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MORFEMI DERIVAZIONALI
I morfemi derivazionali consentono la formazione di nuove parole a partire dalla base lessicale a
cui si appoggiano , attraverso i processi di suffissazione e prefissazione soprattutto. In ogni lingua
c’è una varietà di moduli di derivazione che danno vita a famiglie di parole (o famiglie lessicali) che
sono formate da tutte le parole derivate da una stessa radice lessicale.
Un problema nello studio dell’italiano è la vocale tematica, ovvero la vocale iniziale della desinenza
dei verbi: poiché si può affermare che la vocale tematica abbia un suo significato, anche se un po’
particolare, (ovvero indica l’appartenenza dei verbi ad una determinata classe) possiamo dire che
allo stesso modo si scompone “-abil-“ (che contiene la vocale tematica del verbo da cui deriva);
dunque la vocale tematica è un morfema in quanto parte da una desinenza verbale
- parole composte: opposto all’amalgama, c’è il caso delle parole composte, ovvero parole formate
da due o più morfemi liberi che però vanno a creare una parola le cui parti sono ancora
riconoscibili unitariamente come “nazionalsocialismo”. Ciò che distingue la derivazione dalla
composizione è che mentre una parola derivata contiene una sola radice lessicale, una parola
composta contiene più radici lessicali che possono apparire come autonome. Le parole composte
appartengono alla classe dei nomi, ovvero uno dei due o più composti della parola finale. E’ quindi
importante la definizione di testa di un composto: il costituente che funge da testa (non testa
sintattica) assegna alla parola finale la propria classe di parola e gli conferisce le proprie
caratteristiche di significato e di flessione. Per sapere qual’ è la testa però bisogna fare la prova del
“è un”, ovvero bisogna domandarsi qual’ è il referente della parola; bisogna trovare quindi
l’iperonimo del composto. Esempio: “bassorilievo” è sicuramente un rilievo, quindi “rilievo” è la
testa del composto. I composti che presentano una testa sono detti “endocentrici” mentre quelli
privi di testa sono detti “esocentrici”. Poi ci sono i composti “dvanva” ovvero due a due, che
presentano due teste su un totale di due formanti: “cassapanca”, “tragicomico”.
- suffissazione: in italiano il più produttivo dei procedimenti di formazione delle parole è la
suffissazione. Tra i suffissi derivazionali abbiamo “-zion-“, “-ment-“, “-or-“, “-ità”. Da notare il fatto
che i suffissi derivazionali comprendono, molto spesso, anche la desinenza, quindi si dirà che i
suffissi derivazionali sono “-zione”, “-mente”, “-ore” , ecc. E’ importante ricordare che
con la suffissazione spesso, cambia la classe grammaticale di appartenenza della parola:
aggiungendo un suffisso a un nome come “noia” ottengo un aggettivo “noioso”.
< alterazione: nella categoria della suffissazione bisogna riconoscere anche un altro processo
molto utilizzato in italiano rispetto alle altre lingue ovvero l’alterazione: attraverso i suffissi alterativi
si creano parole che aggiungono al significato della base lessicale un valore tendenzialmente
valutativo, ad esempio il valore diminutivo come in “gattino” o “finestrella”, accrescitivo come
“librone” o peggiorativo come “fattaccio”.
- prefissazione: è un procedimento molto produttivo ma al contrario della suffissazione non avviene
un cambio di classe grammaticale della parola: se aggiungo un prefisso all’aggettivo “utile” ottengo
ad esempio “inutile” che resta sempre un aggettivo. Tra i prefissi più comuni vanno ricordati “-in”
(con possibile conseguenza di assimilazione come in “in+legale=illegale”), “-a” come in “amorale”.
Tra tutti questi morfemi derivazionali però, è possibile qualche caso di omonimia (stessa forma ma
con valore diverso) come nel caso di “-in” che assume un valore sia di negazione (“immobile”) sia
di avvicinamento (“immigrare), sia di diminuzione (“gattino”).
Sono quindi 3 i criteri di definizione delle parole derivate:
- procedimento di derivazione;
- classe lessicale della base da cui derivano;
- classe lessicale a cui appartiene la parola derivata.
Nei meccanismi di formazione della parola rientra anche il fenomeno di conversione o derivazione
zero, ovvero quel processo per il quale si hanno coppie di parole (verbo e nome) con stessa radice
lessicale ma senza suffisso, fra i quali quindi è impossibile stabilire quale sia la parola derivata:
lavoro, lavorare; stanco, stancare; gioco, giocare. Spesso si assume che sia il nome a derivare dal
verbo poiché il nome designa l’azione indicata dal verbo. Quando invece la coppia è formata da
verbo e aggettivo, si assume che il termine primitivo sia l’aggettivo in quanto il verbo indica il “far”
assumere la qualità espressa dall’ aggettivo: calmo, calmare. Anche in inglese, molto più che in
italiano, è presente questo fenomeno: “cut” è sia “taglio” che “tagliare”, “shop” è sia “negozio” che
“comprare”.
