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I FOTOROMANZI
Liala firmò anche alcuni fotoromanzi, particolare significativo perché 1) il medium era soggetto
di forte discriminazione e non era quasi mai firmato 2) Liala non lo amava 3) di alcune delle
storie è difficile credere siano state davvero scritte da lei. I fotoromanzi erano considerati
sottoprodotti inquinanti ed erano osteggiati dalla critica cattolica per la loro dubbia moralità, da
quella di sinistra per la diffusione di un modello conformista americaneggiante e l’estraneità da
ogni istanza sociale, e da quella femminista per l’immagine della donna lontana da ogni forma
di arrivismo. A questi motivi di base ideologica si sovrapponevano i pregiudizi legati alla cultura
umanistica: medium spurio per via del ricorso all’immagine, e considerati di scarso valore a
causa del grande successo. Liala non fu mai scossa dalle critiche ed era sicuramente spinta da
motivi economici, anche se rimase sempre insofferente al mezzo per i vincoli spaziali che non
permettevano una scrittura sciolta, e questa diffidenza verso i fotoromanzi trapela nel romanzo
“Una lacrima nel pugno”. Cimento di Liala avvenne nei primissimi anni Cinquanta, il
fotoromanzo nacque nel 1946 a Milano con “Grand Hôtel”, con le prime vignette disegnate, ma
diverso dai fumetti per il pubblico femminile adulto, poi nacquero altri settimanali come Sogno
e Bolero Film, il primo a sostituire le fotografie alle illustrazioni: esse danno taglio più realistico
e accorciano i tempi di produzione. (Da ricordare la casa editrice romana Lancio che non usava
per le foto personaggi famosi e preferiva lanciarne di propri, trasformandosi in una specie di
talent scout). Testimonianza del pubblico dei primi fotoromanzi ci viene dal Sogno di una cosa
di Pasolini, in cui la lettura di questi connota le sorelle Faedis: ritratto di lettrice ancora positivo,
blandamente trasgressivo. Con gli anni la luce divenne più ironica, e negli anni Sessanta la
lettura dei fotoromanzi passa da simbolo di modernità a simbolo di arretratezza campagnola.
“Confidenze di Liala” iniziò a pubblicare nel 1946, aveva un lettorato medio, più alto di Grand
Hôtel e più basso di Grazia: tradizionale impasto di novelle e romanzi rosa a puntate, gossip e
posta del cuore; a ciò si aggiunsero i fotoromanzi a puntate. Liala fu co-proprietaria per un
terzo fino al ’48, anno in cui fu anche direttrice (esperienza non felice per le incomprensioni con
la redazione). Dal 1951 vennero pubblicate alcune storie firmate da lei: la prima “Piccole mani
colme d’addio” 1951, poi “Il Pianto di Nadine” 1952, “Senza tramonto” 1952 e “Una fiaba per
Rose May” 1952. Ce ne fu un’ultima, “Ritorna un sogno”, nel 1954 poco prima che Liala
abbandonasse il settimanale. Tutte e quattro le storie hanno fotografie in bianco e nero, durata
complessiva dai quattro ai sei mesi. Il ritmo narrativo è più incalzante che nei romanzi per
creare sempre nuovi climax che incoraggino il proseguimento nella lettura. La maternità
lialesca appare dubbia per i due centrali, per motivi di discontinuità tra una storia e l’altra e con
l’opera generale della scrittrice, oltre che per motivi linguistici; è comunque da tenere presente
che il fotoromanzo è un lavoro d’equipe (con gli anni la figura dell’autore diventerà sempre più
evanescente fino a scomparire = evoluzione simile a quella del romanzo rosa che per il
pressing delle case editrici è diventato un artigianato remunerativo più che un lavoro autorale:
ciò che individua i prodotti non è più l’autore ma la collana di appartenenza).
Piccole mani colme d’addio e Una fiaba per Rose May sono quindi attribuibili a Liala, hanno
entrambe trame dalla informatività praticamente nulla, conclusioni relativamente pacifiche e
inconfondibili opzioni di lingua.
PICCOLE MANI COLME D’ADDIO = stereotipo rosa bionda angelicata e buona e bruna ormonosa
e sanguigna, più pronta a commettere peccato. Le donne delle foto dei fotoromanzi italiani
sono solitamente more per facilitare l’identificazione, ma se sono buone hanno una signorilità
innata o un fascino particolare, altrimenti rientrano nella categoria delle popolane. Qui Lena,
mora sola e incinta, e Damiana bionda che non riesce ad avere figli. Parte la compravendita del
bambino, ma quando il marito di Damiana va in guerra lei si scopre incinta. Perde però il
bambino, la compravendita va in porto. Dopo qualche anno Lena se ne vuole riappropriare:
Liala è compartecipe del dramma e non tratteggia mai Lena in modo negativo. Il dramma si
conclude con la morte provvidenziale di Lena: giustizia inesorabile punisce la bruna Lena, ma
non si accanisce contro la peccatrice, che anzi sul letto di morte viene quasi “martirizzata”. Il
lieto fine nelle storie di Liala non esclude il dolore, se questo è il prezzo da pagare per ristabilire
l’ordine. LINGUA: sfavillio retorico, figure usurate, echi volontaristici nella nave che parte per la
guerra; continue intrusioni dell’autrice che entra nelle didascalie per guidare e spiegare,
onnisciente e ubiqua. Anche attraverso il fotoromanzo c’è uno scopo didattico di Liala con le
regole per vivere elegantemente; specchio inoltre compare in 3 scene. [Topos dello specchio è
antichissimo ed è una costante della narrativa rosa del Novecento].
