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Introduzione
Si apre con polemica contro i giudici che hanno ritenuto di condannare ingiustamente degli
innocenti e di ergere sulle macerie della casa di uno di loro una colonna infame, a perenne memoria
del fatto.
Viene poi manifestato l’intento dell’autore di narrare la vicenda degli untori già nei Promessi sposi;
segue una sorta di recusatio in quanto, osserva Manzoni, l’argomento è già stato trattato da illustri
scrittori, in particolare da Pietro Verri nello scritto Osservazioni sulla tortura. Manzoni precisa però
che il fine della sua opera è diverso da quello di Pietro Verri: se quest’ultimo aveva inteso,
attraverso la vicenda degli untori, condannare l’uso della tortura e dimostrarne l’inutilità ai fini di
estorcere agli accusati la verità, Manzoni, pur condividendo le posizioni di Verri sulla tortura, pone
invece in primo piano la responsabilità dei giudici di aver condannato degli innocenti. Viene
rifiutata l’idea che l’epoca storica in cui sono avvenuti i fatti possa costituire un’attenuante: l’unica
ragione di quanto accaduto sono le “passioni perverse”, l’aver agito in modo pregiudiziale per
“trovare un colpevole” a tutti i costi sapendo benissimo che non c’era. L’uomo è libero di esercitare
il proprio arbitrio, ed è chiamato a renderne conto, indipendentemente dall’epoca in cui ci si trova.
Manzoni passa poi a presentare le fonti cui ha attinto per la stesura della sua opera: gli atti del
processo nella sua interezza sono andati perduti, ma una parte di esso è contenuta nelle difese di
Giovanni Gaetano de Padilla, uno degli imputati; di questo estratto esiste una versione a stampa e
una manoscritta. Quest’ultima, più estesa, è la copia su cui aveva lavorato anche Verri, e reca molte
annotazioni di quest’ultimo, oltre a brevi didascalie in latino scritte dall’avvocato di Padilla (che
Manzoni citerà a più riprese nel corso dell’opera). Molte informazioni vengono poi attinte dal testo
della difesa del Padilla; scarsi sono invece i documenti d’epoca che Manzoni riuscì a recuperare
dall’archivio di Milano.
Viene infine preannunciato l’intento di redigere una breve rassegna storiografica sul processo agli
untori, per dimostrare come la maggior parte degli storici si attenne alla versione “ufficiale” dei fatti
senza premurarsi di verificarne la verità. Questa occuperà il capitolo VII dell’opera.
Capitolo I
Viene presentato, con grande dovizia di particolari, il fatto che fa scattare l’arresto del primo
imputato del processo: una donnetta di nome Caterina Rosa, affacciandosi alla finestra, vede un
uomo passare rasente i muri e, influenzata dalle dicerie popolari, concepisce il sospetto che si tratti
di un untore. Si confida poi con una seconda donna, Ottavia Bono; ne nasce un passaparola che
arriva fino al senato di Milano che, senza neppure avviare un’inchiesta sul fatto, e basandosi
unicamente sulle dicerie delle due donne e di altri passanti, lo prende subito per vero e fa arrestare il
malcapitato, di cui nel frattempo si era scoperta l’identità. Si tratta di Guglielmo Piazza, di
professione commissario di Sanità. Gli viene perquisita la casa, senza che venga trovato nulla di
sospetto; interrogato sulle presunte unzioni dei muri, alla sua risposta di non saperne niente gli
viene obiettato che ciò è inverosimile. E’ il presupposto per poter mettere l’imputato alla tortura.
Capitolo II
Per meglio spiegare il senso e la terribilità dell’accusa di inverosimiglianza che viene fatta alla
deposizione del Piazza, Manzoni dedica questo capitolo a un excursus sulla legislazione criminale
dell’epoca.
Vengono citati in primo luogo una serie di testi: gli statuti di Milano del 1498, la legge romana, le
Costituzioni di Carlo V. In nessuno di essi è autorizzata la tortura come mezzo di prova, ma solo in
presenza di indizi certi e per delitti di particolare gravità.
Manzoni nota poi come la mancanza di un corpus unitario di leggi abbia dato luogo a una congerie
di scritti di argomento giuridico, che propongono una quantità di precisazioni e interpretazioni
spesso contraddittorie tra loro; tutto questo è funzionale a limitare, nei limiti del possibile, l’arbitrio
dei giudici, fornendo loro delle “linee guida” che siano il più particolareggiate possibile, in modo da
prevenire abusi di potere.
Manzoni critica il giudizio negativo che dà Verri sui giuristi del passato come fautori della tortura:
in realtà essi hanno cercato di limitare il più possibile l’uso indiscriminato di essa da parte dei
giudici, che spesso e volentieri vi indulgevano con vero e proprio sadismo. La tesi di Verri nasceva
anche da alcuni errori di interpretazione dei testi, che Manzoni individua con scrupolo da autentico
filologo. In ogni caso, osserva Manzoni, le leggi, per quanto dettagliate, non possono eliminare del
tutto il potere discrezionale del giudice, da cui poi dipende di fatto la loro applicazione.
