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POSTMODERNISMO:
L'architettura postmoderna definisce alcune esperienze che iniziarono a manifestarsi dagli anni cinquanta del XX secolo, e che
divennero un movimento solo nella seconda metà degli anni settanta. Il Postmoderno in architettura si caratterizza per il ritorno
citazionismo
dell'ornamento e per il ed è considerata una risposta al formalismo dell'International Style e del modernismo. Per il fatto
che siano riapparse le citazioni e gli ornamenti questa architettura è stata anche definita neoeclettica,
Si cominciò a parlare del postmoderno a partire dagli anni sessanta,dapprima in area statunitense e poi europea, con riferimento a
tendenze affermatesi in quel periodo e accomunate da un atteggiamento di distacco o di aperta polemica nei confronti dei fondamenti
teorici del movimento moderno. Sebbene il fenomeno abbia interessato anche l’arte e la letteratura, è nel campo dell’architettura che il
postmoderno ha avuto la sua più rapida e significativa diffusione. Sia pur con molte oscillazioni che ne caratterizzavano l’impiego, il
concetto di questo movimento si può definire anzitutto in riferimento a una presa di distanza nei confronti del moderno inteso come
epoca dominata dall’ideale del progresso, dell’accentuazione del valore del nuovo e dell’originalità. Questo comporta un generale
atteggiamento di recupero critico delle tradizioni e delle convinzioni linguistiche proprie nei vari campi e una riflessione, talvolta ironica,
su forme o moduli ereditati dal passato. in architettura, ciò si è espresso nella ripresa in chiave eclettica degli stili del passato, che
permette una maggiore libertà compositiva, una ricchezza decorativa , una nuova apertura verso i significati simbolici dell’immagine
architettonica. In questo senso il post modernismo assume un carattere specifico nell’ambito nordamericano, dove si arricchisce
mediante il contatto con tutti quei fenomeni( dal passaggio metropolitano, al kitsch, alla pubblicità ) che aveva già ispirato l’arte pop: si
realizza così un tratto comune a tutto il post modernismo e cioè il rinnovato rapporto con le tradizioni e i codici costruttivi locali, in
polemica con il loro azzeramento totale e la generale omologazione dei linguaggi operata dallo stile internazionale.
L’iniziatore del postmoderno si può considerare Robert Venturi, che se già in “Complessità e contraddizione in architettura” (1966),
aveva accusato pubblicamente la dottrina modernista di aver escluso dai suoi canoni il ricorso alla metafora e all’ambiguità, in “
Imparando da Las Vegas” ( 1972) opera quella contaminazione propria del postmoderno fra pop art e repertorio classico,coniugando la
lezione storicistica di Kahn con la fervente vitalità dello scenario di Las Vegas.
-Gian carlo De Carlo, università di Urbino
Giancarlo De Carlo (Genova, 12 dicembre 1919 – Milano, 4 giugno 2005) è stato un architetto italiano.
È stato tra i primi a sperimentare ed applicare in architettura la partecipazione da parte degli utenti nelle fasi di progettazione. È conosciuto
internazionalmente per essere uno tra i fondatori del movimento Team X che operò la prima vera rottura con il Movimento Moderno e le tesi
funzionaliste di le Corbusier.
Per la sua capacità di instaurare sempre delle relazioni forti tra teoria e pratica non convenzionali si è imposto come uno tra i pensatori più acuti
dell'architettura italiana.
Giancarlo De Carlo è sempre stata una personalità scomoda nell'ambito dell'architettura italiana e non è mai sceso a compromessi che potevano
intaccare la coerenza delle proprie idee. Per questo motivo ha dovuto rinunciare alla realizzazione di molti progetti, come per esempio il piano
regolatore di Rimini. Come mina vagante è sempre sfuggito ad una classificazione univoca del proprio lavoro,
accomunato ai brutalisti in un primo momento ha sempre rifiutato questo termine e durante tutte le fasi storiche dell'architettura italiana non ha
mai preso parte ad una qualsiasi corrente di moda preferendo eclissarsi e lavorare di meno (come durante la moda post-modernista degli anni
ottanta o le correnti High-Tech e decostruttiviste seguenti).
In particolar modo durante tutti gli anni ottanta e novanta, grazie alla rivista da lui fondata "Spazio e società" e attraverso l'ILAUD riuscì a costituire
un gruppo di riflessione e ricerca totalmente indipendente e controcorrente rispetto alle tendenze architettoniche del momento. In questo modo si
pose come un riferimento internazionale importante per molte persone venute da molteplici discipline.
Ha avuto un'impronta personale, di approccio all'architettura che può essere considerata una costante della cultura architettonica italiana, fatta di
prese di posizione particolari e non di vere e proprie scuole di pensiero. Nonostante tutto egli si inserisce in alcune correnti, di superamento e critica
del razionalismo italiano che si sono sviluppate a partire dagli anni sessanta in poi.
Nonostante abbia passato quasi tutta la sua vita a Milano, non ha mai costruito niente in questa città. A causa delle sue posizioni intransigenti non
ha mai trovato un appoggio solido nell'amministrazione milanese e anche la sua morte è passata quasi inosservata.