UNA FIABA PER ROSE MAY = anche qui facile indovinare il finale fin dalle prime puntate, il
parigino Edmond sposato con l’egoista e bruna Lily ha perso la figlia e incontra la piccola Rose
May, figlia della londinese Gildas in un parco, e la riaccompagna a Londra dalla madre. Scatta il
colpo di fulmine con Gildas; evoluzione psicologica dei personaggi è nulla (sono quasi dei
“tipi”), come la comunicazione tra loro: se comunicassero di più non ci sarebbero tutti i
malintesi e incomprensioni che sostanziano la storia. Ricompaiono a Londra il padre di Rose
May, Russell, e Lily; i due cattivi si innamorano, poi Lily muore e Russell accetta di togliersi di
mezzo dietro pagamento. Il lieto fine è sempre assicurato fin dalle prime pagine. LINGUA:
lessico poco rilevato, allocutivi sdolcinati, arsenale retorico arcinoto; personaggi
ipercaratterizzati e senza evoluzione, ma mentre negli altri fotoromanzi ogni tipo di mimesi
espressiva è esclusa e i personaggi si esprimono tutti nello stesso modo, Liala differenza
linguisticamente i personaggi: i cattivi sono più espressivi. Temi ricorrenti come lo specchio, il
profumo e la controproduttività per una donna di concedersi subito. Non è fatto cenno al
matrimonio, debole enfasi posta da Liala per questa istituzione, mentre in entrambe le storie è
il bambino a fare da collante per la coppia (“modernità” di Liala nel mettere nel centro della
scena genitori non naturali).
Non sono invece probabilmente di Liala Il pianto di Nadine e Senza tramonto, 1952. Scelte
tematiche poco consone a Liala: mondo delle fabbriche (di solito Liala ignora classi non nobili o
altoborghesi), e opzioni di lingua più disinvolte e simili al parlato.
IL PIANTO DI NADINE = Trio positivo pigro e civettuolo vs trio negativo caparbio e intelligente.
La trama si gioca sui tentativi di risollevare le sorti della fabbrica Aracne in lotta con la rivale
Dechanel che tenta di rubarle brevetti e invenzioni di David Davis, povero ma brillante
ingegnere in coppia con Nadine. Anche qui il rivale Lionel alla fine si suicida per ristabilire
l’ordine. Nadine, prototipo perfetto della protagonista rosa, alla fine si sposa con David.
LINGUA: ciuffi di figure retoriche conclamate ma quantitativamente limitate, iperaggettivazione
per ottenere effetti di lirismo; i toni di David sono spesso scanzonati e ironici + molte
topicalizzazioni per ottenere effetto mimetico del parlato. Uso molto più intensivo della
punteggiatura espressiva e del maiuscolo.
SENZA TRAMONTO = Tre triangoli amorosi. Quello centrale, Hildaura-Arrigo-Cira, si mantiene
positivo nonostante le tensioni; i tre usano lo stesso linguaggio e formano un nucleo
omogeneo. I cattivi Mara e Donato creano nuovi dinamismi e le loro ombre servono a far
risaltare meglio la bontà di Arrigo e Hildaura. Anche questa ambientata in una fabbrica, la
Torpedo, automobilistica milanese. Hildaura infine resta sola, e Arrigo sposa la pura Cira:
motivo della protagonista che rappresenta un modello perdente che trionfa solo alla fine.
Hildaura resterà ragazza madre e benedirà l’unione tra Cira e Arrigo, madonnescamente
trasfigurata dalla maternità. Diverso da molti fotoromanzi che di solito sono atopici perché
Milano è abbastanza presente, inoltre è l’uomo a essere conteso tra due donne e non il
contrario, e le due pretendenti sono entrambe brune senza simbologia cromatica. LINGUA:
asciutta, meno propensa al patetismo, metafore abusatissime, infallibile anadiplosi, similitudini
vecchissime, il tutto però accompagnato da riflessioni metalinguistiche, come se chi scrive
sentisse la necessità di prendere le distanze e quasi di scusarsi con il lettore (“…Come si dice in
questi casi): “meta-stereotipi”. Sintassi volentieri mimetica del parlato, topicalizzazioni, puntini
di sospensione. Manca però quell’autoritarismo lialesco, il suo vincolo interpretativo che
preclude ogni opinione altra.
LA CARATTERIZZAZIONE LINGUISTICA
Nonostante le difformità di ideazione tra i vari fotoromanzi, ci sono delle tangenze vistose,
dovute alla sincronia di pubblicazione e alle convenzioni di genere. Siamo nella fase generalista
del fotoromanzo: negli anni Sessanta si verificherà la segmentazione del pubblico che vedrà
diffrangersi la produzione di fotoromanzi per forma e contenuti; ai tempi di Liala invece l’unica
discriminante del fotoromanzo rimaneva il tema sentimentale destinato a un pubblico
femminile. Il linguaggio era altrettanto semplice e generalista a livello lessicale e
macro-sintattico, con specifiche opzioni morfologiche e retoriche.
Il fotoromanzo ha un linguaggio ibrido che unisce i registri iconico e verbale: ruolo
predominante rivestito dalla parola, che è necessaria dal momento che le immagini sono
mediocremente denotative e piattamente statiche sia nei tagli che nelle espressioni
stereotipate dei personaggi; servono fondamentalmente ad attribuire le battute ai diversi
personaggi, e modulano l’espressione verbale come le emoticons nel linguaggio digitato. La
parola negli anni Cinquanta poteva arrivare a equivalere lo spazio occupato dalle immagini,
questo sovraccarico verbale andrà riducendosi negli anni. L’immagine solleva sostanzialmente
dall’apparato descrittivo, mentre la parola può fare incursioni nella psicologia dei personaggi o
aumentare il gradiente erotico (più alto nei romanzi pe