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Allora come mettere in relazione correttamente l’art. 346 cpc con l’art. 329 cpc?
Molto più semplicemente, l’espressione “domande ed eccezioni non accolte” si deve ritenere riferita
alle domande ed eccezioni non accolte perché rimaste assorbite, non a quelle rigettate e nemmeno a
quelle pretermesse.
Se il giudice le rigetta devi fare appello incidentale.
Se il giudice non le decide avendo il dovere di decidere, bisogna fare appello incidentale.
Il 346 riguarda semplicemente le domande ed eccezioni che il giudice non ha deciso perché erano
rimaste assorbite dalla decisione. Il giudice aveva accolto una delle due domande alternative, non
avendo statuito sull’altra. Allora il giudice d’appello dovrà decidere sulla domanda alternativa
rimasta assorbita in primo grado che viene devoluta automaticamente, purché nei termini previsti
per ciascun rito (memoria difensiva per il rito del lavoro e udienza di precisazione delle conclusioni
per il rito ordinario) la parte dimostri di avere ancora interesse alla decisione di quella domanda.
Il giudice in primo grado rigetta la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento,
conseguentemente rigetta anche la domanda di risarcimento dei danni derivante dalla risoluzione
del contratto, perché inesistente; non pronunzia, perché assorbita, sull’eccezione di prescrizione sul
diritto al risarcimento dei danni. Non essendoci inadempimento, il giudice non considera la
domanda. Dice: “non mi interessa nemmeno andare a guardare se c’è l’eccezione di prescrizione,
perché il giudice per prima cosa valuta se c’è un inadempimento, se non c’è, tutto ciò che è
conseguente all’inadempimento non può essere concesso, quindi l’eccezione di prescrizione, sul
diritto al risarcimento dei danni, non dev’essere nemmeno esaminata.
Ma se il mio avversario appella sulla domanda principale, è chiaro che l’eccezione di prescrizione
viene devoluta e il giudice ne può conoscere, ma con questa particolarità: ricordatevi di riproporla.
Se vi dimenticate di riproporla, la domanda o l’eccezione si ritiene rinunciata.
Quindi, noi parliamo di effetto devolutivo sia per indicare che c’è un effetto potenzialmente
devolutivo di tutte le questioni, sia per indicare che le questioni rimaste assorbite in primo grado
vengono devolute al giudice dell’impugnazione senza bisogno che siano articolati specifici motivi
di impugnazione. Con la particolarità però che dovrete ricordarvi di riproporla.
Ma giustamente la giurisprudenza dice che non c’è un termine, come quello previsto per
l’impugnazione incidentale, ma basta che lo ripropongo nel corso del processo.
Quindi nel giudizio del lavoro, dove ci sono le preclusioni anticipate, o nel ricorso o nella memoria
difensiva; nel rito ordinario puoi aspettare fino all’udienza della precisazione delle conclusioni,
tanto non c’è da fare nuova attività. È tutto chiaro? Bene.
Solo da questo punto di vista si può parlare di effetto devolutivo allargato, cioè effetto devolutivo
che riguarda anche le questioni rimaste assorbite. Io impugno la statuizione su una domanda o una
questione, tutte le questioni che il giudice di primo grado non aveva deciso, perché rimaste assorbite
in forza di una determinata statuizione, vengono automaticamente devolute, perché può darsi che
l’accoglimento della impugnazione sulla questione principale faccia rinascere il dovere decisorio
del giudice su queste domande ed eccezioni rimaste assorbite.
Non ha senso invece parlare di effetto devolutivo allargato sui capi dipendenti derivanti dal 336.
Mi spiego meglio.
Si potrebbe ritenere che, siccome l’art 336 cpc dice che la riforma o la cassazione della sentenza si
estende anche ai capi dipendenti, allora l’impugnazione della parte di sentenza devolverebbe
automaticamente al giudice di appello anche le questioni decise con le parti di sentenza dipendenti
da quelle impugnate.
L’art 336 cpc dice che la riforma o la cassazione della sentenza estende gli effetti anche alle parti di
sentenza dipendente.
C’è chi dice quindi: allora, se io impugno una parte di sentenza, in realtà non devolvo al giudice
dell’impugnazione soltanto le questioni decise con quella parte di sentenza impugnata, ma anche le
questioni decise con le parti di sentenza idonee ad essere travolte dall’effetto espansivo della
sentenza di riforma.
È un errore concettuale abbastanza grave perché in realtà io non attribuisco affatto al giudice
dell’impugnazione le questioni decise con le parti di sentenza dipendente. Quelle parti di sentenza
dipendente vengono travolte automaticamente per effetto della riforma della parte principale, senza
che il giudice dell’impugnazione conosca affatto quelle questioni.
Se io impugno in una sentenza solo il capo relativo alla condanna al pagamento di una somma
capitale e non menziono minimamente il capo o la parte di sentenza relativa agli interessi, il giudice
si limita a dire: “rigetto l’appello, accolgo l’appello.. riformo la sentenza e dichiaro non dovuta la
somma capitale.”
Non ha bisogno di estendere la sua pronunzia anche al capo di sentenza che riguarda gli interessi.
Se lo fa, bene, se non lo fa, non fa niente perché se il capitale non è dovuto non sono dovuti
nemmeno gli interessi.