Oltre ad essere uno dei primi architetti in Europa a teorizzare e praticare la partecipazione degli utenti nelle fasi di progettazione, in particolare per i
progetti di Terni, Rimini e Mazzorbo, De Carlo sosteneva che il progetto andava cercato sempre "per tentativi" non limitandosi a rinchiudersi in una
soluzione rigida.
Fu duramente attaccato da Vittorio Sgarbi, il quale lo accusava di aver rovinato l'armonia e la bellezza del centro storico di Urbino. De Carlo
considerava invece che la sua attività avesse impedito una museificazione dell'ambiente costruito della cittadina ed una distruzione sociale della
stessa.
Nel 1995 a seguito di una sua partecipazione al progetto di recupero del centro storico di Palermo, progetto mai finalizzato a causa di intoppi
burocratici e politici, pubblica il libro il Progetto Kalhesa sotto lo pseudonimo di Ismé Gimdalcha dove racconta in chiave fantastica e ironica le
vicissitudini del progetto.
-Pasolini
-Gio Ponti (edificio trifoglio e nave del politecnico, cattedrale di taranto)
Nel 1957, introducendo l’agile guida “Milano oggi”, Gio Ponti scrisse il manifesto del suo “innamoramento” per la città che fu lo sfondo più
partecipe di tutta la sua lunga vita umana e professionale, dalla prima architettura – la casa per la sua famiglia in via Randaccio – alle ultime visioni
di architetture ridotte a puro scintillio di luci e di colori. Nessuno meglio di lui infatti seppe riassumere lo spirito di Milano, distillarne gli umori e
farne lievitare le aspirazioni alla modernità, incanalandone al tempo stesso le ambizioni della migliore borghesia verso un’autenticità di espressione
che non sarebbe mai più stata raggiunta negli anni a venire dopo la sua morte nella casa di via Dezza. “Milano moderna” fu lo slogan che sintetizzò
la sua impaziente ricerca di una civiltà tecnica come espressione di una civiltà di costumi, in un’equiparazione sostanziale tra modernità e sincerità
espressiva, cui attribuì sempre il significato di una rivoluzione che partiva dal basso: dall’accettazione individuale, prima ancora che di massa o di
classe, di quelli che, prima di lui, Giuseppe Pagano aveva definito i ”benefici dell’architettura moderna”.
Inventore della rivista “Domus” nel 1928, Ponti non a caso aveva individuato nella casa d’abitazione il nucleo di resistenza attorno al quale
combattere la sua battaglia per la civilizzazione moderna: al punto di intitolare “domus” la lunga serie di case costruite a partire dalla fine degli anni
Venti, proposte come prototipi abitativi di una borghesia urbana che rinunciava al finto antico, ripudiava il “milanese” e si sforzava di parlare il
linguaggio colto dell’Europa, seguendo le esortazioni di Edoardo Persico e di Raffaello Giolli. Modello “all’italiana” delle Siedlungen razionaliste, le
“domus” pontiane introducevano il colore, le “figure” dell’architettura classica (l’arco, innanzitutto, e poi la pergola), la generosità di balconi e
terrazze destinati al verde, anticipando una posizione che allora sembrò velleitaria ma che oggi ha tutti i caratteri della profezia realizzata.
ll tema della casa è forse il vero leitmotiv dell’attività di Gio Ponti, il filo conduttore della sua prodigiosa creatività, il punto cruciale della sua
battaglia per una cultura dell’abitare, che doveva trovare nell’autenticità degli spazi e degli arredi la conferma – quasi religiosa – della giustezza
dell’idea moderna. La casa per Ponti era il laboratorio dove la modernità diventava pratica quotidiana di accettazione della vita, e come tale essa
doveva ricevere dagli architetti l’onore della centralità nella loro pratica progettuale e nel loro sforzo inventivo. Dalla casa individuale alla casa
condominiale, le scelte dell’itinerario evidenziano la continuità di quest’impegno, rivelando la grande duttilità e la capacità dell’architetto di
valorizzare la continuità del pensiero senza rimanere prigioniero di formule da lui stesso create.
La casa torre Rasini al parco, da questo punto di vista, segna uno snodo tra la prima produzione di Ponti nella sua associazione ad Emilio Lancia e la
sua successiva totale adesione alle istanze avanzate dalla giovane architettura razionalista. Ma neanche il razionalismo fu per Ponti una formula:
anzi la sua accettazione passò per la necessità di una severa selezione, che discriminava i motivi essenziali della libertà di abitare dall’inevitabile
soggezione a uno stile che diventava moda.
La casa Marmont e, ancor più, la casa in via Brin (dove per qualche tempo visse con la sua famiglia) mostrano in maniera evidente l’elegante
semplificazione grafica di una composizione che si avviava sempre più all’esaltazione della “leggerezza”.
Questa però paradossalmente trovò la sua prima applicazione nella severa mole della Montecatini, la casa perfetta per lavorare, precisa come un
orologio, netta e funzionale come una macchina. Qui, il disegno delle ampie vetrate sostenute dai sottili infissi di alluminio realizzò per la prima
volta il primato della complanarità, fondendo in un’unica superficie piatta le lastre di marmo della facciata e le lastre vetrate delle finestrature. Il
tema della “finestra leggera” trovò poi nel dopoguerra la sua completa teorizzazione e la sua applicazione nei complessi intensivi nel cuore della
Milano antica (come l’edificio Ina in via San Pao