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DIRITTO DEL LAVORO
carattere economico e sociale che precludono la piena partecipazione del lavoratore subordinato, e quindi
svantaggiato, alla vita della comunità che costituisce lo Stato repubblicano.
Si può quindi dire che il diritto del lavoro, ricordate le sue funzioni tra cui, oltre quella di tutela c’è anche
quella di acquisire una redistribuzione del reddito, il diritto del lavoro si può leggere, almeno fino a un certo
punto, almeno finchè la crisi e la globalizzazione non incidono su questa funzione fondamentale in modo
decisivo, come modo di attuazione di una direttiva fondamentale, di un principio fondamentale della
repubblica italiana che è quello dell’uguaglianza sostanziale.
Il contraltare di questa norma è l’art. 41, che non è tra i principi fondamentali della costituzione ma è inserito
nel titolo II intitolato “rapporti economici”.
L’art.41 dice che l’iniziativa economica privata è libera e quindi tutela la funzione dell’impresa, tutela
l’impresa come tale, come produttrice di profitto e quindi produttrice del benessere della repubblica.
Il comma 2 però dice che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in
modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
La storia del diritto del lavoro si legge non in questa luce.
L’ordinamento giuslavoristico, oltre a tutelare, in funzione progressiva dal punto di vista sociale, il lavoro
subordinato, deve anche farlo in maniera tale da contemperare gli interessi delle parti contrapposte nel
rapporto di lavoro e deve quindi anche realizzare delle distinzioni perché l’iniziativa economica privata
continui ad essere libera e quindi continui a poter produrre efficientemente profitti.
Il limite di cui all’art.3 lo si ritrova nel comma 2 dell’art.41 che parla delle condizioni e dei limiti in cui
l’iniziativa economica si può svolgere legittimamente e tra questi limiti c’è la dignità umana e la libertà dei
singoli che lavorano nell’impresa.
La sentenza della corte costituzionale n.103 del 1989 riassume il conflitto tra art.3 e art.41.
In particolare, questa sentenza, nello stabilire un risvolto particolare del principio di uguaglianza che è la
parità di trattamento, costituisce il punto più alto della invasività dei principi fondamentali della costituzione
rispetto alla libertà di impresa.
Il pretore di Napoli dubita della legittimità costituzionale degli articoli 2086 ( secondo la costruzione
dell’ordinamento corporativo, l’imprenditore è il capo dell’impresa ma risponde però al bene della nazione e,
alla fine della piramide, ci sono i lavoratori che rispondono sia all’imprenditore che al bene della nazione),
2087 (che riguarda la salvaguardia della salute e della dignità del lavoratore), 2095 (sulle categorie dei
lavoratori), 2099 (in materia di retribuzione), 2103 (in materia di mansioni) nella parte in cui consentono
all’imprenditore di attribuire ai dipendenti, a parità di mansioni, diversi livelli o categorie generali di
inquadramento retributivo, in quanto risulterebbe violato l'art. 41 della Costituzione perché sarebbe
compresso il diritto dei lavoratori al rispetto della loro dignità umana, in spregio dei limiti che il richiamato
precetto costituzionale impone alla libertà di iniziativa economica.
Il pretore si trova a giudicare, nel giudizio originario, della possibilità che è data al datore di lavoro di
attribuire ai lavoratori diversi trattamenti economici e di inquadramento, nonostante svolgano le stesse
mansioni.
Qui è evidente il conflitto tra “l’iniziativa economica privata è libera” e quindi io ritengo che sia utile per me,
per determinate caratteristiche che Tizio ha e Caio non ha nonostante facciano le stesse cose, di attribuire a
tizio dei trattamenti migliorativi rispetto a Caio pur facendo entrambi le stesse cose.
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DIRITTO DEL LAVORO
Il pretore di Napoli dice che questo non è possibile perché viene violato il comma 2 dell’art.41. Allora qui si
discute se sia più forte il comma 1, cioè la libertà di iniziativa privata, o è più forte il comma 2 cioè quello dei
limiti, deve prevalere, per una lettura corretta della costituzione, il diritto dell’imprenditore a fare quello che
vuole, nei limiti della legittimità, nella gestione della propria impresa rispetto ai lavoratori oppure emerge
prepotente il profilo del diritto alla parità di trattamento quando si fanno le stesse cose e quindi il diritto dei
lavoratori a vedere tutelata la propria dignità sotto questo profilo?
La risposta della corte costituzionale è articolata.
La questione non è fondata e cioè il pretore di Napoli non ha ragione di dubitare della legittimità
costituzionale di questi articoli. Ma perché?
In base all'art. 2095 del codice civile, nel testo sostituito dall'art. 1 della legge 13 maggio 1985, n. 190, i
lavoratori subordinati si classificano in quattro categorie: dirigenti, quadri, impiegati ed operai.
Le leggi speciali e i contratti collettivi (ora anche i contratti aziendali) determinano i requisiti di appartenenza
alle dette categorie in relazione a ciascun ramo della produzione e alla particolare struttura dell'impresa.
