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Testi non troppo lunghi, non troppo corti
Titolo: anticipazione cataforica del tema e ripresa. La parola chiave deve comparire nel
titolo ed essere ripresa nel primo paragrafo
Flame: reazioni esagerate
Haters 1800s – Manzoni
Primo venticinquennio – si pongono le basi perché si padroneggi la lingua a sufficienza da giocarci
Lingua manzoniana: fiorentino dell'uso vivo
Panorama lignuistico variegato
Puristi: Cesari, Puoti, Botta → partendo da una posizione tradizionale, sono venati
dall'antifrancesismo e pensano che la ricetta per un italiano ideale per la scrittura sia quella
di rifarsi da un mitologico periodo aureo dell'Italiano (Cesari:1300 fioretino; Puoti: 1500
tradizione letteraria); posizione variamente naturalista: il fiorentino è più bello per un fatto
naturale, glottologicamente più bello, lingua superiore → inganno classicistico - in realtà
tutte le lingue sono equipotenti e funzionalmente identiche
Toscanisti: Tommaseo -> Fiorentino contemporaneo o senese contemporaneo
Classicisti: Monti, Leopardi → non si rifanno esattamente ad un set cronologico, ma ai
migliori rappresentanti della cultura letteraria nel suo complesso. Puristi considerati
meschini conservatori di una lingua ormai morta, che tentano di resuscitare delle mummie.
Manzoni
Manzoni: Faro all'interno della questione linguistica ottocentesca. Tutta la sua esperienza, il suo
peso, nasce da un'esigenza pesonale: di sé come narratore. Tentativo di risolvere priblema di
espressione in un'opera narrativa che doveva essere al contempo opera di storia e di invenzione.
Dovrebbe rappresentare credibilmente le cose che racconta. Se si racconta di popolani incolti del
1600, come si può adibire a tale scopo la ligua letteraria ad es del fiorentino del 1300?
Il punto di partenza si trova nella Lettera al Fauriel (1821) – fitto carteggio, scrive in francese,
sceglie registro medio per il quale l'italiano non si presta. 21/11
Nato come fatto legato alla sua attività di romanziere, scrivere un testo nuovo, misto di invenzione e
di adesione al vero storico, questo probloema diventa punto di partenza di una questione che si
sviluppa per decenni, fino agli anni 70s del secolo e che ha una sua evoluzione internza che lo porta
solo dopo gli anni 30s a pensare che la soluzione al problema della lingua (e non solo della
scrittura) fosse nell’adozione del fiorentino dell’uso vivo. Giunge a tale convinzione attraverso
alcune tappe; prova di questo percorso sta nella stesura del romanzo:
1. Fase eclettica: Lettera al Fauriel (1821), in francese, mentre sta scrivendo Fermo e Lucia -
lamenta la poverta della lingua italiana rispetto a quella francese; povertà che risulta dalla
mancanza di un suo uso continuo e generale da parte degli intellettuali e delle persone colte.
Un tale uso garantirebbe al parlante un “senso quasi sicuro della conformità del suo stile allo
spirito generale della sua lingua”. -> riflessione sul livello stilistico, sulla lingua da utilizzare
nel romanzo in quanto opera di singolo autore; problema della coerenza tra lo stile e lo
spirito generale della sua lingua.
Manca ricchezza di registri e competenza linguistica che gli permetta di “inventare parole o
espressioni nuove con sicurezza, che però non varcassero il limmite fra l’arditezza e la
stravaganza”.
Prima soluzione: perfezione approssimativa di stile e che per raggiungerla occorra pensare molto a
ciò che si sta per dire, aver letto molto degli italiani considerati classici e gli scrittori delle altre
lingue, francesi in particolare, che hanno parlato di argomenti importanti con i propri concittadini;
esempio alloglotto ed esperienza.
Si è dunque vicini a quell’ideale di lingua un po’ approssimativa perché creata sul momento dallo
scrittore in cerca di stile; quel modello linguisticamente composito i cui ingredienti principali sono
italiano della tradizione letteraria ed italiano regionale lombardo, soluzione alla quale erano giunti e
si erano fermati anche i suoi amici (es Cattaneo) il cui dettato è molto vicinio a quello della
ventisettana.
Prima delle due introduzioni al Fermo e Lucia (primavera del 1821): ironizza sul proprio dettato:
dice di non voler publicare il manoscritto dell’anonimo secentista perché vicino com’era alla prosa
dell’aureo cinquecento avrebbe potuto essere preferito al proprio.
Seconda introduzione (1823), quando ormai ha praticamente concluso la scrittura del testo,
scontento palpabile: “ma rigettando come intollerabile lo stile del nostro autore, che stile vi
abbiamo noi sostituito? Qui giace la lepre” (tentativo di ripescaggio colto che risulta in
un’innatualezza) “che giova di simulare, confessiamo sinceramente che anche noi abbiamo
adoperato qua e là non solo nei dialoghi ma anche nella narrazione qualche espressione
assolutamente lombarda, questa libertà l’abbiamo presa perché quelle frasi si fanno comprendere a
prima giunta da ogni lettore italiano. Se noi avessimo conosicuto frasi dello stesso valore quali
fossero non solo intelligibili, ma anche adoperate in scritti ed in discorsi di tutta Italia, certamente le
avremmo preferite a queste nostre, sacrificando di buona voglia l’imitazione di una realtà locale
alla purezza della lingua.” -> albeggia l’idea che la vera rcchezza sarebbe possedere una lingua
anche popolare comune, e che tale forma non esista. -> non è più un problema solo del suo romanzo
A questa altezza il suo testo gli sembra un misto indigesto di latinismi, lombardismi, gallicismi e
forme costruite analogicamente. -> lamenta che una lingua viva non esista.
