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Poi gli animali feroci esultano per i pascoli lieti
e guadano i rapidi fiumi: così catturato dal fascino
ti segue desiderosamente dove voglia condurre ciascuno.
Infine attraverso i mari e i monti e i fiumi rapaci
e le frondose dimore degli uccelli e i campi verdeggianti
incutendo a tutti attraverso i petti il blando amore
fai che desiderosamente propaghino i secoli per le generazioni.
Che poiché sola governi la natura delle cose
né qualcuno senza di te sorge nelle divine ore della luce
e né accade niente di lieto né amabile,
io desidero che tu sia compagna nello scrivere versi
che io mi sforzo di comporre sulla natura delle cose
per il nostro Memmiade, che tu, o dea, volesti che eccellesse adornato di tutte le cose
in ogni tempo.
Con cui dà, o dea, più fascino eterno ai detti.
Fai che intanto le feroci opere della guerra
per tutti i mari e le terre si acquietino sopite.
Infatti tu sola puoi giovare ai mortali con una pace tranquilla,
poiché Marte armipotente governa le feroci azioni di guerra,
il quale spesso si reclina sul grembo tuo vinto dall’eterna ferita dell’amore,
e così osservando con la tornita testa riposta
pasce in te, o dea, desideroso di amore gli occhi avidi,
e dalla tua bocca pende il respiro del supino.
Tu, o dea, riversata su lui che riposa sul tuo corpo santo, fondi dalla bocca soavi
parole chiedendo, o gloriosa, una placida pace per i Romani.
Infatti noi né possiamo compiere questo in un tempo iniquo alla patria con equo
animo né l’illustre stirpe di Memmio manca in tali situazioni per la salvezza comune.
Infatti ogni natura degli dei è necessario che fruisca per sé di un tempo immortale con
somma pace
rimossa dalle nostre cose e lungamente distaccata.
Infatti privata da ogni dolore, privata dai pericoli,
essa stessa potente per le sue forze, per nulla bisognosa di noi,
non è presa bene dai meriti né è toccata dall’ira.
Ciò che supera, adibisci orecchie (e animo sagace) rimosso dalle angosce vacue per
una giusta ragione,
affinché tu non abbandoni i miei doni, disposti per te con cura fedele, disprezzati
prima che siano stati compresi.
Infatti a te inizierò a disserire della somma ragione del cielo e degli dei ed espanderò
i primordi delle cose,
da dove la natura crei ogni cosa la accresce e la alimenta
e dove di nuovo la medesima natura mortale dissolva,
che noi siamo soliti chiamare materia e corpi generatori delle cose e definire semi
delle cose nella dottrina da trattare e questi medesimi adoperarli come corpi primi,
poiché da questi primi esistono tutte le cose.
Quando la vita umana turpemente giaceva davanti agli occhi
sulla terra oppressa sotto la grave religione
che mostrava il capo dalle regioni del cielo
incombendo sopra i mortali con un aspetto orribile,
per primo un uomo Greco osò sollevare contro gli occhi mortali e per primo
drizzarseli contro,
che non lo compresse la fama degli dei né i fulmini né il cielo con il mormorio
minaccioso, ma da quello più irrita l’acre virtù dell’animo, affinché per primo
desiderasse infrangere le strette sbarre delle porte della natura.
Dunque vinse la vivida forza dell’animo, e avanzò lontano oltre le mura
fiammeggianti del mondo
e peregrinò con la mente e con l’animo tutta l’immensità,
da dove riporta a noi il vincitore che possa nascere,
che non possa, infine per quale motivo ci sia per ciascuno un potere limitato e un
termine profondamente aderente.
Perciò la religione a sua volta abbattuta sotto i piedi
è calpestata, la vittoria ci eguaglia al cielo.
In queste cose temo ciò, che tu per caso pensi di introdurti negli elementi empi della
ragione e di intraprendere la via della scelleratezza.
Poiché al contrario più spesso quella religione produsse azioni scellerate ed empie.
Con questo patto i condottieri scelti dei Danai i primi degli uomini, deturparono
turpemente l’altare della vergine Trivia in Aulide con il sangue di Ifigenìa.
A costei appena la benda circondando le chiome virginee
scese da entrambe le parti delle guance parimenti,
e appena notò il padre mesto stare davanti gli altari
e presso quello i sacerdoti nascondevano la spada
e i cittadini diffondevano lacrime al suo cospetto,
muta per la paura cercava la terra caduta sulle ginocchia.
Né poteva giovare alla misera in tale tempo
che per prima aveva donato il nome patrio al re.
Infatti sollevata dalle mani degli uomini e fu condotta tremante agli altari,
non affinché potesse essere accompagnata in un luminoso Imeneo compiuto il
costume solenne dei sacrifici,
ma casta incastamente nello stesso tempo dello sposare,
cadesse mesta vittima per il colpo del padre,
affinché fosse data una partenza felice e fausta alla flotta.
Tanto di mali poté persuadere la superstizione.
Proprio tu già in qualsivoglia tempo vinto dai detti terribili dei vati cercherai di
allontanarti da noi.
Giacché infatti quanto molti sogni possono plasmare già per te che possano
sconvolgere le ragioni della vita
e turbare con il terrore ogni tua gioia!
E meritatamente. Infatti se gli uomini vedessero che la fine delle fatiche è certa,
servirebbe in qualche maniera resistere alle superstizioni e alle minacce dei vati.
Ora non c’è nessuna ragione, nessuna possibilità di resistere,
poiché nella morte si deve temere le pene eterne.
Infatti si ignora quale sia la natura dell’anima,
se sia innata o al contrario si insinui nei nascenti,
o se muoia insieme con noi dissolta dalla morte
o veda le tenebre dell’Orco e le vaste paludi
o se si insinui divinamente in altre bestie,
come cantò il nostro Ennio che per primo trasportò dall’ameno Elicòna una corona di
fronda perenne,
che risultasse famosa per le genti italiche degli uomini;
anche se tuttavia intanto Ennio espone manifestando in versi eterni che esistono i
templi Acherontici,
dove non rimarrebbero né le anime né i nostri corpi,