum quam
aequum iudicium, quod in hoc uno denique falsae infamiae finis aliqui atque exitus reperiatur» (Cic., pro
Cluentio. 3.7)
Tramite queste parole l’oratore non si riferiva al diritto a un processo per il suo assistito, né alla violazione
delle procedure per l’istituzione del tribunale competente per il reato di veneficio (la quaestio de veneficis),
ma intendeva affermare che non ogni processo svolto in conformità del rito processuale prescritto dalla legge
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potesse essere qualificato equo. È sempre Cicerone che enuclea i canoni di quello che egli considera essere
un aequum iudicium sulla base della sua esperienza in ambito politico e giuridico, sostenendo che un
1 CANTARELLA E., I supplizi capitali in Grecia e a Roma. Origini e funzioni delle pene di morte nell’antichità
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classica, BUR Supersaggi, Milano 1996 .
2 Ibidem.
3 Sulla distinzione vd in dettaglio CERAMI P., “Diritto al processo e diritto ad un «giusto» processo: radici romane di
una problematica attuale”, il testo riproduce il contenuto di una relazione tenuta a Roma nel giugno del 2005 in
occasione di un Convegno in memoria di Giovanni Pugliese.
4 CERAMI P., DI CHIARA G., MICELI M., Profili processualistici dell’esperienza giuridica europea.
Dall’esperienza romana all’esperienza moderna, Giappichelli Editore, Torino 2003. 2
processo equo potesse essere definito tale solo in presenza del contraddittorio tra le parti ( aequa condicio),
l’assenza di giudizi precostituiti del giudice, la presunzione di innocenza dell’accusato e la ragionevole
durata dei tempi processuali.
Non pare essere questo il luogo adatto per sviluppare ogni aspetto della riflessione ciceroniana e delle
caratteristiche di un giusto processo. Lo scopo del presente testo è quello di illustrare il sistema processuale
penale romano che più di tutti si è avvicinato, formalmente e non di rado sostanzialmente, ai princìpi
dell’equo processo espressi nell’articolo 6 della CEDU e nell’articolo 111 della Costituzione. Benché i
recenti studi tendano a individuare nell’ordinamento giuridico tardo imperiale il modello di processo più
confacente al concetto di giusto processo, l’esperienza romanistica delle quaestiones appare un evidente
riscontro dei criteri attuali di processo equo e la locuzione ciceroniana di aequum iudicium risulta di notevole
importanza per l’interpretazione e la comprensione del sistema processuale moderno.
Dall’Età Arcaica alle quaestiones extraordinariae
In epoca monarchica il processo criminale si svolgeva secondo procedimenti molto diversi da quelli delle
successive quaestiones. Il rex era il solo incaricato di reprimere quei comportamenti che potevano
minacciare i valori fondanti dello Stato i quali, per la loro gravità, coinvolgevano l’intera collettività. Tali
condotte erano essenzialmente due: il parricidium, ovvero l’uccisione di un paterfamilias, e la perduellio¸ il
tradimento della patria e la diserzione. La pena prevista per entrambi i crimina era la morte, che veniva
eseguita tramite la poena cullei (la pena del sacco), destinata ai parricidi, oppure attraverso l’applicazione
della lex horrendi carminis, che prevedeva la fustigazione a morte ai condannati per perduellio, o ancora
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tramite la securi percussio, la decapitazione con la scure.
Il processo aveva carattere inquisitorio, non era garantito un contradditorio tra le parti e nemmeno la terzietà
del giudice. Il rex poteva avvalersi di magistrati per eseguire la sentenza, quali i quaestores parricidii e i
duoviri perduellionis, che prendevano il nome dai crimini più gravi ed esercitavano lo ius coercitionis, il
potere di infliggere una sanzione. L’unica garanzia per il cittadino condannato ingiustamente consisteva
nell’appellarsi ai comizi per modificare la sentenza emessa in suo sfavore (provocatio ad populum).
A seguito della cacciata dei re e dell’instaurazione della repubblica il sistema mutò da un giudice unico a un
collegio giudicante formato dalle assemblee popolari. Sulla natura di tale procedimento vi è disaccordo tra
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gli studiosi, in quanto alcuni ritengono fosse un chiaro esempio di modello inquisitorio in quanto il processo
era avviato d’ufficio dal magistrato che intimava all’accusato di comparire entro una certa data dinanzi
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all’assemblea popolare, specificando l’imputazione e la pena che intendeva proporre; altri sostengono che
avesse un carattere accusatorio benché imperfetto, data l’alterità fisica dell’accusatore/funzione inquirente, il
quaesitor che svolgeva le attività investigative e chiamava l’accusato a comparire di fronte ai comizi, e il
giudice/funzione giudicante che era propria dei comitia populi, i soli che potessero iudicare vel multam
inrogare.
Il magistrato, dopo una fase istruttoria (anquisitio), formulava l’accusa da presentare al popolo e fissava un
giorno (diei dictio) nel quale deve presentarsi l’accusato. Il dibattimento si svolgeva in tre successive
adunanze (contiones). Dopo un periodo di 24 giorni (trinundinum), aveva luogo l’accusatio e il popolo
giudicava attraverso il voto, inizialmente a voce e in seguito tramite tavolette cerate. Nonostante la
possibilità che la sentenza comportasse la condanna capitale, spesso avveniva che l’imputato abbandonasse
volontariamente l’Urbe prima che fosse espresso l’ultimo voto per andare in esilio in una città alleata di
Roma. All’espatrio conseguiva la perdita della cittadinanza, la confisca dei beni e il divieto di rientrare in
città pena la morte.
5 CANTARELLA E., op. cit., la quale ritiene la decapitazione con la scure il procedimento più antico di messa a morte
del condannato. Sempre nell’opera vi è la confutazione delle teorie che interpretano la lex horrendi carminis come una
previsione per l’impiccagione, la forca o la crocifissione.
6 Vd tra gli altri SANTALUCIA B., Diritto e processo penale nell’antica Roma, Giuffrè, Milano 1998.
7 Vd tra gli altri CERAMI P., DI CHIARA G., MICELI M., op. cit. 3
Inoltre era sempre previsto l’istituto della provocatio ad populum, sancita come legge nel 509 a.C. (lex
Valeria de provocatione), perfezionato dalle tre leges Porciae del II secolo a.C. che garantivano l’utilizzo di
tale strumento anche ai soldati e a coloro che abitavano oltre un miglio da Roma (199 a.C.), l’estensione
della provocatio anche a gravi pene diverse da quella capitale (195 a.C.), e una sanzione molto severa, forse
la condanna a morte, per il magistrato che non avesse concesso all’accusato di appellarsi ai comizi (184
a.C.). Nel 123 a.C. la lex Sempronia de capite civis vietò di quaerere iniussu populi de capite civis Romani,
ovvero di istituire tribunali straordinari (quaestiones extraordinariae), chiamati a irrogare, ex
senatusconsulto, condanne capitali senza la preventiva autorizzazione del popolo. Dall’88 a.C. fu resa
esplicita e autonoma la dichiarazione di hostis rei publicae che trasformava i nemici di classe in nemici
esterni della repubblica privandoli del diritto della provocatio ad populum.
La procedura degli iudicia populi risultava lunga e complessa. L’espansione territoriale di Roma aveva
aumentato il numero di casi che dovevano essere sottoposti alle assemblee popolari e spesso si trattava di
questioni eccessivamente tecniche perché potessero essere giudicate da comuni cittadini (quali reati di massa
che minacciavano l’autorità dello Stato, stragi,