Ma la contrattazione collettiva, stabilendo i detti requisiti, ha creato, a volte, altre categorie (c.d. contrattuali)
che si pongono accanto a quelle legali.
Essa e, dopo lo Statuto dei lavoratori, la contrattazione aziendale, consentono di tenere conto delle
situazioni aziendali, alcune volte complesse, e delle situazioni e delle condizioni dei lavoratori (età, anzianità
di lavoro ecc...). Sono poste anche delle tecniche di classificazione, quali le declaratorie generali, le
definizioni generali delle posizioni dei lavoratori, i profili professionali ecc.... All'interno delle categorie,
comunque, si dà rilievo precipuo, specie ai fini retributivi, alle mansioni svolte di fatto dal lavoratore, in base
alle quali si determinano le qualifiche professionali ed ora i livelli retributivi.
Ormai, però, si tende a superare la rigida distinzione in categorie, ad avvicinare, per esempio, gli operai agli
impiegati e ai quadri che hanno una posizione intermedia.
Per quanto riguarda le mansioni, l'art. 2103 del codice civile, sostituito dall'art. 13 della legge 20 maggio
1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori), prevede l'obbligo del datore di lavoro di destinare il lavoratore alle
mansioni per cui lo ha assunto o a mansioni equivalenti, senza, pero, diminuzione di retribuzione, o alla
categoria superiore successivamente acquisita. Sicché può affermarsi che nella determinazione delle
mansioni e dei conseguenti livelli retributivi, l'autonomia del datore di lavoro, cui spetta l'organizzazione
dell'azienda, é fortemente limitata dal potere collettivo, ossia dai contratti collettivi e dai contratti aziendali.
Prosegue poi la sentenza parlando delle varie declinazioni del principio di parità di trattamento: del principio
di uguaglianza di cui all’art.3 costituzione, art.15 (donna lavoratrice) e 16 dello statuto dei lavoratori, ecc. “Il
datore di lavoro deve astenersi dal compiere atti che possano produrre danni e svantaggi ai lavoratori, cioé
lesioni di interessi economici, professionali e sociali; in particolare, dell'interesse allo sviluppo professionale
(artt. 2 e 3 cost.) (riferito sia alla carriera che alla valorizzazione delle relative capacità).
La vasta serie di interessi dei quali e portatore il lavoratore e protetta anche per la sfera esterna all'azienda:
sono protetti non solo gli interessi di natura economico-professionale ma altresì quelli personali e sociali.
La dignità sociale (artt.2, 3 e 41 comma 2) del lavoratore e tutelata contro discriminazioni che riguardano non
solo l'area dei diritti di libertà e l'attività sindacale finalizzata all'obiettivo strumentale dell'autotutela degli
interessi collettivi, ma anche l'area dei diritti di libertà finalizzati allo sviluppo della personalità morale e civile
del lavoratore. La dignità e intesa sia in senso assoluto che relativo, cioè per quanto riguarda la posizione
sociale e professionale occupata dal cittadino nella qualità di prestatore di lavoro dipendente.
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DIRITTO DEL LAVORO
Risulta notevolmente limitato lo ius variandi del datore di lavoro, mentre, proprio in virtù del precetto
costituzionale di cui all'art. 41 della Costituzione, il potere di iniziativa dell'imprenditore non può esprimersi in
termini di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i
principi fondamentali dell'ordinamento ed in specie non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana”.
La sentenza conclude in un modo che è dirompente: “E' demandato al giudice l'accertamento e il controllo
dell'inquadramento dei lavoratori nelle categorie e nei livelli retributivi in base alle mansioni effettivamente
svolte, con osservanza della regolamentazione apprestata sia dalla legge, sia dalla contrattazione collettiva
ed aziendale, e con il rispetto dei richiamati precetti costituzionali e dei principi posti in via generale
dall'ordinamento giuridico vigente, ispirato, come si è detto, anche ai principi contenuti nelle convenzioni e
negli atti internazionali regolarmente ratificati. Il giudice deve provvedere alle necessarie verifiche ed ha il
potere di correggere eventuali errori, più o meno volontari, perché il lavoratore riceva l'inquadramento che gli
spetta nella categoria o nel livello cui ha diritto.
La corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2086, 2087, 2095, 2099,
2103 del codice civile, in riferimento all'art. 41 della Costituzione, sollevata dal Pretore di Napoli”.
Questa sentenza della corte costituzionale autorizza il giudice non solo a dichiarare illegittime le differenze di
trattamento di cui di è parlato generate dall’iniziativa imprenditoriale che ritenga più utile pagare un
lavoratore in modo diverso rispetto ad un altro, ma autorizza il giudice, in modo dirompente rispetto al nostro
sistema di relazioni industriali, a dichiarate nulle o illegittime eventuali clausole del contratto collettivo che
non tutelino a sufficienza il profilo dell’uguaglianza fra i lavoratori.
La sentenza 6030 del 1993 della cassazione civile a sezioni unite fa il punto della situazione sulla parità di
trattamento ma soprattutto sulla possibilità di intervento del giudice nelle relazioni cont