Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
LA LINGUA DEL CINEMA
Le brevissime pellicole proiettate nei cinematografi dei primordi non contenevano
didascalie, perché considerate superflue e troppo costose. La comprensione era
agevolata da un addetto che spiegava e commentava la proiezione a viva
voce, usando di solito un italiano rispettoso della grammatica, non escludendo
però il dialetto locale, allo scopo di entrare in sintonia emotiva con gli spettatori.
Nel cinema italiano la parola scritta divenne elemento costitutivo del testo filmico
abbastanza tardi: risale al 1905 il film inaugurale La presa di Roma di Filoteo
Alberini che si svolgeva in quadri, introdotti da altrettante scritte. Finché, per oltre
un quinquennio, i film anche di provenienza letteraria o teatrale furono brevi ed
14
15
elementari, le scritte filmiche continuarono ad apparire all‟inizio della scena a mo‟
di titolo e a svolgere funzioni integrative o esplicative.
La didascalia ebbe un ruolo rilevante solo quando, nel 1911, l‟industria
cinematografica italiana si cimentò nella realizzazione di lungometraggi (titoli
inaugurali furono La Divina Commedia. Inferno e Pinocchio), guadagnando un
prestigio artistico mondiale conservato fino all‟inizio del primo conflitto mondiale. I
realizzatori di lungometraggi si trovarono alle prese con due opposte esigenze: da
una parte la complessità del racconto e lo spessore psicologico dei personaggi
richiedevano di essere frequenti e ampie; dall‟altra, però, ragioni tecnico-
espressive e spettacolari consigliavano di diradare e attenuare la loro invadente
presenza nel flusso delle immagini. I tentativi di conciliazione dei due aspetti si
tradussero in soluzioni differenti da film a film.
L‟insieme delle didascalie elaborate in Italia nel corso di un ventennio, dall‟inizio
aureo nel 1911 al declino industriale e artistico in tempo di guerra (soprattutto
negli anni ‟20), è diviso in tre filoni, che ricalcano e sviluppano altre pratiche
tradizionali: la stampa illustrata e la cartellonistica, la letteratura e il teatro
maggiore, l‟arte popolare più o meno dialettale. Il primo filone, che appare
esclusivo nei primordi (1905-10) e poi preminente fino all‟avvento del sonoro, si
distinse per la medietà linguistica e stilistica: un italiano corretto ma non solenne,
una sintassi concisa e lineare, un lessico usuale, una fraseologia elementare e
spesso stereotipata. Il secondo filone è caratterizzato da un italiano elevato e
abbellito di invenzioni stilistiche e retoriche, dovute alla collaborazione di noti e
illustri letterari ma anche di abili professionisti della scrittura cinematografica (es.
Cabiria di Giovanni Pastrone, con didascalie di D‟Annunzio, che esibisce finezze
lessicali, ampollosità sintattiche e abbellimenti retorici; anche Il fuoco dello stesso
Pastrone). Il terzo filone, quello delle didascalie dialettali, privilegia la sceneggiata,
un tipo di film popolare prodotto a basso costo, realizzato talvolta nelle stesse
strade e in riva al mare di Napoli, che desumeva da note canzoni talune
didascalie, con un soggetto invariabilmente melodrammatico. La sceneggiata
napoletana che ebbe nel primo dopoguerra una straordinaria fioritura, stroncata
nel 1928 per motivi politici, propone didascalie che ricalcano mimeticamente il
variegato repertorio linguistico della città e delle sue peculiari manifestazioni
artistiche, da un italiano goffamente libresco e anticheggiante al partenopeo
schietto.
Quando iniziò la produzione industriale di pellicole parlate (1927 America, 1930
Italia) le lingue riuscirono a immettere subito e senza difficoltà nei dialoghi filmici la
verosimile fluidità che doveva possedere la conversazione tra personaggi
solitamente umili, su temi dell‟esistenza quotidiana. L‟italiano, invece, lingua di
formazione e tradizione letteraria e all‟epoca parlata da pochi, si manifestò subito
inadatta a formulare discorsi consoni alle situazioni comunicative del racconto
filmico e adatti alle capacità di comprensione e alle attese di platee composite,
perlopiù dialettofone. Nel quindicennio iniziale (1930-45) i realizzatori italiani si
mossero in due ambiti: assegnarono la supremazia assoluta alla lingua nazionale,
cercando però di attenuarne subito la rigidezza; alcuni, invece, cercarono di
conferire ai dialoghi filmici colloquialità, sfruttando le risorse dialettali del
patrimonio linguistico nazionale, raggiungendo così anche l‟obiettivo
commerciale di caratterizzarsi etnicamente per vincere la potente concorrenza
15
16
straniera, soprattutto americana (es. Blasetti con Nerone e La tavola dei poveri,
attinse al vivo patrimonio dialettale di alcune regioni, soprattutto il siciliano). Tale
orientamento fu interrotto nel 1934 dall‟intervento antiregionalistico del regime
fascista, che ammise solo l‟uso di un italiano rispettoso della norma grammaticale,
oscillante tra elevatezza (Scipione l‟Africano di Carmine Gallone) e semplicità
ravvivata da arguzie verbali (Il signor Max di Camerini). Negli anni di guerra
riacquistò un certo spazio la produzione dialettale; tale scelta linguistica fu
tollerata per l‟opportunità industriale di diversificare soggetti, temi e linguaggio dei
film nazionali, quella politica di assecondare in tempo di guerra la predilezione
delle platee per la freschezza del linguaggio quotidiano, quella culturale di
divulgare la conoscenza d‟illustri testi in dialetto.