Questa parte di sentenza sugli interessi viene travolta automaticamente per effetto della riforma
della parte di sentenza che riguarda il capitale.
Non dovete pensare che, se il giudice non lo dice, io non devo più pagare il capitale, ma dovrò
pagare gli interessi. Su che cosa? Sulla somma non dovuta?! Evidentemente non pago.
Viene travolta automaticamente, non per effetto di una decisione del giudice, che non ha nessuna
cognizione in proposito.
Il fatto è che, spesso succede che io non impugno solo sul capitale, io impugno sul capitale e sugli
interessi e il giudice di appello, ovviamente, dopo aver detto “accolgo il motivo riguardante il
capitale”, dice: “dichiaro non luogo a provvedere sul motivo di impugnazione riguardante gli
interessi perché comunque gli interessi non sono dovuti”.
Cioè lui si occupa degli interessi solo per giustificare il fatto di non decidere sull’impugnazione.
Siccome io ho proposto due motivi di impugnazione, uno sulla somma capitale e uno sul tasso di
interesse, lui accoglie il primo motivo di impugnazione e dice “per quanto riguarda il secondo
motivo di impugnazione, non ritengo di doverlo esaminare, in quanto esso viene travolto dal capo di
sentenza con cui ho accolto il primo motivo di impugnazione.
Ma non è che sta occupandosi della questione!
Queste sentenze di questa prassi dei giudici di giustificare il perché non si occupano del motivo di
impugnazione dei capi dipendenti, che è una prassi dovuta perché i motivi di impugnazione sono
proposti e il giudice dice: “non luogo a provvedere in quanto assorbito”.
Il fatto che nelle sentenze spesso vi sia una statuizione anche che riguarda i capi di sentenza travolti,
ha fatto pensare una parte della dottrina che allora l’impugnazione della parte principale devolve
anche le parti dipendenti. No!
Il giudice si occupa di quelle parti dipendenti in quel caso perché c’è un motivo di impugnazione su
quella parte dipendente, altrimenti avrebbe dovuto stare zitto.
Non avrebbe dovuto nemmeno occuparsene.
Quando il giudice può risolvere e dice: “la conseguenza di questa sentenza non sono gli interessi”,
in realtà sta semplicemente constatando una cosa che nessuno gli ha chiesto di fare, non sta
travolgendo egli il capo di sentenza. Quello verrà travolto automaticamente.
Tanto il giudice ha il dovere di dire che c’è stato questo effetto espansivo solo per spiegare il perché
non decide su ulteriori motivi di impugnazione.
Se non ci sono ulteriori motivi di impugnazione, non dovrebbe a rigore nemmeno occuparsene. È
chiaro?
Quindi c’è effetto evolutivo allargato? Sì, ma soltanto nei limiti del 346, non sui capi dipendenti.
L’effetto evolutivo allargato è sulle questioni assorbitesi.
Quindi, se vogliamo, sulla base della sentenza con la quale il giudice aveva detto che la questione
era rimasta assorbita. Questa è travolta da effetto devolutivo allargato perché ovviamente il giudice
che accoglie la impugnazione sulla parte di sentenza principale, si occupa anche dell’assorbimento e
dice: “ a questo punto viene meno l’assorbimento e devo decidere anche su quell’altra domanda o
questione non accolta (nel senso di non esaminata) e per questo non esaminata in primo grado. E a
questo punto dice: “ la questione la parte non l’ha proposta, peraltro non essendo stata riproposta, la
questione si intende rinunciata”. Oppure, siccome la parte l’ha riproposta, la decido”. Questo è il
gioco.
“professore scusi, quindi le parti dipendenti devono essere dichiarate dal giudice..”
No, le parti sono dipendenti in quanto tali, il giudice lo dichiara nel momento in cui ha bisogno di
giustificare il mancato esercizio del suo potere decisorio su un motivo di impugnazione. Il giudice
non si occupa di un motivo di impugnazione in quanto questo era diretto a far risaltare una parte
dipendente che comunque era stata travolta. Ma se io sulla parte dipendente non ho articolato un
motivo di impugnazione, il giudice teoricamente dovrebbe stare zitto. Quella parte comunque viene
travolta.
Il 336 non dice che quando il giudice riforma una sentenza, deve riformare anche le parti
dipendenti. Dice solo che la riforma della sentenza travolge le parti dipendenti.
Allora, il contrario.
Possiamo in appello ampliare l'oggetto delle questioni proposte al giudice in primo grado?
Vi è, in appello, uno ius novorum, cioè le parti hanno il diritto di introdurre nova?
I cretini parlano di divieto di ius novorum, ma è un controsenso. O ho lo ius novorum o non ce l’ho.
Io potrei avere o non avere il diritto di veto nei tuoi confronti, ma parlare di divieto di diritto di veto
è abbastanza strano. Non è che c’è il divieto di ius novorum..c’è il mancato riconoscimento di ius
novorum, cioè le parti non hanno il diritto di introdurre nova. Questo significa.
La domanda è: c’è diritto di ius novorum nel giudizio di appello?
Tendenzialmente no, perché il legislatore, pensando che il processo sia un sistema geometrico, ha
pensato più o meno così: “siccome in primo grado sono maturate le preclusioni (dopo un certo
momento nel processo, non è stato più possibile alle parti proporre una domanda e proporre nuove
eccezioni e nuove prove), che