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LEONARDO DA VINCI
Il libro della pittura non è ascrivibile a Lonardo anche se sappiamo che era sua intenzione scrivere un
trattato sulla pittura, abbiamo manoscritti che testimoniano il suo lavoro ma non ne abbiamo uno
completo e autografo. Questi manoscritti hanno avuto un itinerario complesso. Sappiamo di Leonardo che
aveva un carattere insoddisfatto perché non riusciva a completare i suoi lavori sia come artista, sia come
ingegnere, sia come in questo caso come scrittore. Questo suo ritratto di uomo inconcludente perché
troppo perfezionista lo abbiamo da molti contemporanei e verrà poi codificato nelle “Vite” di Giorgio
Vasari, in cui questo aspetto è ripreso più volte. La sua vita e una di quelle in cui si trovano differenze tra la
versione del 1550 e quella del 1568.
Nel 1516 Leonardo torna in Francia dopo lunghi soggiorni a Milano in peridi diversi: il primo sotto Ludovico
il Moro e un secondo sotto l’occupazione francese dal 1506). Gli ultimi suoi anni si svolgono nel castello di
Clos Lucé, nei pressi di Amboise, su invito del re. Gli ultimi anni saranno quelli in cui sarà considerato un
genio universale e verrà ricoperto di onori e di lodi, questo mito avrà un lungo seguito, particolarmente in
Francia. Aveva accumulato una notevole quantità di codici e manoscritti, tutto questo patrimonio passerà a
Francesco Melzi, suo allievo prediletto, che tornato in Italia (era lombardo, di Vatrio d’Adda vicino Milano)
tra il 1522 e 1540 riordina questi codici, è lui l’autore di una sorta di rimaneggiamento e sistemazione in
vista di una pubblicazione di tutto il patrimonio, nasce così un altro codice. Ci sono stati problemi per
l’attribuzione al Melzi (Julius Schlosser Magnino credeva che non fosse suo) ma gli ultimi studiosi lo
associano a lui. Questa sorta di sintesi prende il nome di “Codex urbinas latinus” 1270, oggi è conservato
alla biblioteca apostolica vaticana, è chiamato anche codice urbinate perché alla fine del 500 finirà alla
biblioteca del duca di Urbino e verrà dimenticato per diversi secoli.
I codici originali saranno posseduti dal Melzi fino alla sua morte nel 1570. Dopo di che inizia una dispersione
del materiale, viene smembrato e venduto. Tra coloro che contribuiscono alla dispersione c’è lo scultore e
collezionista Pompeo Leoni, che aveva anche molti contatti con la Spagna. All’inizio del 600 il cardinale
Federico Borromeo (cardinale fino al 1631) cerca di ricongiungere il patrimonio e riuscirà ad entrare in
possesso del “Codex Atlanticus” (atlanticus per il grande formato. I codici continueranno poi ad avere una
loro storia, durante la campagna napoleonica finiscono a Parigi e con Canova, incaricato di riportare le
opere italiana in Italia, tornerà solo il “Codex Atlanticus”. Ci sono vari codici superstiti, dispersi tra le
biblioteche di tutto il mondo (Milano, Parigi. Londra, Winsor, Torino) ma molti sono andati perduti, su circa
18 libri oggi ne rimangono solo 8.
Il “Codex urbinas latinus” 1270 da un lato è poco attendibile perché frutto di una rielaborazione e di una
sintesi. Il riordinamento avviene secondo criteri che secondo gli studiosi risentono del dibattito critico
svolto in quel momento in Italia, infatti viene attribuito grande rilievo al “paragone delle arti” ovvero il
rapporto tra pittura, scultura, musica, poesia; temi che avevano avuto forte interesse nell’Italia della prima
meta del 500. Essendo una revisione può quindi essere ingannevole perché influenzata dal clima culturale
in cui viene effettuata. Tuttavia da un altro punto di vista il codice e estremamente prezioso perché nel
redigendoli suo autore sta lavorando su tutti i codici leonardeschi che per noi molti sono persi. Il codice ha
una particolarità: l’autore lascia spazi bianchi, ci sono fascicoli in bianco nella seconda, terza e quita
sezione, in tutto sono 8 sezioni. Queste parti in bianco forse sono dovute al fatto che l’autore voleva fare
integrazioni di altri scritti. Si può dire che sia un libro aperto. Ci sono poi correzioni di una mano successiva
al Menzi che sembrano nate in vista di un progetto di pubblicazione del codice, come delle note redazionali,
ma si fermano al foglio 34.
Dopo la morte del Melzi nel 1568, la vicenda di questo codice si complica, dalle notizie che abbiamo
sappiamo che il Lomazzo (pittore e teorico Lombardo, molto vicino a Leonardo) cita nei suoi scritti il
trattato della pittura di Leonardo, forse lo conosceva. Anche Giorgio Vasari nella seconda versione della
Vita di Leonardo (quella del 1568) fa un riferimento al libro della pittura di Leonardo raccontando che lo
avrebbe visto grazie a un pittore in viaggio per Roma, di cui però non cita il nome. Sappiamo quindi che il
codice è passato per Firenze. Secondo gli studiosi sarebbe proprio durante questa permanenza a Firenze
che sarebbero nate una serie di copie manoscritte, si pensa che siano una cinquantina. Essendo copie di
copie però sono ancora più lontane dall’autenticità dell’originale. Non sappiamo quale sia l’artista citato dal
Vasari (forse lo stesso Lomazzo) e non ci sono pubblicazioni di questo codice del 500. Verrà acquistato per
la biblioteca di Urbino da Guidobaldo del Monte per il duca di Urbino. Sara riscoperto alla fine del 700 e la
prima pubblicazione a stampa avverrà nel 1817 a cura di uno studioso di nome Manzi.
