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XIX

chimico su supporto di vetro o di carta di un’immagine generata attraverso la camera oscura. Questa tecnica realizzava per la prima

volta nella storia il mito dell’acheiropoietos, immagine non generata da mano umana.

Il dibattito teorico che senza soluzione di continuità dall’Ottocento prosegue fino ai primi decenni del Novecento aveva conosciuto

sovente delle polarizzazioni fra gli ammiratori (E. Zola) della precisione imparziale della macchina e coloro che sdegnati volevano la

nuova tecnica asservita all’arte (C. Baudelaire).

Walter Benjamin (1892­1940) è il primo che valuta la fotografia nell’intreccio dei cambiamenti sociali e ideologici che caratterizzano

la modernità.

Nella sua Kleine Geschichte der Fotografie (1931) egli rivolge uno sguardo ammirato ai primordi della fotografia. Le dagherrotipie

degli anni Quaranta dell’Ottocento ritraevano gli uomini in un atteggiamento di sicurezza e dignità che derivava loro dal raggiunto

status sociale e dal rispetto nei confronti dell’operatore fotografico.

La progressiva commercializzazione delle immagini, la decadenza del gusto borghese, la nascita della fotografia amatoriale (Kodak

lancia sul mercato nel 1888 la prima macchina di facile uso) distrussero l’aura che emanava dai primi clichés.

La perdita dell’aura è diventata però secondo Benjamin, grazie ad alcuni grandi fotografi di inizio secolo, come Eugène Atget (1857­

1927), un tema rappresentativo dell’alienazione fra uomo e spazio urbano, anticipando motivi sviluppati in seguito dai surrealisti. La

riproducibilità tecnica garantita dalla fotografia rende possibile una ricezione di massa dell’arte e stimola l’elaborazione di categorie

estetiche in sintonia con un nuovo ritmo di vita.

Dal Futurismo italiano giunge uno dei primi documenti di questa ricerca artistica applicata alla fotografia. Nel 1911 Anton Giulio

Bragaglia (1890­1960) pubblica il manifesto del Foto dinamismo futurista: la fotografia doveva lasciarsi alle spalle le riprese statiche

che congelano la realtà, essa doveva esprimere la vita quale puro movimento. Bragaglia stesso mette in atto questa rivoluzione

attraverso le sue foto dinamiche: una tecnica di ripresa che, tramite un tempo di apertura prolungato dell’otturatore, imprime sulla

pellicola le traiettorie di un corpo in movimento.

Le fotodinamiche sono per Bragaglia espressioni di un’arte più autentica di qualsiasi rappresentazione realistica in quanto in grado di

rappresentare assieme al reale anche il trascendente. Non sorprende dunque che egli praticasse anche sedute di fotografia spiritica,

volte a cogliere il fantasma della realtà. La fotografia di Bragaglia risentiva, del resto, del fiorire, caratteristico dei primi decenni del

Novecento, di dottrine esoteriche che si proponevano di riconferire alla realtà quell’aura che il progresso tecnico, come aveva

rilevato Benjamin, aveva dissolto.

Se il Futurismo esaltava il movimento, l’ungherese Laszlo Moholy­Nagy (1895­1946) individuava nella luce la rivoluzione del xx

secolo e mirava a farne un mezzo espressivo nell’arte. Nelle sue teorie, influenzate dal costruttivismo e dal Bauhaus, la fotografia

rappresenta un passaggio nodale fra passato e futuro: essa forniva soluzioni nuove all’antico problema della luce, al centro dell’arte

figurativa occidentale fin dal Rinascimento, e preludeva al linguaggio del cinema che, attraverso il movimento e il sonoro, rendeva

possibile una percezione sinestetica della realtà.

Un uso creativo della fotografia apriva all’artista inesplorati territori di ricerca. Moholy consiglia e sperimenta lui stesso, ad esempio,

inquadrature stranianti che colgono la realtà dal basso o dall’alto, l’uso dei raggi x che penetrano la struttura dell’oggetto, la tecnica

delfotogramma cioè dell’impressione diretta dell’impronta degli oggetti su carta fotosensibile senza l’uso della macchina fotografica.

La modernità delle riflessioni di Moholy risiede nel suo approccio intermediale alla fotografia anticipando il dibattito contemporaneo

degli studi di cultura visuale.

La riflessione sulle relazioni fra fotografia e arte ha favorito nel corso del Novecento il diffondersi di una considerazione della

fotografia, vista non più come semplice tecnica di riproduzione della realtà, ma sempre più come mezzo di produzione estetica.

Una concezione di segno opposto alla fotografia artistica si affermò in America fra gli anni Dieci e Quaranta negli ambienti culturali

newyorkesi, in particolare attorno alla figura del fotografoAlfred Stieglitz (1864­1946) e al teorico Paul Strand (1890­1976).

Il realismo fotografico americano esalta il fotografo­operatore che fa un uso franco e diretto (straight) della tecnica: la fotografia non

deve mirare a modificare la realtà o addiritturaa costruirne una nuova, deve semplicemente documentarla. Alla base di

quest’esaltazione della referenza pura vi è la fiducia, tipica del pragmatismo americano, in una realtà che si rivela conoscibile

attraverso l’osservazione e rappresentabile attraverso una macchina amica dell’uomo.

Il realismo fotografico americano contribuì alla nascita del fotogiornalismo (nel 1936 esce il primo numero del settimanale Life) e con

esso del mito del fotoreporter, pronto a catturare i fatti nel luogo e nel momento stesso in cui avvengono. Si tratta di una svolta

epocale: l’affermarsi nella mentalità collettiva di un nesso immediato fra fotografia e credibilità dell’informazione.

