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IL QUATTROCENTO.

Latino e volgare.

Petrarca nei suoi scritti utilizzava una lingua diversa dal volgare: questo avviò un processo di

confronto con il latino degli autori “canonici”,fondamentale per la formazione di una mentalità

grammaticale applicata in seguito alla stabilizzazione normativa dell’italiano. Questo nuovo gusto

classicistico portò ovviamente ad una crisi del volgare,lingua che risultò screditata agli occhi dei

dotti,i quali la disprezzavano apertamente o addirittura la ignoravano (bisogna sottolineare che

nonostante ci fosse questa crisi,essa era presente solamente su un livello “letterario”,poiché il

volgare continuava ad essere la lingua del popolo). Lo studioso Leonardo Bruni fu uno dei pochi a

pensarla diversamente: quando tutti gli studiosi evitavano di usare il volgare poiché ritenuto

inferiore,questi affermò che ogni lingua ha la sua perfezione,non esistono lingue inferiori ad altre

ed uno scrittore ha il diritto di essere giudicato non per la lingua adottata ma per le proprie

realizzazioni. Questa nuova considerazione delle lingue ci mise tempo ad espandersi,poiché il XV

secolo resta comunque un secolo umanistico,in cui il latino detiene il primato in campo

letterale,mentre l’uso del volgare risultava accettabile solo nelle scritture pratiche e d’affari,quindi

non destinate ai posteri e senza pretese d’arte.

Nel Cinquecento furono scritte opere a scopo “sperimentale”,in cui volgare e latino entravano in

simbiosi tra loro in modo non casuale ma sapiente. Ci sono due esempi di contaminazione tra

latino e volgare: il “macaronico” e il “polifilesco”. Il termine “macaronico” (Tifi Odasi ne è l’iniziatore

e Teofilo Folengo il maggior esponente) indica un tipo di linguaggio nato a Padova alla fine del

Quattrocento e caratterizzato dalla latinizzazione parodica di parole del volgare o della

volgarizzazione di parole latine; dal punto di vista linguistico questo stile ha dato vita a “parole

macedonia” in cui ad una parola volgare viene accostata una desinenza latina (come CERCA-

BAT) oppure parole latine vengono legati a costrutti volgari (PROPTER NON PERDERE

TEMPUS). Il risultato è quello di un latino pieno di “errori” voluti,in quanto l’autore macaronico è un

latinista che gioca con l’idioma classico. Il “polifilesco”,detto anche “pedantesco” non è una

scrittura parodica come lo era stato il macaronico,ma è seria. Un esempio di polifilesco è

l’”Hypnerotomachia Poliphili”,pubblicato nel 1499 a Venezia da un autore rimasto anonimo: il

volgare che viene combinato col latino non è di tipo dialettale,ma è boccaccesco,toscano,con

patina settentrionale illustre mentre il latino si rifà ad autori quali Apuleio e Plinio.

Leon Battista Alberti.

La posizione di Leon Battista Alberti nella “questione della lingua” fu fondamentale: egli fu

precursore del movimento definibile “Umanesimo volgare”,in cui elaborò un programma di

promozione della nuova lingua. Secondo Alberti,la caduta del latino si deve all’avvento dei barbari

nella penisola,poiché ha comportato l’ingresso di barbarismi nel linguaggio che hanno portato ad

una corruzione della lingua: in questo senso il compito del volgare è quello di riscattare se

stesso,fino a raggiungere lo stesso livello del latino (in poche parole il volgare doveva seguire lo

stesso iter del latino nella sua espansione linguistica). All’Alberti è attribuita anche un’altra impresa:

quella della realizzazione della prima grammatica della lingua italiana; l’attenzione qui è

concentrata sull’uso toscano del tempo (l’utilizzo dell’articolo EL anziché IL,la preferenza per

l’imperfetto in –O). Nel 1441 poi organizzò un Certame coronario,una gara poetica in cui i

concorrenti si affrontarono in volgare,cosa che ebbe una forte risonanza pur non essendosi

conclusa,dato che la giuria (composta da umanisti) non assegnò alcun premio.

L’umanesimo volgare alla corte di Lorenzo il Magnifico.

Nell’età di Lorenzo il Magnifico si ebbe finalmente il rilancio del toscano: protagonisti di questa

svolta furono,oltre all’Alberti e a Lorenzo de’Medici,l’umanista Cristoforo Landino e Poliziano.

Landino fu cultore della poesia di Dante e di Petrarca,negò l’inferiorità del volgare rispetto al latino

ed invitò i cittadini di Firenze a darsi da fare per far ottenere alla città il “principato” della lingua. Si

dedicò inoltre alla traduzione di testi latini (come la “Naturalis Historia” di Plinio) poiché riteneva

che la traduzione avesse come funzione quella di far arricchire la lingua fiorentina grazie

all’apporto del latino e del greco.

Lorenzo il Magnifico inviò nel 1477 la “Raccolta aragonese” a Federico,figlio del re Ferdinando di

Napoli; si trattava di una raccolta antologica della tradizione letteraria a partire dai pre-danteschi

fino all’era a loro contemporanea. La raccolta fu introdotta da uno scritto del Poliziano (segretario

di Lorenzo); questo contribuì alla promozione del volgare al di fuori di Firenze e fece aumentare

ancora di più il primato dei Toscani sulla nuova lingua.

La letteratura religiosa e la sua influenza.