MORFEMI FLESSIONALI
I morfemi flessionali realizzano i valori grammaticali delle parole e sono quindi delle marche morfo-
sintattiche; più precisamente i morfemi flessionali esprimono il valore di una certa categoria
grammaticale, che prende il nome di marca; tali categorie grammaticali esprimono alcuni significati
fondamentali che diventano categorici per la lingua che viene utilizzata.
Le categorie grammaticali NOMINALI sono propriamente dette flessionali e possono agire sui nomi
e sui verbi:
- genere: la categoria del genere in italiano si esprime con i morfemi del maschile e del femminile.
Nelle lingue bantu esistono i classificatori nominali, ovvero morfemi che esprimono diverse
sfaccettature del nostro “genere”, come “m-“ in swahili è il classificatore nominale per “essere
umano”;
- numero: la categoria del numero in italiano si esprime con i morfemi del singolare e del plurale “-
e”, “-i”. Alcune lingue possono avere anche il duale, il triale e il paucale, ovvero sono presenti dei
morfemi che esprimono la categoria del numero in maniera ancora più precisa rispetto al singolare
e plurale;
- caso: la categoria del caso in italiano mette in relazione la forma della parola con la sua funzione
sintattica; la flessione del caso è presente in tedesco, greco, latino, russo, hindi ma anche in
italiano come nel caso di “tu” e “te” che sono entrambi pronomi personali rispettivamente al
nominativo e all’ accusativo, oppure “lo” e “gli” rispettivamente all’ accusativo e al dativo;
- reggenza: è il processo mediante il quale si assegna il caso al complemento di un verbo, viene
quindi determinato in quale caso deve declinarsi il complemento del verbo: ad esempio il verbo
latino “utor” che significa “usare” regge obbligatoriamente l’ablativo, quindi il suo complemento
oggetto è declinato con la desinenza “-is” (“clipei suti” ovvero “usare gli scudi”). Un altro esempio è
il “cum” in latino che regge anch’esso l’ablativo, quindi “miles” ovvero “soldato” deve essere
declinato con desinenza “-ibus” quindi “cum militibus”. La nozione di reggenza si applica per
estensione anche al rapporto tra verbi e preposizioni, quando appunto alcuni verbi richiedono
determinate preposizioni: pensare a, dipendere da, contare su;
- grado dell’aggettivo: in molte lingue gli aggettivi sono marcati dal grado superlativo e
comparativo. In italiano la flessione è espressa solamente per il superlativo es. “bello-bellissimo”
attraverso il morfema “-issim-“, mentre per il comparativo (minoranza, maggioranza, uguaglianza)
sono utilizzati MEZZI flessionali es. “più bello di”, “meno alto di”. Anche in tedesco il comparativo si
forma aggiungendo il morfema flessionale “-er” come “shoner” e “keller”;
- definitezza: alcune lingue marcano con morfemi appositi sui nomi la “definitezza”: in arabo “al-
maktabatu” è “la libreria” quindi singolare definito, mentre “maktabatun” è “una libreria” singolare
indefinito;
- possesso: allo stesso modo della definitezza anche il possesso, ad esempio in turco, è formato
dai suffissi “-im”, “-in” e “-i” per dire “mio” , “tuo” e “suo”.
Per quanto riguarda i verbi abbiamo cinque categorie flessionali VERBALI:
- modo: esprime la modalità nella quale il parlante si pone nello spiegare come si svolge la scena
espressa dal verbo, ad esempio un modo indicativo (“mangio”) suscita più sicurezza di un
condizionale (“mangerei”);
- tempo: localizza l’evento espresso dal verbo nel fluire del tempo fisico e lo colloca in un preciso
contesto temporale (“mangio, mangerò, mangiai”);
- aspetto: considera l’evento espresso da una prospettiva interna al suo svolgimento ad esempio
basta guardare la differenza tra il passato prossimo “ho visto” e l’imperfetto “vedevo”. Dunque
l’aspetto distingue un’azione compiuta da un’azione in svolgimento;
- diatesi: esprime il rapporto tra l’azione e i partecipanti in rapporto al soggetto, ad esempio
l’opposizione attivo-passivo “lavo, sono lavato”;
- persona: indica chi compie l’azione e più in generale collega la forma verbale al suo soggetto. “lui
gioca” indica che colui che compie l’azione è una terza persona e non il parlante, che è singolare e
che non è neanche l’ascoltatore. A volte, anche in italiano, si marca ulteriormente questo aspetto
all’ interno del verbo stesso come per il participio “è partita”.
Le categorie grammaticali più ampie, a livello di parola, sono chiamate parti del discorso e si
raggruppano a seconda della loro natura, significato, del loro comportamento nel discorso e della
loro funzione. Le parti del discorso sono anche dette categorie grammaticali o lessicali e sono 9:
nome o sostantivo, aggettivo, verbo, pronome, articolo, preposizione, avverbio, congiunzione e
interiezione (anche se si nutrono dubbi su quest’ultima). Alcune parole presentano delle ambiguità
perché non aderiscono completamente ai r