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NOTTI DI LUCIA E DELL'INNOMINATO (XX-XXI)
Dittico fondamentale di snodo, non a caso con protagonista Lucia, il che ci dice della coscienza del narratore della sua non-passività. Parallelismo che mette in evidenza le differenze (avversativa "ma"), ma notti non del tutto parallele perché Lucia, dopo la preghiera mariana, riuscirà ad addormentarsi, mentre l'innominato no. I due capitoli sono preceduti da una grande simmetria alla fine del cap. XIX: dopo il colloquio tra le due canizie, c'è l'incontro tra don Rodrigo, che ha saputo del convento in cui sta Lucia e decide di appellarsi all'illegalità completa della prepotenza, e l'innominato. Alle due canizie consumate nella retorica dei raggiri subentra la diadi don Rodrigo-innominato. Alla fine del capitolo troviamo il ritratto morale e storico dell'innominato, fondato sulla storia del Ripamonti e del Rivola che cela il personaggio storico di Bernardino Visconti.
(grande preparazione storica di Manzoni nel costruire personaggi misti tra storia e invenzione, come Gertrude e l'innominato, o totalmente inventati, come Renzo e Lucia: anche l'interiorità dei personaggi più grandi è stata dimenticata dalla storia). L'innominato è presentato come un tiranno tra storia ufficiale e leggenda popolare, fama che costituisce il principale deterrente dei suoi nemici, che sembrano non esserci: tutti quelli che vivono intorno a lui sono vassalli del male, compreso don Rodrigo. La serie di infiniti costituisce le caratteristiche dell'innominato, che si presenta un tutt'uno con l'ambiente in cui è inserito, con il castellaccio, la schiera di bravi e l'osteria che ha il nome parlante di Malanotte (antifrastica perché reca nell'insegna un sole raggiante). La luna compare solo a illuminare la finestra a inferriate dell'innominato e a creare un'inferriata fittizia sul pavimento,
ed è una luna angosciosa come quella di Renzo. I due capp. XX e XXI sono sigillati dall'innominato alla finestra (osservatore come nei quadri di Friedrich, che cammina avanti e indietro per la stanza come Rodrigo dopo il colloquio con Cristoforo nella stanza dei ritratti o quando attende l'esito dell'aspedizione per rapire Lucia + nelle nuvole c'è il ricordo di Abbondio che distrattamente contempla il tramonto all'inizio del romanzo), prima quando Lucia sta per arrivare e poi quando vede l'alba dopo il cambiamento, che tuttavia non è improvviso, ma graduale (negli ultimi tempi ha cominciato a sentire una "cert'uggia" delle sue celleratezze, il percorso comincia ancora prima del colloquio con don Rodrigo): Manzoni sembra riflettere nell'innominato la propria conversione, più che in quella di Lodovico, il che fa pensare che nemmeno la riconversione di Manzoni sia stata improvvisa, come suggerirebbe l'aneddoto.Di Enrichetta persa tra la folla. L'aspetto che prevale in questa lenta conversione, rilevato con cinismo dal narratore, è che il masnadiero è divenuto un faccendiero nelle mani dei suoi sottomessi. L'altro aspetto paradossale è che qualche volta, per dimostrare di essere superiore alle parti, è accaduto che egli sia intervenuto prendendo le parti di un debole contro un oppresso, perché non esiste nessun altra forza pubblica che faccia giustizia alle sopraffazioni.
Segmenti cap. XX:
- Descrizione del castellaccio;
- Ritratto morale e fisico dell'innominato;
- Incontro con don Rodrigo;
- Proposta di Egidio a Gertrude del rapimento di Lucia;
- Attesa dell'innominato di Lucia.
Il ritratto morale è uno dei ritratti della preistoria dell'innominato, come molti altri Promessi: nei l'innominato ha votato la sua vita al non farsi comandare da nessuno sopra di lui, abitando al confine, luogo aspro dove sarebbe stato più
difficile scovarlo; è un cronotopo, concetto attinto dalla teoria della relatività di Einstein e applicato alla letteratura da Bachtin, teorico del romanzo polifonico, che ben si attaglia al personaggio ingovernabile come l'innominato.
Il ritratto fisico è dilazionato al termine della sua leggenda e della ricostruzione storico-biografica: l'innominato non ha le esigenze di Rodrigo, preferisce vivere in un "deserto antropico" lontano da ogni essere umano. Nel passaggio dal ai Promessi perde quell'aura banditesca alla Scott, tipica dei romanzi storici: il ritratto è presentato alla fine del capitolo XX, come spesso accade per una sorta di sorpresa del pointe Manzoni secondo la, il colpo di scena tipico della fine dell'epigramma satirico.