Capitolo III
L’accusa di inverisimiglianza che viene rivolta al Piazza è per l’appunto ciò che fa scattare la
tortura. Manzoni nota però che, non solo secondo i testi giuridici del tempo, ma già a partire dal
diritto romano, la tortura poteva essere applicata solo se era dimostrato da prove certe che
l’imputato non avesse detto la verità, e che neppure la gravità del delitto giustificava il ricorrere alla
tortura in assenza di indizi. E’ quindi evidente che, per il Piazza, i giudici cercano un pretesto per
dimostrarlo colpevole. Senza neppure essere informato dell’accusa, il Piazza viene messo alla
tortura una prima volta, ma resiste nel proclamarsi innocente. Il senato decide allora di torturarlo
una seconda volta: l’illegittimità di questa seconda tortura è ancora maggiore di quella della prima
perché, nota Manzoni, i testi di giurisprudenza, anche i più antichi, autorizzavano la ripetizione
della tortura solo in presenza di nuovi e ancora più decisivi indizi a riprova della colpevolezza
dell’imputato. Ciononostante il Piazza viene torturato una seconda volta e in modo ancora più
terribile, ma neppure questa volta gli esaminatori riescono a estorcergli una confessione. Viene
quindi escogitato un nuovo espediente per indurlo ad assumersi la colpa delle presunte unzioni: gli
viene promessa l’impunità in cambio della confessione. La promessa dell’impunità gli viene fatta
ufficiosamente, senza figurare negli atti del processo, in modo da poterla poi ritirare: l’irregolarità
della procedura è evidente, come nota anche l’avvocato di Padilla nelle difese di quest’ultimo. In
ogni caso, Piazza viene indotto in qualche modo non solo a confessare, ma anche a rivelare il nome
del suo presunto complice: l’uomo che viene ingiustamente accusato da Piazza è Giangiacomo
Mora, un barbiere che, com’era abituale all’epoca, vendeva medicamenti contro la peste (questo è il
motivo per cui Piazza decide di denunciarlo come fabbricante dell’unguento con cui sarebbero state
fatte le unzioni). Nonostante la palese inconsistenza delle dichiarazioni di Piazza, questa volta i
giudici non danno segno di notare inverosimiglianze.
Il capitolo si conclude con una riflessione di Manzoni sul tema della responsabilità: responsabile è il
Piazza che, benché vittima, nel momento in cui accusa ingiustamente un’altra persona diventa
anch’egli colpevole; ma, prima di tutto, responsabili sono i giudici, per aver deliberatamente
sottoposto alla tortura un innocente, sapendo benissimo di agire in modo illegittimo.
Capitolo IV
Scatta immediatamente l’arresto del barbiere Giangiacomo Mora, anche stavolta senza alcun indizio
probante, e dietro un’accusa che anche secondo i testi di giurisprudenza dell’epoca era da
considerarsi nulla, perché estorta dietro la promessa dell’impunità.
In casa del barbiere vengono trovati, e indicati come elementi sospetti, due vasi da notte pieni di
sterco (a causa della peste, il barbiere viveva nella sua bottega per non contagiare la sua famiglia) e
un secchio contenente del ranno, la mistura di grasso e cenere con cui si lavavano i panni. Il
barbiere è inizialmente convinto di essere accusato di spacciare illegalmente il suo unguento
medicamentoso, e per questo ne fa a pezzi la ricetta, fatto di cui poi gli verrà chiesto di rendere
conto nel processo. Viene interrogato nuovamente il Piazza e messo ancora una volta alla tortura
per convalidare la deposizione (la procedura del tempo prevedeva che le deposizioni dei rei confessi
fossero da considerarsi veritiere solo se confermate sotto tortura); incapace di aggiungere elementi
ulteriori che rendano più verosimile la sua accusa nei confronti del barbiere, Piazza fa poi i nomi di
altri tre “complici”: Stefano Baruello, Girolamo e Gaspare Migliavacca (cfr. cap. VI).
Viene poi interrogato il Mora, che naturalmente si proclama innocente; segue il faccia a faccia con
il Piazza, che ribadisce le false accuse nei confronti del barbiere e nomina altre due persone,
Baldassarre Litta e Stefano Buzzi, come testimoni della sua amicizia con il barbiere. Manzoni nota
che devono essere stati i giudici a mettere in bocca al Piazza questo ulteriore elemento, perché
secondo la legge l’amicizia tra un reo confesso e il suo complice consentiva di mettere quest’ultimo
alla tortura. I due nominati, però, così come pure un terzo testimone che viene interpellato, non
sono ovviamente in grado di fornire alcuna informazione a riguardo.
Viene interrogato di nuovo Mora, che nega di essere amico del Piazza; gli viene opposto che la sua
risposta è inverosimile, sulla base delle deposizioni del Piazza stesso e addirittura, con una palese
falsità, di quelle dei tre testimoni. Gli viene poi chiesto il perché abbia strappato la ricetta
dell’unguento, ma anche la risposta a questa domanda viene ritenuta inverosimile, pur di avere un
pretesto per metterlo alla tortura. Torturato, il Mora cede e confessa di aver preparato lui stesso
l’unguento della peste con sterco, ranno e bava di appestati, per poi darlo al Piazza per ungere i
muri, e di aver agito così per denaro. Quest’ultima affermazione è palesemente in contraddizione
con quelle precedenti del Piazza, che aveva sostenuto di aver accettato di ungere i muri dietro la
promessa di un compenso in denaro da parte del barbiere stesso: tuttavia i giudici fingono di non
notare l’incongruenza e procedono con l’interrogatorio. Gli vengono chiesti i nomi degli altri
complici; Mora nomina gli stessi tre che erano stati indicati in precedenza dal Piazza (i due
Migliavacca e Baruello), poi viene nuovamente torturato per confermare