(Cita anche il libro d’avanzo della lingua, che poi bruciò.)
Nel tentativo di migliorare il proprio romanzo, lo riscrive: ventisettana: prima edizione ad essere
stampata, in tre tomi. Riscrittura completa che modifica la struttura del racconto. Forte sforzo del
Manzoni nel pervenire ad una lingua unitaria per quanto glielo consentano gli strumenti a sua
disposizione. -> Lettera all’amico Luigi Rossari (1825): definisce la fase toscano-milanese
2. Fase toscano-milanese: basata su insospettabili corrispondenze trovate in testi della
tradizione comica tra milanese e toscano. - No ancora consapevolezza di doversi rivolgere
all’uso vivo della lingua, è ancora concentrato su lingua scritta, dunque espressione di tipo
letterario; è però più vicino all’ideale unitario.
Lavoro sui dizionari: della Crusca e del Cherubini (chiave per il passaggio dal milanese al toscano)
Ipotizza il toscano dell’uso vivo come possibile lingua comune
Contesta però due cose:
● Scelta del Tomaseo del toscano dell’uso vivo sulla base di un criterio in essenza puristico (=
nella lingua toscana si trovano più espressioni proprie, eleganti ed espressive che in qualsiasi
altra varietà linguistica d’Italia) -> criterio assolutamente fallace; il motivo deve invece
essere il fatto che il fiorentino sia più noto in quanto tale in Italia ed assunto quasi per intero
come lingua fatta e quindi come organismo linguistico vitale. (più adatto perché ha avuto un
tempo maggiore per svilupparsi ed acquisire lessico ed espressioni nuove adatte a parlare di
qualunque argomento)
● Dubbio sul toscano
Tra il 35 e il 36 scrive un trattatello, Il sentir messa, che nasce come scritto epistolare in risposta del
Manzoni, ma scritto in realtà a quattro mani col Grossi, alle osservazioni che Michele Ponza aveva
fatto in merito alla lingua del Marco Visconti (???). Incarna quell’ideale linguistico toscano-
milanese che trasfonde nella lingua letteraria elementi della lingua settentrionale lombarda. Il
Ponza, di orientamento purista, vi notava la presenza di numerose espressioni calcate sul lombardo
(tra le quali il “sentir messa”).
Il Manzoni giustifica il Grossi → sembrerebbe un tentativo di recupero della fase toscano-milanese;
in realtà mostra di aver virato ormai decisamente nella direzione del fiorentino dell’uso vivo,
anticipando la soluzione linguistica adottata poi nella quarantana. Alcune espressioni, come “sentir
messa”, sono in realtà utilizzate dagli scrittori comici; possono suonare marcate perché tali scrittori
si rifacevano all’uso vivo della lingua, mentre la lingua letteraria a cui il Ponza è abituato se ne era
progressivamente allontanata.
La soluzione per un purista dunque è presente: quelle espressioni sono documentate nei testi
comico-realistici.
Il vero problema rimanente è in realtà un altro, che non è stato sollevato dal Ponza: queste
espressioni sembrano ormai marcate perchè estratte a forza da serbatoi ormai non più vivi della
lingua. → il riferimento all’uso vivo è ormai esplicito
Ancora una volta si punta verso l’uso toscano. Cita Dante: una lingua come quella del Grossi
sarebbe da Dante forse chiamata “volgare illustre”, sta un po’ dappertutto ma da nessuna parte
davvero. Ma quando Dante dice questa cosa in realtà non sta argomentando in favore di questa
lingua sovra-nazionale: il problema è che questo italiano comune non risulta dall’astrazione dei dati
comuni a tutte le varietà come sembrava, ma è il risultato dell’incidenza del toscano su queste
varietà che sono state progressivamente toscanizzate. Non si parla quindi di qualcosa che ha un
fondo comune (anche se c’è il fondo latino), ma si parte da una lingua comune: il toscano. Dunque
Dante ha fatto una questione di stile, non si è porprio occupato della lingua.
Il problema sociologico è invece molto importante per Manzoni
L’idea sociologicamente orientata emerge quando critica anche i classicisti (es. Monti).
Il Monti per giustificare usi idiomatici e lessicali specifici fa riferimento a criteri che non hanno
nulla a che vedere con l’uso effettivo della lingua. Nell’uso effettivo della lingua i criteri
etimologici non contano. -> bisogna invece utilizzare la lingua dell’uso vivo, con tutte le sue
stranezze ed irregolarità.
“L’uso è l’arbitro, il signore delle lingue come tutti affermano. Anzi, si può dire è le lingue stesse.
Però questo uso è mutabile, qualità la quale è un vantaggio e un inconveniente insieme, ma ad ogni
modo gli è ingenita, e pur da nessuno è posta in dubbio. Vantaggio, perché arreca nelle lingue
aumento e miglioramento, inconveniente, perché dove cade toglie loro quella certezza di che hanno
tanto bisogno di che dicono.”
→ riflessione di tipo sociologico