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Museo della tortura di Volterra Pag. 1
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Carriola dei lavori forzati. Ai più sembrerà lo strumento di tortura meno terribile rispetto al campionario che riserva il

museo, ma l’utilizzo di tale carretta era una pena che veniva comminata a vita e di conseguenza, chi vi veniva

ammanettato sapeva già che non se ne sarebbe mai più separato. L’esistenza di coloro che venivano condannati ai

lavori forzati era un lento ed inesorabile abbrutimento: costretti a vagabondare per le vie della città, raccoglievano nella

carriola la sporcizia ed i liquami di uomini ed animali; logori nei vestiti, quasi sempre scalzi, si annunciavano per mezzo

di una campanellina posta al collo ed erano oggetto di scherno di bambini e passanti. Non capitava di rado che

annunciati dal sonaglio, fossero bersaglio degli escrementi rovesciati nella via dalle finestre dei palazzi: purtroppo per

loro, era molto poco il contenuto dei vasi che centrava la carriola, il resto finiva loro addosso od andava prontamente

raccolto.

Ceppo della pubblica gogna. La vittima, con le mani ed i piedi serrati nelle apposite aperture, ed in questa maniera

esposta in piazza alla folla, veniva, nella migliore delle ipotesi, stuzzicata, schiaffeggiata ed imbrattata di sterco e di

orina, sostanze queste, prelevate dai vasi da notte e dai pozzi neri, che le venivano spalmate in bocca, nelle orecchie,

nel naso, nei capelli; ma veniva anche picchiata, lapidata, ustionata, lacerata, spesso severamente mutilata. Anche il

solletico forzato ed incessante, ai fianchi o sulla pianta dei piedi, presto si trasformava in una tortura insopportabile.

Soltanto i trasgressori più innoqui potevano sperare di cavarsela con qualche livido e bernoccolo. Le illustrazioni in libri

da ragazzi, il cinema, la televisione in genere ritraggono la gogna con colori umoristici, con al centro una vittima

brontolona che viene beffata dai suoi pari e vicini con burbera grettezza, ma sempre in vena benevola. La verità era però

ben diversa.

Cintura di castità. Un’imperitura mitologia popolare, ma echeggiata anche in ambienti ed in libri accademici, mistifica

questi arnesi. La favola vuole che essi servissero per assicurare la fedeltà delle mogli durante le lunghe assenze dei

mariti, ed in particolare, non si sa bene perché, dal momento che non si ha conoscenza di alcuna documentazione che

suffragherebbe un’ipotesi simile, delle mogli dei cavalieri crociati che stavano per recarsi in terra santa. Può anche darsi

che a volte, ma non come usanza normale, la “fedeltà” venisse assicurata in qualche modo per brevi periodi, per qualche

ora o per un paio di giorni, ma mai per termini più lunghi. Un momento di riflessione metterà in evidenza l’assurdità di un

tale scenario: una donna così abbigliata sarebbe ben presto preda della morte per setticemia, cagionata dagli irremovibili

residui tossici, per non parlare delle abrasioni e delle lacerazioni provocate dal solo attrito con il ferro, a prescindere

anche, infine, dalla non scarsa probabilità che la donna al momento della partenza del marito possa essere incinta. L’uso

prevalente della cintura era ben diverso: quello di far da barriera contro lo stupro, una barriera fragile ma all’uopo ed in

determinate circostanze sufficiente: in tempi di acquartieramento di soldati in paese, durante i pernottamenti in locande,

in viaggio in genere (specie via mare, si immagini la situazione di una donna, anche se accompagnata dall’uomo amato,

a bordo di un’imbarcazione equipaggiata con uomini provenienti, come lo erano nove decimi delle ciurme del passato,

dagli strati più abbietti della società). Si sa da numerose testimonianze che le donne si serravano nelle cinture di

iniziativa propria, fatto questo che sarà forse ricordato da alcune anziane siciliane e spagnole tuttora viventi. Quindi

sorge la domanda: la cintura o non è uno strumento di tortura? E la risposta è un inequivocabile sì, perché questa

umiliazione è imposta dal terrore di dover subire senza volere le violenze di un uomo.

Collane per fannulloni e “renitenti”. Strumento di pubblico ludibrio, quello “di fannullone” era riservato in alcuna città per

esporre in piazza i giocatori ed i fumatori, con le sole conseguenze, al minimo dolorose ma anche spesso gravi e persino

mortali. Collane simili consistenti in pesanti bottiglie di legno o di pietra, in “pesi da bilancia” od in grosse “monete” di

ferro venivano appese ai colli di ubriaconi e di mercanti disonesti. Ai bracconieri si legavano catene con attaccati i

cadaveri degli animali presi di frodo, fino alla putrefazione ed al distacco delle membra di essi, punizione questa

particolarmente efficace in estate. La collana “da renitente” venivs inflitta nei casi più leggeri di renitenza alla messa

domenicale, una specie di paterno ammonimento prima dell’arresto per apostasia e della tortura. Questi congegni

cagionavano, dopo qualche giorno e notte di inflizione, tormenti non indifferenti.

Collare spinato punitivo e letale. Munito di aculei su tutti i lati, questo strumento, che pesa più di 5 chilogrammi, viene

serrato al collo della vittima, la quale, il più delle volte, è già incatenata al muro del carcere dove languisce in condizioni

Dettagli
A.A. 2017-2018
3 pagine
SSD Scienze giuridiche IUS/17 Diritto penale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher francesca ghione di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto penale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Torino o del prof Riverditi Maurizio.