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ESARE AVESE
Mestiere di vivere e mestiere di scrivere
Oltre alla grandissima azione culturale, di Pavese fu esemplare il destino umano, nel quale un
profondo dissidio si concludeva – malgrado i disperati tentativi di esorcizzarlo (con l'impegno
creativo, il lavoro, la militanza politica) – con una sconfitta, il suicidio. Troviamo in lui una
fondamentale riluttanza alla vita. Cesare Pavese nacque a Santo Stefano Belbo, in provincia di
Cuneo, nella cascina di San Sebastian: saranno questi i luoghi (e le esperienze infantili ad essi
collegate) che Pavese farà poi oggetto di mitizzazione,collocando nell'infanzia la matrice prima
di una sensibilità e una mitologia personale. L'infanzia è segnata dal trauma della morte del
padre. Dopo gli studi liceali al “D'Azeglio”, si avvicina all'ambiente culturale torinese di forte
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impronta gobettiana (Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Norberto Bobbio). Durante gli anni dell'
Università matura interessi per la letteratura americana: si laurea infatti con una tesi su W.
Whitman. Si dedicò poi al lavoro di traduttore (ad es. tradusse il Dedalus di Joyce). Nel maggio
1935 viene accusato di attività antifascista, arrestato e condannato a 3 anni di confino presso
Brancaleone Calabro (nel frattempo esce su «Solaria» la sua raccolta poetica Lavorare stanca);
qui passa il tempo dedicandosi agli studi e alla letteratura e inizia anche a tenere una sorta di
diario letterario ed esistenziale, Il mestiere di vivere (di cui molte pagine testimoniano un
oscuro e disturbato rapporto con il sesso). Dalla vocazione alla morte, lo salvano – almeno per
il momento – l'esercizio letterario e, dal '38, un rapporto di lavoro con la casa editrice Einaudi.
Dall'8 settembre alla Liberazione si rifugia con la famiglia della sorella a Casale Monferrato,
estraneo a quanto accade nel paese e lontano dagli amici impegnati nella Resistenza → è di
certo un'estraneità non priva di conflitti interiori. Dopo la Liberazione aderì a quel clima di
speranze del dopoguerra, iscrivendosi al PCI torinese, nel tentativo (forse) di riscattare di
fronte a se stesso e agli altri la mancata presa di posizione ai tempi della guerra partigiana. In
questi anni cerca conforto dai suoi tormenti nello studio dei classici e di testi di antropologia e
psicoanalisi. Al successo professionale fanno da contraltare le frustrazioni sentimentali:
l'ultima nel '50 con l'americana Constance Dowling. Nell'ultimo periodo Pavese ha ormai
svuotato dal di dentro quei miti (memorie ancestrali, infanzia, paese) che si era costruito in
precedenza. Si suicida nel 1950 in una camera d'albergo a Torino.
Le prime opere
Lavorare stanca. Pavese esordisce come poeta nel '36 con la raccolta Lavorare stanca, che
fissa già le principali caratteristiche della sua poesia. In un periodo di pieno culto ermetico,
l'autore imbocca la strada antitetica della poesia-racconto, che si distende in ampi ritmi
narrativi, adotta i toni del parlato, fa posto ad un mondo brulicante e vivo (osterie, campagne,
vie della città, desolate periferie) e rompe definitivamente col rarefatto solipsismo di tanta
poesia contemporanea. Sul piano formale l'esigenza narrativa si concreta in un verso lungo
dalle cadenze ampie e ariose (generalmente un decasillabo allungato di qualche piede), nel
quale è evidente la suggestione delle soluzioni metriche di Whitman, ma anche l'esperienza
della poetica torinese (da Thovez a Gozzano) e delle lasse prosastiche di Jahier. Sul piano
ideologico si ricerca una massima aderenza cose-parole.
MA questi primi canoni di poetica subiscono via via notevoli modifiche: la + importante
consiste nel fatto che Pavese, avvertendo che lo poesia-racconto può anche condurre nel
vicolo cieco del bozzetto naturalistico, teorizza una poesia che si risolva in immagine. Non
si pensi comunque ad una svolta definitiva: poesia-immagine e poesia-racconto coesistono.
Lavorare stanca si presenta quindi come tutt'altro che compatta e univoca. A definirne lo
spirito e il senso complessivo è lo stesso Pavese in A proposito di alcune poesie... Nella raccolta
si presentano tutta una serie di topoi pavesiani che ritroveremo anche in seguito:
la solitudine come condanna esistenziale e incapacità di rapporto con gli altri;
il vagheggiamento della donna;
la campagna come luogo mitico, prima conoscenza del mondo e della quale vengono
mitizzate certe componenti: sesso, sangue, violenza, sacralità di certi riti;
la figura dell'esule o espatriato, di colui che si è allontanato e sdradicato dal proprio
mondo, è andato in giro (magari facendo fortuna), ma che prima o poi, col ritorno nei
propri luoghi, tenta ancora una aggancio col passato infantile, un ritorno alle radici;
la delusione per la città, in cui si erano proiettati i miti della campagna, ma in cui invece
si trova solo la solitudine.
Il carcere. L'insoddisfazione per l'esperienza poetica, porta Pavese a dedicarsi alla narrativa. Il
carcere (scritto tra '38 e '39) costituisce la sua prima prova narrativa di notevole validità.
Il romanzo è incentrato sulla figura di Stefano, un ingegnere del Nord confinato per motivi politici
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nel Meridione, e sulla sua solitudine sentita nel contempo come condanna e privilegio o come
destino. Nelle sue giornate, egli si porta dietro questo “carcere” della solitudine, dal quale non
riesce a uscire nemmeno quando, grazie al condono, sarà libero dal “carcere” del confino →
fortissime componenti autobiografiche.
Paesi tuoi. Pubblicata nel 1941, l'opera attirò subito su Pavese (conosciuto fino ad allora come
traduttore) l'attenzione della critica e contribuì a creare quell'equivoco sul suo “realismo” che
sarebbe poi stato ripreso ed enfatizzato negli anni del neorealismo, dopo il '45. IN REALTÀ la
descrizione di una campagna primitiva e barbarica, i temi delle violente passioni e del sangue
(l'inclinazione incestuosa di Talino per la sorella Gisella, che lo spinge ad ucciderla), l'adozione
di un linguaggio dialettale e parlato in consapevole polemica con la prosa d'arte vanno inseriti
all'interno di un complesso culturale che obbliga ad andare OLTRE l'apparente oggettività
naturalistica → ritroviamo infatti anche qui temi cari a Pavese:
il rapporto/contrasto città-campagna;
le suggestioni, + che di Verga, degli americani (Steinbeck, Whitman), mitizzati sia come
aedi di un'umanità primitiva, barbarica e libera, sia come cantori di un linguaggio anti-
letterario;
la tendenza a conferire una dimensione mitica, rituale, a ciò che a prima vista potrebbe
apparire semplice registrazione naturalistica → ES: l'assassinio di Gisella va letto con il
valore mitico di un rito iniziatico.
Poetica del mito. A una lettura del reale in chiave simbolica, a vedere nel mondo della
campagna (contrapposto sempre alla città) una trama di significati rituali, di sensi ancestrali,
Pavese era stato spinto anche grazie alla lettura (attorno agli anni '40) delle opere di etnologi,
antropologi e studiosi del sacro. Si delineava così la sua concezione del MITO:
dalla meditazione sul Vico, dagli studi di etnologia, dalle suggestioni dell'irrazionalismo
decadente, Pavese deriva un'idea-base secondo la quale in noi, in un aurorale contatto col
mondo, si creano miti/simboli, che assurgono a significazione delle cose, irrazionale ma
definitiva e determinante per il futuro: una sorta di memoria del sangue.
In altri termini, il mito è nell'infanzia e fornisce significati per il futuro; MA l'infanzia finisce o
comunque la vita allontana sempre + dal mondo dell'infanzia, dai luoghi e dai miti che ad essa
appartengono, ed ecco l'esperienza della solitudine, dell'estraneità, dell'inaridirsi. Da ciò
risulta evidente quanto lontano sia Pavese da ogni intento di rappresentazione realistica. Ne
deriva, come principio di poetica, che il compito dell'artista consiste nell'escavazione di questo
fondo mitico, primigenio e irrazionale che è patrimonio di ogni essere umano→ l'arte moderna
è un ritorno all'infanzia.
Le opere della maturità
Città e campagna. Comincia con il 1940 il decennio + ricco dell'attività creativa di Pavese, che
produce opere assai diverse. Casi limite sono: Il compagno (storia dell'educaz. sentimentale e
della presa di coscienza politiva di Pablo),che risente degli entusiasmi neorealistici,e i Dialoghi
di Leucò (il cui titolo deriva dalla grecizzazione del nome di Bianca Garuffi, di cui Pavese era
innamorato), che invece si distinguono per l'elaborazione intellettualistica e per il costante
distanziamento dalla realtà. Questo sperimentatismo che orienta Pavese in 2 direzioni in
apparenza diverse si può così spiegare:
per un verso egli sente il bisogno di dare parola e forma a questo recupero del fondo
costitutivo della propria personalità, radicato nell'infanzia, nella campagna, in una
dimensione mitica → ed ecco su questo versante i racconti e le prose di Feria d'agosto,
Dialoghi con Leucò e poi La luna e i falò;
per un altro verso, Pavese oppone la rappresentaz. del non autentico, della dissipazione
cittadina, dell'eros senza amore → ed ecco allora ad es. il racconto La bella estate (che
mette in evidenza quanto di inevitabilmente degradato vi sia nella dimensione
cittadina, rappresentando un ambiente “libero” di giovani pittori nel quale la giovane
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Ginia, introdotta da un'amica dagli amibugui comportamenti, vive le sue esperienze).
MA questi 2 ambiti tematici NON sono conglittuali, bensì speculari e nel corpus della narrativa
di Pavese si integrano reciprocamente: la messa a fuoco dell'uomo depauperato e alienato nel
contesto cittadino legittima e sollecita la ricerca della sua totalità umana e delle sue radici.
Lo stile di Pavese. Lo stesso intento da cui P muove (la ricerca dell'autentico, la ricognizione
di sé) favorisce nella scrittura modalità liriche,suggestioni musicali,simmetrie, corrispondenze
non casuali. A tal proposito, le suggestioni della prosa d'arte e dell'aura poetica dei solariani
per lui (come per Vittorini) non passarono certo inosservate. La sua narrativa non si distingue
certo per complessità di trama o ampiezza di architettura, ma trova la sua struttura + propria
in una sorta di spezzettamento in brevi capitoli sottesi quasi sempre da una vocazione lirico-
evocativa, e si affida al romanzo breve o racconto lungo, cioè alla misura ideale per consentire
che quella tensione lirica provocata dall'“evento” non si deteriori.
Due testi esemplari dell'autore sono:
La casa in collina. Scr