Caduta la dittatura fascista e tornata la pace (1945) vi fu la ricerca di un parlato
consono all‟eterogenea produzione nazionale, legittimata nel 1948 dalla
Costituzione repubblicana che sancì la libertà di lingua e l‟uguaglianza tra le
lingue. Il cinema italiano assunse via via la seguente fisionomia: italiano normale,
mescolanza artificiosa (italiano pieno di espressioni dialettali o straniere),
mimetismo realistico, dialettalità stereotipata. La lingua esclusiva della maggior
parte dei film continuò ad essere l‟italiano rispetto della norma, ma vi fu una
crescente propensione per registri dimessi e una colloquialità rilassata. Rimasero
fedeli all‟italiano tradizionale solo le opere culturalmente ambiziose e quelle
drammatiche o avventurose destinate a platee popolari (es. Giulietta e Romeo di
Renato Castellani e Catene di Raffaello Matarazzo).
I film neorealisti invece adottarono un dialogo mimetico del parlato in uso nelle
situazioni che il film ricreava, con drammi individuali e collettivi vissuti da
personaggi umili e oppressi. Fu data così voce e dignità a settori trascurati e
sconosciuti dell‟Italia linguistica reale del tempo. Il film inaugurale fu Roma città
aperta di Rossellini (1945), riproponendo l‟intreccio di lingue e varietà dialettali
nella capitale occupata militarmente (romanesco, italiano elaborato della
canzonetta radiofonica e della comunicazione politica, italiano di livello medio-
basso, il tedesco degli occupanti e l‟italiano scolasticamente formale dei
tedeschi). Altra testimonianza è Paisà di Rossellini (1946) che rappresentò il
contatto dell‟Italia quasi totalmente dialettofona con le lingue dei belligeranti
stranieri. Ladri di biciclette di De Sica (1948) ripropone il repertorio della Roma
popolare del dopoguerra.
Numerosi furono i film comici interpretati da attori regionalmente connotati (Aldo
Fabrizi, Alberto Sordi, Totò) che parlavano un italiano segnato da fenomeni
fonetici e grammaticali regionali, con innesti di dialetti più o meno italianizzati.
Furono tali innesti a rendere familiari alle platee le risorse linguistiche nazionali. Le
espressioni straniere, in un primo tempo circoscritte a contesti militari, si
caratterizzavano per una prolungata separatezza intimidatoria (tedesco) o mitica
(inglese) attenuandosi solo negli anni ‟60, con l‟apertura internazionale del
pubblico italiano.
Dopo il 1950 i realizzatori cinematografici vararono una soluzione linguistica nuova:
una koinè italo-dialettale costruita a tavolino, selezionando moduli discorsivi dai
dialetti reali, soprattutto quello di Roma e mescolandoli a situazioni comunicative
ripetitive. Divenne il codice peculiare del neorealismo rosa, che si ispirava alla
realtà per darne però una rappresentazione convenzionale, consolatoria,
16
17
impoverita (Una domenica d’agosto di Luciano Emmer e Pane, amore e fantasia
di Luigi Comencini).
Nel corso degli anni ‟60 il cinema italiano conobbe una notevole ripresa artistica
e, grazie alla maggior padronanza del mezzo, alla sua diffusione, e alla televisione
che mostrava un italiano venato da tracce locali, cominciò a disporre di una
gamma di scelte verbali confacenti al codice si svariati generi e al tagli espressivo
del singolo film. L‟esempio fu dato da personalità come Fellini, dalla commedia
all‟italiana (Il sorpasso di Dino Risi) e dal dramma di denuncia. Tale produzione,
ricalcando la realtà linguistica urbana, sempre più caratterizzata dalla sostituzione
del dialetto con l‟italiano, favorì l‟instaurarsi di un parlato tipicamente filmico, con
maggior libertà di scelte linguistiche nei dialoghi grazie alla maggior padronanza
della lingua da parte del pubblico. Tuttavia la produzione nazionale, soprattutto
dopo la crisi dell‟ultimo ventennio del „900, si trova a ripiegare spesso per motivi
commerciali su soluzioni stereotipate e su un passivo assorbimento di locuzioni
ricalcate sull‟inglese.
Il tema tipicamente italiano della questione della lingua è ben presente nel
cinema. Risulta diffusa la coscienza del dislivello qualitativo e funzionale tra
italiano e dialetti. La padronanza della lingua nazionale appare al popolano una
patente della propria ascesa sociale. Tale gerarchia è richiamata spesso nei
dialoghi comici (es. Totò). Alcuni autori usavano il cinema anche come strumento
di formazione dello spettatore, inserendo nei film inviti espliciti all‟apprendimento
della lingua.
Diversamente avviene per le lingue straniere: la loro presenza fu modesta fino ai
‟70, poi sempre più frequente e risulta normalmente accettata. Non mancano
però espedienti comici come Alberto Sordi che americaneggia.
L‟adattamento linguistico dei film stranieri mediante il doppiaggio può essere
considerato uno dei procedimenti tecnico-espressivi più caratteristici dell‟industria
cinematografica italiana, che ha applicato per l‟intero corso del sonoro
sistematicamente e indiscriminatamente dialoghi in lingua italiana a tutte le
pellicole straniere, senza distinzione di idioma, paese, genere e metraggio.
Quando nel 1929 i film parlati cominciarono ad essere importati in Italia, il potere
politico animato da xenofobia, impedì con disposizioni restrittive che tramite quei
film gli spettatori venissero a contatto con le lingue straniere. Per renderli
comprensibili si ricorse ad effimeri espedienti com