Nel Quattrocento troviamo i laudari (componimenti in dialetto che dall’Umbria erano arrivati fino

all’Italia settentrionale); le sacre rappresentazioni venivano messe in scena per un pubblico

popolare,quindi rappresentavano un’altra occasione in cui gli incolti dialettofoni entravano in

contatto con una lingua più “nobile” e toscanizzata (la sacra rappresentazione era un genere

coltivato in Toscana e al Nord). Anche la predicazione si rivolgeva al popolo,dunque andava fatta in

volgare: i predicatori si muovevano di città in città e questa faceva si che acquisissero elementi

diversi dalle varie parlate,fino ad esprimersi in un volgare in grado di essere compreso in qualsiasi

regione.

La lingua di “koinè” e le cancellerie.

A differenza della poesia volgare,che fin dall’inizio aveva avuto una certa uniformità,la prosa fino al

Quattrocento aveva avuto come solo esempio le novelle di Boccaccio,le quali la rendevano in ogni

caso molto limitata: occorreva dunque che la prosa espandesse i propri orizzonti in altri campi

extraletterali oltre a quello novellistico. Erano presenti in Italia una varietà di “scriptae”, cioè un

numero di tradizioni letterali diverse di regione in regione che nel Quattrocento mostrano una

tendenza al conguaglio (cioè all’eliminazione di tratti vistosamente locali) fino ad evolvere in una

forma di “koinè”. Una forte spinta in questa direzione fu data alle cancellerie principesche,le quali

promossero l’uso del volgare influenzate dai gusti linguistici delle corti di cui facevano parte.

Fortuna del toscano letterario.

Il volgare toscano acquistò un prestigio crescente già dal Trecento,grazie alle opere di

Dante,Petrarca e Boccaccio,presenti ormai in tutte le biblioteche di famiglie signorili. A

Milano,Filippo Maria Visconti leggeva Petrarca e Boccaccio e fece compilare un commento

sull’Inferno dantesco; la tipografia milanese poi aveva iniziato le stampe delle opere dei grandi

trecentisti toscani,indirizzando positivamente il mercato verso la diffusione della letteratura volgare.

IL CINQUECENTO.

Italiano e latino.

Nel Cinquecento il volgare raggiunse piena maturità,togliendo progressivamente spazio al latino

(che verrà sostituito solo nel Settecento). Nel Rinascimento il latino non era ancora in posizione

marginale,infatti la maggior parte dei libri pubblicati erano scritti in questa lingua,ma gli

intellettuali,superata la crisi del volgare,iniziano ad avere una maggior fiducia nel volgare.

Fondamentale da questo punto di vista è la pubblicazione delle “Prose delle volgar lingua” di Pietro

Bembo: questo comportò il tramonto della lingua di koinè,sostituita da un idioma normativamente

accettato. Attraverso questa regolamentazione normativa e attraverso il conseguente

livellamento,l’italiano raggiunse lo status di lingua di cultura di altissima dignità,con un prestigio

considerevole anche all’estero. Il volgare inizia quindi ad essere sostituito anche in campi

extraletterali e piano piano soppianta il latino anche in campo giuridico.

La “questione della lingua”.

Il dibattito teorico sulla lingua ebbe come esito quello della stabilizzazione normativa dell’italiano.

Al centro di questo dibattito vanno collocate le “Prose della volgar lingua”,pubblicate a Venezia nel

1525: divisa in tre libri,in essa sono presenti una serie di norme e regole esposte in forma di

dialogo,collocato idealmente nel 1502. Prendono parte a questo dialogo quattro

personaggi,portavoce di quattro mentalità diverse: Giuliano de’Medici (il quale rappresenta la

continuità col pensiero umanistico volgare),Federico Fregoso (che espone molte delle tesi storiche

presenti nell’opera),Ercole Strozzi (dichiarato avversario del volgare) e Carlo Bembo (fratello

dell’autore è portavoce di quest’ultimo). Prima di tutto viene svolta un’ampia analisi storico-

linguistica (Bembo non accetta la tesi pseudo-bruniana secondo la quale l’italiano fosse già esistito

in epoca romana ma accetta l’idea secondo la quale il volgare sia nato da una contaminazione del

latino ad opera degli invasori barbari). Secondo Bembo la lingua non si acquisisce dal popolo ma

dalla frequentazione di modelli scritti (i trecentisti).

Avversari di Bembo sono il Calmeta e Ludovico Castelvetro: essi sono fautori della teoria

cortigiana,secondo la quale la lingua bisognava essere appresa dai testi di Dante e Petrarca,ma

raffinata nella corte romana. Quest’ultima fu considerata molto importante poiché essendo

divenuta una città cosmopolita accoglieva numerose sfumature di volgare accumunate da una

base toscana. (In pratica la teoria cortigiana voleva che la lingua da prendere in considerazione

fosse quella della corte romana). Bembo non accettò questa teoria basandosi proprio sul suo

presupposto: una lingua cortigiana non fa riferimento all’omogeneità.

Nel 1529 Trissino mette alle stampe il “De vulgari eloquentia” di Dante,opera fino ad allora

sconosciuta: facendosi forza sulle pagine di Dante,Trissino non accetta la fiorentinità della lingua

letteraria. Una reazione a questo pensiero fu la pubblicazione del “Discorso o dialogo intorno alla

nostra lingua” attribuito a Machiavelli: in questo testo Dante si rivolge a Machiavelli facendo

ammenda di ciò che ha scritto nel “De vulgari”.

Nel 1570 uscì l’&

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Publisher
A.A. 2013-2014
9 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/10 Letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Aspasia1989 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia della lingua italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Roma La Sapienza o del prof Cannata Nadia.