Alle copie è legato l’editio princeps (prima edizione a stampa) del trattato della pittura di Leonardo da Vinci
del 1651, dopo quasi un secolo da quando lo vide Vasari. Verrà pubblicato a Parigi, sarà un caso di edizione
bilingue, prima verrà pubblicato in italiano e poco dopo in francese. Lo traduce Roland Freart de Chambray
(tradusse anche altri trattati sull’architettura, come quelli del palladio) e Paul Fréart de Chantelou (che fu
l’autore del diario del cavalier Bernini in Francia), fratelli molto importanti per la storia dell’arte.
La princeps si basa sul “codex barerinus latinus 4304”, una di quelle copie nate a seguito alla circolazione in
Italia del codice urbinate. Questo codice si trovava a Roma e apparteneva al cardinale Francesco Barberini,
nipote di Urbano VIII. Il suo segretario, Cassiano dal pozzo, erudito e collezionista, creò un “museo di carta”
o “museum cartaceum” che comprendeva disegni di opere classiche realizzati da importanti artisti, era una
collezione di antichità copiate, tra questi artisti c’è Nicolas Poussin: Francese che aveva trascorso quasi
tutta la sua vita a Roma, aveva conosciuto Giovan Battista Marino a Parigi, appassionato collezionista
d’Arte. Poussin è un artista completamente preso dallo studio dell’antichità e che vive in disparte
producendo tele meditate e incentrate sul mondo classico destinate a committenti francesi (tra cui Paul
Frehart de Chantelou, spesso i committenti erano gelosi l’uno dell’altro per le tele che ricevevano).
Nell’ambiente erudito del cardinale Barberini, negli anni 40 del 600 nasce il progetto di creare il libro
dell’arte di Leonardo, Chantelou porta il codice Barberini a Parigi. Ha poco valore filologico in quanto copia
di una copia. Poussin avrebbe dovuto creare i disegni e le illustrazioni (il trattato era ricco di illustrazioni che
avevano per Leonardo grande importanza perché facevano parte dei suoi studi e delle sue esaminazione
del mondo). Poussin, legato al mondo classico, regolarizza lo stile di Leonardo secondo un’ottica classicista,
il tratto Leonardo era però rapido e vivace e si verrà quindi a perdere la componente legata agli studi sul
movimento e sulla natura. I suoi disegni saranno incisi da Bosse che aggiunge sullo sfondo delle figure di
Poussin dei particolari architettonici, paesaggi e altri elementi di sfondo che a Poussin non piacciono e
infatti protesterà con l’incisore. Il contesto in cui nasce è quella della neonata accademia reale di pittura,
scultura e architettura, alla corte di Luigi XIV, col dichiarato obbiettivo di riassegnare l’egemonia culturale
artistica alla Francia e non più all’Italia, da una parte è legato al grande culto di Leonardo sviluppato in
Francia che lo vedeva come una proprietà intellettuale francese, dall’altro è condizionato dal forte
classicismo che permea gli ideali dell’accademia.
In calce alla princeps viene aggiunto anche il libro della pittura di Leon Battista Alberti facendo una
collazione fra i due testi. Di queste 8 sezioni del codice urbinate, 5 sezioni vengono omesse, è un’edizione
mutila e si basa su una copia di una copia, quindi non è affidabile filologicamente. Tra le parti che mancano
c’è tutta la parte del paragone delle arti.
Abbiamo una lettera a Ludovico il moro del 1482/1483 trovata nel codice Atlantico, l’autografia è stata a
lungo dibattuta, si pensava fosse scritta da Donato Rucellai. È una presentazione in cui si elencano per punti
tutte le cose che si sanno fare per invogliare Ludovico il Moro ad assumerlo al suo servizio.
Lettura pag 201
Lezione 13
Nel passo della vita di Leonardo del Vasari del 1568 (su moodle), è narrato un episodio, avvenuto tra il 1550
e il 1568, in cui Vasari incontra un pittore che possedeva i codici di Leonardo, forse il Lomazzo. Cita anche
l’allievo Francesco Melzi.
Qualche osservazione utile sui codici leonardeschi: Dal codice urbinate si generano molte copie, presenta
chiari segni di un intento di pubblicazione, forse era intenzione dello stesso Melzi, possiamo vederlo dagli 8
fogli bianchi, altri segni si fermano al foglio 31 e sembrano risalire a un intervento redazionale finalizzato a
una pubblicazione.
Le informazioni di Vasari non vanno però prese troppo sul serio perché le sue fonti non sono sempre
affidabili e spesso tende a romanzare gli avvenimenti, a parte questo particolare abbiamo una prova che la
produzione di copie dal codex urbinas 1260 era già iniziata prima della data ipotetica dell’incontro del
pittore con Vasari. La prova è che entrambi, sia la princeps sia quella a cui è ispirata (ovvero il Codex latinus
barberinus 4304), si trovano oggi alla biblioteca apostolica aquitana di Roma provenienti da Urbino.
Al seguito di Urbano Ottavo, del nipote, il cardinale Francesco Barberini, e in particolare del segretario
Cassiano del Pozzo, si affronta questa impresa della princeps, l’incarico era stato affidato a Paul Fréart de
Chantelou. Il manoscritto a lui affidato si trova oggi all’Ermitage ed è molto importante per conoscere la
diffusione del codice, si tratta di una copia di una copia di una copia perché il Barberinus è una copia
dell’urbinate e quest’ultimo è una copia del Barberinus. Questo manoscritto conteneva anche i famosi
disegni di Nic