Il progressivo inserimento della fotografia nel sistema della comunicazione di massa costituisce un dato imprescindibile per ogni

approccio critico alla fotografia a partire dal secondo dopoguerra. In tale contesto si possono individuare, con buona dose di

approssimazione, tre tendenze fondamentali.

Fotografia e mass­media. Numerose analisi critiche si concentrano sulla fotografia quale artefice, assieme agli altri media, di una

ridefinizione della percezione collettiva della realtà.

Una riflessione critica che si appunta contro l’obiettività fotografica decantata dai giornali fu formulata, già nel 1927, da Siegfried

Kracauer (1889­1966). Egli collega il fenomeno quantitativo della marea di immagini dei media a un’analisi qualitativa della

percezione fotografica. La fotografia che offre all’osservatore la totalità spaziale di una scena è strettamente dipendente dal

momento in cui viene effettuata la ripresa. Venendo meno quella totalità diminuisce il valore segnico della fotografia; ne consegue

che, quanto più lungo è il tempo trascorso fra il passato dello scatto e il presente dell’osservazione, tanto più difficile risulta

la lettura della fotografia. In questo modo viene sminuito il mito giornalistico dell’attualità della fotografia che ormai si riduce a

immagine opaca. Al contrario le immagini dell’arte e perfino le immagini volatili della memoria comunicano in virtù della

propria trasparenza: esse possono essere penetrate dalla critica e mediare una vera conoscenza della realtà. Paradossalmente

nessun’epoca conosce così poco se stessa come la presente che crede di rispecchiarsi nelle immagini della stampa. Non è lecito

del resto idealizzare la fotografia, prodotto della società capitalistica alienata dalla falsa coscienza.

Roland Barthes, Miti d'oggi

Mezzo secolo fa veniva pubblicato Miti d’oggi, il saggio con cui Roland Barthes analizzava la società di massa degli anni Cinquanta.

Sotto la sua lente, gli oggetti della vita quotidiana e dei media diventavano la chiave di lettura per capire il proprio tempo e la propria

società.Per Barthes, il mito non sta nelle cose in sé, ma nel modo in cui esse vengono comunicate. Il principio della cultura di massa

“sta nella capacità di trasformare il culturale in naturale”. Ciò che è stato artificialmente costruito diventa, attraverso la

comunicazione di massa, qualcosa che ci appartiene indissolubilmente. Gianfranco Marrone riflette sull’insegnamento di Roland

Barthes e sull’assenza, nell’attuale società, di qualcosa di paragonabile alla critica culturale di quegli anni.I sordidi incontri di catch

nelle periferie parigine, la bistecca al sangue e le eterne patate fritte, la pubblicità dei detersivi iperschiumosi, gli antichi romani nei

film di Mankiewicz, l’epopea ciclistica del tour de France, le rubriche astrologiche nelle riviste femminili, la Citröen DS, il viso algido di

Greta Garbo nella Regina Cristina, lo strip tease al Moulin Rouge, Gide in vacanza sul fiume Congo che legge Bossuet, le fotografie

di pietanze ornamentali sui giornali di cucina, l’operaio di Chaplin in Tempi moderni, la capigliatura dell’Abbé Pierre, i monumenti e i

ristoranti delle guide turistiche, la spasmodica ricerca degli extraterrestri, il cervello di Einstein conteso fra le università americane,

l’invenzione della plastica, le tautologie della critica teatrale accademica, la stupefacente velocità dei jet, il consumo rituale del vino e

le purificazioni del latte, le immagini dei candidati nei manifesti elettorali...Che cos’hanno in comune? Sono i miti d’oggi. Lo sappiamo

almeno da cinquant’anni: da quando Roland Barthes li ha inscritti d’ufficio nell’ideologia piccolo­borghese della società di massa,

osservando come la cultura mediatica, parlando e riparlando di fatti e persone apparentemente futili, tende a trasformarli in oggetti

tanto superlativi quanto falsamente naturali. Pubblicato nel febbraio del 1957, Miti d’oggi (ma il titolo originale, Mythologies, trascura

ogni riferimento all’attualità contingente) è destinato così a diventare uno dei più fortunati livres de chevet del ‘900. Inaspettato

successo editoriale, questa raccolta di brevi articoli che Barthes pubblicava nella sua rubrica mensile sul France Observateur è uno

di quei rari testi che, riaperti in momenti e circostanze diversi, non cessano di stupire. Scorrendo le pagine a caso e saltando fra

argomenti eterocliti, vi si trova sempre l’osservazione acuta, la battuta sarcastica, l’analisi approfondita, la prospettiva inusuale a

partire dalla quale riflettere su dettagli a prima vista insignificanti della vita quotidiana, della cronaca e dello spettacolo mediatici.

Credete di sapere già tutto sull’estetica e sul valore sociale delle automobili? Provate a rileggere le due densissime pagine sulla

celebre Deésse: vi troverete un accurato studio sul design delle giunture, dei finestrini e del cruscotto che ben giustifica l’idea

secondo la quale «oggi l’automobile è l’equivalente abbastanza esatto delle grandi cattedrali gotiche».Pensate che la pubblicità non

abbia più nulla di segreto? Riaprite le pagine che esaminano la differenza narrativa fra liquidi saponificanti e polveri detersive: ve

Dettagli
A.A. 2013-2014
7 pagine
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SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/06 Cinema, fotografia e televisione

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher alessandro.lora-1993 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Media: Storia e teoria e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Torino o del prof Ortoleva Peppino.