L'apparato nobiliare non maschera la meschinità degli intenti di Rodrigo, che è chiara all'innominato, che lo conosce perfettamente essendone vassallo e prova
Diffidenza verso questo tirannello. Il ritratto, con l'avversativa "ma", mostra la duplicità non solo nella crisi interiore, ma anche nella sua fisionomia: gli occhi sfolgoranti ricordano per affinità Cristoforo. Cristoforo è legato alla morte come realtà fisica di cui egli stesso è divenuto responsabile e si è convertito, l'innominato pensa alla morte come formidabile subita una "costernazione repentina" (citazione biblica dal libro di Giobbe, della morte), benché ci abbia avuto a che fare più volte: in questo sono diversi perché per l'innominato non c'è un unico omicidio, ma un'intera vita di delitti; la conversione è in entrambi i casi graduale, come quella di Manzoni. Gertrude ha in comune con questi due personaggi la narrazione delle prime fasi della vita (vd. innominato che si ricorda delle preghiere da bambino, come Renzo delle favole).
incipit L' del cap. XX
È una straordinaria descrizione del castellaccio dell'innominato, in anticipo rispetto al suo ritratto, ma che ne è una sua rappresentazione simbolica, che avrà il suo apice nel cap. XXI con i monologhi interiori della notte. La crisi però è già anticipata nel XX, fin da quando arriva Rodrigo, perché il narratore non intende giocare su fattori miracolistici, ma graduali, nel confronto tra le memorie del passato e il presente, anticipando il futuro nel cercare il significato dell'invecchiare e del morire nella società barocca che reifica il cadavere (cfr. attenzione al passaggio del tempo e agli orologi di Ciro di Pers). Il castello è presentato con vocaboli non consueti, lirici o liricheggianti, con allitterazioni aspre: sulla matrice nell'incipit spaziale operante romanzesco si innesta la descrizione (cfr. Resegone/"giogaia di monti"); il paesaggio disforico richiama il paesaggio alpestre del viaggio del.diacono Martino, ma qui la natura assomiglia più a certi paesaggi dell'Ortis, Lettera da Ventimiglia dell'Italia settentrionale con precipizi (cfr. con la valle del fiume Roia con le croci dei viandanti assassinati dai banditi nel cimitero, cfr. paesaggi sublimi, la montagna è una dei luoghi preferiti dai romantici, ad es. da Byron Manfred Masnadieri nel tradotto dal Pellico, oppure nei di Schiller, mentre Carducci riporterà la solarità della montagna). "Tane" esprime anche la natura animalesca degli abitanti. Questa descrizione si adatta a un paesaggio non solo rupestre, ma anche altissimo, come si conviene a un tiranno che è superiore a tutti gli altri nella sua straordinarietà: in questo capitolo ci sono molti alterati con suffisso dispregiativo ("castellaccio", "torrentaccio", "visacci"), mentre "casucce" è un diminutivo non gradevole per le case dei servi della gleba.
(presenza umana). La selvatichezza del paesaggio è lo specchio dell'interiorità del signore (vd. allitterazione della sibilante), che non vede nessuno, né umano né divino, al di sopra di sé (riecheggiamento blasfemo del Salmo 90, in cui si fa riferimento all'aquila, l'animale più vicino a Dio e quasi sempre equivalente zoomorfo della divinità; nei Salmi altre figure di uccelli stanno sulle ali dell'aquila per protezione). In questo cronotopo si negano le strade del romanzo, perché sono sempre contrassegnate dalla protezione dei bravi: non c'è più nulla della grazia settecentesca della linea a serpentina, conosciuta nei giardini inglesi ed esaltata anche dagli Italiani, in particolare da Aurelio de' Giorgi Bertola, che vi paragona il Reno. Affiora l'elemento della finestra, da cui il signore selvaggio può contemplare il paesaggio: un'altra finestra importante in rapporto
con l'innominato è quella di Egidio che guarda sul convento da cui riesce ad attirare l'attenzione della signora. La finestra è anche un luogo d'osservazione di quadri tipicamente romantici (cfr. Friedrich). Dimensione favolosa legata ai birri che si tengono alla larga dalla zona da tempo. L'Anonimo collega direttamente il momento in cui Rodrigo è ai piedi del poggio, quando esce dalla taverna un "ragazzaccio armato come un saracino": elemento della mentalità popolare che ha a che fare con il maligno dipinto, dopo l'epoca delle Crociate, come il Saraceno, il Turco. Anche le carte sudicie ammoniscono il lettore su un'osteria in cui è tutto moralmente ed esteticamente brutto: Rodrigo raramente siscappella, lo fa solo per il padrone molto più potente di lui. I bravi hanno nomi castici, parlanti (Tiradritto, Montanarolo...) con l'effetto di ambiguità di "bravagente".antifrastico e rivocante i bravi. Il castellaccio all'interno è buio come il suo padrone, presenta armi e armigeri: l'attesa di Rodrigo è abbastanza lunga, ed è commisurata alle esigenze del grande tiranno, che tenta di capire da indizi somatici quale sia il suo interlocutore tramite il viso e le mani. Questa diffidenza è pari solo a quella di Abbondio, come lo è il viso rugoso: sono due senilità agli antipodi, uno è il vecchio della paura, l'altro è un uomo che con la paura e attraverso il coraggio ha vissuto tutta la vita. Cristoforo non è solo il protettore di Lucia, ma anche un nemico odiato dei tiranni. L'innominato non ha nome a causa di una delle figure retoriche più amate dal Manzoni, la reticenza. Nel capp. XX ha in mente due cose: il suicidio, dato dalla disperazione, da cui si ritrae all'immagine del suo corpo abbandonato putrescente secondo una fantasia barocca, e il pensiero consolante.
di Lucia e del suo detto “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia”