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II.
L’apparente eccentricità di Praz è sempre riconducibile ad uno sforzo culturale di ricostruzione
totale. Siamo in presenza di una sensibilità tutta moderna, che sente di poter cogliere l’essenza di
un’epoca, di una civiltà, attraverso gli autori e le mode minori.
La forza propulsiva del pensiero di Praz è centripeta, non centrifuga, muove dalla periferia della
cultura verso il centro con velocità sempre crescente, spesso raffinando via via il suo contenuto fino
a bruciarsi nell’epigramma finale. E il tema comune delle stravaganze di Praz è, alla fine, chiaro:
non si può negare una parte senza negare il tutto.
Praz oppone il suo rifiuto d’ogni riduzione dell’umano alla nuda natura d’entre biologico o
vitalistico o esistenziale o psicologico o quantitativamente economico. L’umano è la traccia che
l’uomo lascia nelle cose, è l’opera, è la dissimilazione continua d’opere e oggetti e segni che fa la
civiltà.
Sorge il sospetto che la colpa di Praz sia stata non tanto l’aver adorato immagini scolpite come egli
amava dire, quanto l’aver creduto nella permanenza delle cose e non nel loro consumo,
commettendo il peccato supremo di ritenere che le cose abbiano un’anima.
Non il possesso in sé e per sé attira Praz, ma la capacità di redenzione dal flusso del tempo che esso
soffre, gli spazi che apre alla fantasia.
Le implicazioni di questo atteggiamento per lo scrittore sono chiare. In senso storico, Praz
estremizza una tendenza che negli autori moderni è comune: la definizione di un’epoca e di un
personaggio passa attraverso la caratterizzazione di ambienti e la descrizione di oggetti, anche
all’apparenza insignificanti, più che attraverso le generalizzazioni sulla natura umana tipiche del
romanzo del Settecento Praz crede fortemente che la storia degli oggetti sia la storia degli uomini,
specie dall’Ottocento in poi, quando i romanzieri cominciarono a descrivere gli ambienti tanto
quanto e più degli uomini che li abitavano. È nelle città e nelle strade senza storia che l’uomo
muore se non ci si può non curare della scomparsa degli uomini, altrettanto andrebbe fatto per i
monumenti, per le strade care di quella civiltà che seppe produrli.
Praz si rifiuta di non guardare la decadenza moderna. La sua reazione di fronte alla distruzione del
Ponte di Santa Trinità o di Borgo San Iacopo, è la stessa che lo scrittore assumerà, dalla seconda
guerra mondiale in avanti, di fronte al declino della civiltà occidentale.
Praz vede e rivede, con sofferenza, passato e presente. Nei suoi scritti l’ombra della biblioteca si fa
sempre più ingombrante, ed intorno ad essa egli costruisce la sua linea di difesa.
III.
Se si rileggono i saggi di Praz in questa prospettiva, è difficile non rilevare come, al di là del tono
sempre vivace, ironico, il disgusto e il rifiuto per il presente siano frequentissimi, tanto che non c’è
quasi saggio in cui la ricerca del passato non abbia per corollario una frase sdegnosa, un parallelo
svantaggioso, una reticenza dolorosa rivolti al presente lo stesso Praz nel 1944 si definisce
“passatista”.
Con gli sperimentatori del nostro secolo Praz non fu mai molto tenero: questi sono iconoclasti,
vogliono innalzare obelischi al progresso in un mondo di cui hanno fatto tabula rasa; Praz, al
contrario, è toccato nel profondo solo dallo spettacolo dell’innovazione tecnica che invade
progressivamente il mondo in cui era cresciuto e si era formato: la Firenze umbertina.
Proprio la ricerca nel passato rende però Praz molto attento al presente, di cui troviamo nei suoi
saggi una consapevolezza acutissima. IV.
C’è anche da dire che non tutto ciò che è passato attira Praz. Tra le stanze chiuse e polverose, si
sente anche soffocare.
L’eco di grandi storie immortali, l’incompletezza o la decadenza di un monumento, di una scultura,
di un quadro, lo interessano di più della veglia intorno a un cadavere, nella speranza di coglierne gli
spasimi postumi. I mobili, i quadri, gli oggetti di cui Praz si circondava erano certamente avvolti da
un velo di malinconia, ma non erano “morti” la malinconia infatti non è mai morta, ma è
espressione schietta di una presenza “viva”, qualcosa che anima gli oggetti e attribuisce loro una
relazione con l’ambiente circostante, con lo spirito e l’umore di chi li contempla.
Alla moderna incapacità di creare il velo dell’illusione Praz si ribella. Lo ritiene un guasto
irreparabile nel tessuto della civiltà la sensazione di essere al capezzale di una civiltà morente non
potrebbe essere più acuta, o espressa chiaramente, in Praz.
La dottrina di Praz sorprende, mentre la sua sottigliezza istruisce. Quel che egli scrisse di Donne
potrebbe applicarsi a Praz stesso: nato in un periodo in cui l’arte della conversazione e del bello
scrivere erano in auge, invecchia nell’era del linguaggio di masso e del materialismo imperante.
L’ultimo emblema: la Casa della vita I.
La consapevolezza di non essere nato “al momento giusto” fu precoce (già nel 1922 ne scriveva al
Cecchi). Tra il giovane Praz e il Praz ormai settantenne il comun denominatore è dato da una
straordinaria vitalità che è, sì curiosità intellettuale, ma anche immutato amore per gli uomini e i
luoghi. Praz sembra quasi uscire, come uomo, dal secolo dei Lumi. Ovviamente del Settecento egli
non incarna una delle figura più tipiche, quella del libertino, ma la vena erotica è comunque fra le
più interessanti da seguire nella sua opera. Si manifesta, deviata, in alcuni canali intimistici di
squisita sensibilità, riferita ad altri o a sé stesso.
Praz riesce a rendere galante, amabilmente discorsiva, certa materia che in altre mani riuscirebbe
pesante.
Il contatto con la carne, la materia, è tutt’altro che raro nell’opera di Praz e la sensualità è anzi una
delle componenti più sottili persino della sua critica d’arte.
Il rapporto col mondo dei sensi è però, ancora una volta, controllato da un buon gusto e un
equilibrio settecenteschi: Praz non si lascia trascinare. Stilisticamente, questo si riflette in una delle
figura retoriche più care a Praz, la reticenza, e nella scrittura della Casa della vita, in cui tutto è
detto ma nulla è esposto alla curiosità morbosa. II.
Prima di trasferirsi, fisicamente e come scrittore, nella “casa della vita”, Praz passa attraverso due
fasi, ciascuna a sua modo emblematica della condizione dell’artista moderno: l’esilio, negli anni
inglese, e l’edificazione di una casa che non sarà semplice abitazione ma summa artistica,
paradigma di una personalità.
Incoraggiato da Cecchi, negli anni fra 1920 e 1924, Praz viaggia per l’Europa, tra Inghilterra,
Francia e Germania soprattutto (all’esilio dall’Italia dovette certo contribuire anche la sua scarsa
simpatia verso il fascismo). La vocazione alla fuga nasce comunque e soprattutto dalla vocazione
alla solitudine. Due atteggiamenti prevalgono: quello dell’orgoglio della solitudine e l’orrore delle
moderne masse osannanti.
Confinato al nord, Praz scopre a Liverpool l’amore per Doris, una delle donne che nella Casa della
vita giunge a sconvolgere la vita dello studioso: l’amore è di quelli giovanili, assoluti. Come le
donne cantate dai petrarchisti, Doris è l’incarnazione dell’idea di bellezza. La donna è sposata e
Praz ricorre al trobar clous, sente che Doris potrebbe “condurlo alla virtù”, raffinarlo in senso
stilnovistico.
Ma c’è anche qualcosa dell’innamoramento romantico nella vicenda e la forza e la disperazione di
quell’amore sono tali da spingerlo a spiare Doris dalla strada furono queste ronde infruttuose a
rendere care a Praz le strade e le banchine di Liverpool. E a farne materia di una prosa elegiaca nel
momento in cui lascia la città per sempre.. III.
Praz rientra in Italia nel 1934, per occupare la cattedra d’Inglese alla Facoltà di Lettere
all’Università di Roma.
Roma diviene “città della vita”, anche come complemento ideale della “casa della vita”, il grande
museo in stile Impero che Praz andava edificando in via Giulia.
La casa della vita, l’opera in cui Praz fa la storia di sé, della sua famiglia e del suo tempo,
descrivendo la sua abitazione romana, le sue stanze e i suoi mobili, comincia in effetti con una
capitolo che non è dedicato ad una stanza, come tutti gli altri, ma a “Via Giulia”. La casa si apre alla
via, e la via a Roma, che è come dire al mondo che a Praz interessa, a indicare che il ritiro non è
quello dell’anacoreta, ma di Robinson che sulla sua piccola isola ricostruisce la civiltà che si è
lasciato alle spalle.
Nei vent’anni circa che seguono e che precedono la scrittura de La casa della vita, Praz crea,
mobile dopo mobile, quadro dopo quadro, uno dei più straordinari musei dello stile Impero che
esistano al mondo l’atteggiamento di Praz nei confronti dello stile Impero è quello
dell’innamorato. IV.
La filosofia dell’arredamento di Praz è già chiara nella prima edizione (1944) della sua opera che ha
quel titolo. In essa è chiaramente enunciata l’idea non utilitaristica del mobile e dell’oggetto: di tutti
i piaceri che l’arredamento può dare, il più grossolano è il piacere del possesso.
L’ambiente interessa Praz solo in quanto specchio dell’anima, archivio delle sue esperienze è
infine un’esaltazione dell’io.
Anche la tecnica di osservazione e descrizione dell’opera d’arte, della sua dilatazione sotto l’occhio
dell’osservatore esperto, prima ancora che in La casa della vita è già esposta compiutamente nel
saggio introduttivo di Filosofia dell’arredamento. Praz usa i quadri e i mobili come antichi
manoscritti da cui ricavare una storia.
Egli non si contenta di cantare il mobile, o di descrivere un ambiente; negli interni cerca la
sensibilità di un’epoca (Stimmung), e sicuramente la propria (lo stile Impero spira per lui un
profondo significato etico).
“Mnemotechné” e scrittura ne “La casa della vita”
I.
Che cosa è avvenuto con La casa della vita, che ha fatto osservare ai critici come quest’opera si
lasci di molto indietro le precedenti e raggiunga ben altra misura? Alle divagazioni della fantasia si
è sostituito il “ben più intenso e accorato gioco della