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Pierre era sempre stato consapevole dell’impossibilità del successo
immediato. Tuttavia è l’ultima, antifrastica, riga che ribalta le sorti del libro:
dalla loro liberazione (quella fascista) si passa alla vera Liberazione.
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L’anfibologia sta tanto nella morte nella lotta resistenziale che nella
conclusione vittoriosa di essa. Ma era questo il vero finale inteso da Fenoglio?
Quasi certamente sì, giacché ulteriori revisioni avrebbero toccato lo stile, ma
non la struttura della vicenda.
La morte di Johnny e Milton è vera? Se per il primo personaggio è certa,
quella di Milton è più una transumanazione: Milton nello scappare diventa
più che umano, ma i suoi occhi sono come quelli del profeta in estasi, che è
conscio degli elementi assoluti tanto cari a Fenoglio.
Sia Johnny che Milton salgono su per le colline, ai “cieli” dei partigiani. Il verbo
aliare è segno di una tensione spirituale e metafisica. Milton morirà, anche se
comunque vivrà, recuperando il suo paradiso perduto.
In questo rituale di passaggio l’acqua assume un valore simbolico: tutto
dissolve e cancella. E’ tuttavia simbolo ambivalente, perché la morte per
acqua riconduce ad un’idea di fertilità, di ritorno al grembo materno. E’ la
premessa di una nuova rinascita, come nei riti cristiani del battesimo e
della benedizione del defunto. Anche il Milton de L’imboscata sembra più
morto annegato che fucilato.
La dimensione postuma fa sì che la vita di prima sia remotissima, in tutti i
suoi aspetti. Porsi nella prospettiva del dopo significa esimersi
dall’accettazione paziente della sofferenza di oggi. Un chiaro legame unisce
anche Una questione privata e La malora. Anche qui infatti l’acqua è la
minaccia di una fine incombente: Agostino potrebbe farla finita gettandosi in
un gorgo (assieme al pozzo è simbolo archetipico del contatto con
mondo infero). La sua morte interiore coincide però con il momento della
rinascita mediante l’accettazione della sofferenza.
Anche ne Ma il mio amore è Paco il protagonista è sull’orlo di un pozzo, in
procinto d’ammazzarsi. Dentro al buco riecheggiano le vocali “u” e “a” di
Giulia (la “u” richiama la dimensione funebre, mentre la “a” è l’urlo dinnanzi
all’orrore, cfr. L’urlo di Munch). In questo racconto si esalta l’umore nero
fenogliano, prima ancora langarolo che anglosassone. Giulia, tradita
dall’amato Paco, dà segno che i sentimenti possono persistere anche oltre la
colpa. Un attimo prima dice a Paco di gettarsi tranquillamente nel pozzo, poi
dopo lo invita a prendere il caffè in casa. La seconda vita di Paco, che inizia in
quel preciso istante, sarà per certi versi postuma, non però come quella di
Milton (che muore davvero).
Il tema della vita postuma e della salvezza paradossale è chiaro nel
racconto Nella valle di San Benedetto (tratto dai Racconti della guerra civile,
v1). I tre protagonisti (simili per intelligenza e virilità), sono destinati ad una
sorte completamente diversa, a causa della loro disposizione alla vita. A
Giorgio manca la “forza dell’attesa”, anche se non era affatto un vigliacco,
anzi. Bob, invece, è inadatto ad affrontare le difficoltà che si prospettano nella
vita. Il racconto è ambientato verso la fine della guerra e mai come a
quell’epoca occorreva saper aspettare. Colti dai tedeschi, i tre si gettano nelle
acque del Belbo e vivono un’esperienza liminare. Abili a “dissolversi” con
l’elemento acqueo, i tre si salvano imprevedibilmente. Questo episodio venne
ritenuto significativo da Fenoglio, tant’è che lo ripresentò, passo per passo,
nel capito x de Il partigiano Johnny. Dopo la solutio nell’acqua, i protagonisti
sono fango in attesa di essere plasmato per una nuova vita.
In questo racconto la simbologia della rinascita dopo la morte è ancora più
chiara. Il narratore, sapendo che nessuno degli abituali nascondigli li avrebbe
salvati dal nemico, propone di nascondersi in una tomba sottoterra: Bob
immediatamente rifiuta e va nella chiesa del paese, mentre Giorgio accetta,
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anche se poi non troverà effettivamente il coraggio di mettere in atto il piano.
L’unico dei tre che si salverà sarà proprio il narratore, unico ad essersi
confrontato (non senza patemi) con la morte. Chiaramente ricompare poi la
matrice heideggeriana, tramandata a Fenoglio dal professor Pietro Chiodi,
primo traduttore in italiana del filosofo tedesco. Forte è anche l’influsso di Lev
Šestov, filosofo esistenzialista russo, letto da Fenoglio, che insegna a vivere
nell’incertezza e nell’ignoto. La strada per la libertà passa attraverso il
trauma della disperazione.
Altro personaggio fenogliano degno d’osservazione è Cinto, l’idiota del paese.
Il nome richiama l’omonimo del racconto pavesiano La luna e i falò. Mentre
qua Cinto era un povero sciancato, caratterizzato da un destino tragico e
malvagio (il padre miserevole uccise tutta la famiglia tranne che lui,
bruciando poi la Gaminella, dove abitavano), fatto che lo accomuna al
protagonista Anguilla, in Fenoglio l’altro Cinto è un maligno traditore, che si
salva dopo il passaggio dei fascisti. Non sono i sani ed i furbi a vincere,
sono i malati ed i pazzi.
Come nel racconto de Nella valle di San Benedetto, c’è chi crede di poter
sfuggire alla precarietà ed alla morte aggrappandosi disperatamente alla vita,
e chi accetta pazientemente la propria caducità e debolezza, fermo nelle
proprie convinzioni e senza tentennamenti. La resistenza di Fenoglio non
è solo storico-politica, è anche questa: la più radicale esperienza
della nudità della condizione umana, senza mai rinunciare alla
dignità dell’uomo. Dietro a tutto questo sembra starci l’idea cristiania per
cui gli ultimi saranno i primi, e viceversa. Agostino sa che non sono gli
ultimi del parentado i Braida, tuttavia affinché la ruota della fortuna giri con
lui occorre diventare proprio gli ultimi: è un cammino necessario, ma salvifico.
Anche la saga famigliare dei Penultimi è costruita sullo stesso schema. Come
ne La malora, il protagonista è rimasto senza padre mentre i ricchi nonni,
caduti in miseria e non potendolo mantenere, lo mandano a lavorare dagli zii
a Mombarcaro. La figura del nonno, anche se intaccata dalla povertà,
continua a presentare i segni di una distinzione di ordine morale ed estetica.
Come nel cristianesimo di San Paolo, accanto ai pazzi ad essere destinati
alla comprensione e salvezza stanno i bambini. Ne L’imboscata sono i
bambini che capiscono la nobile follia dei partigiani, la gratuità dell’offerta di
sé. La logica della gratuità è incomprensibile a chi ragiona con la sola
categoria dell’utile.
Tutti i simboli finora elencati compaiono nel corto, ma densissimo, racconto Il
gorgo. Come La malora od Una questione privata, la famiglia del bambino si
trova a confrontarsi con la miseria economica, l’ingiustizia, l’assurdo della
morte, la sofferenza. Un figlio è disperso in Abissinia, mentre la figlia,
sofferente di una malattia “sconosciuta”, è simbolo del dolore innocente. Le
preghiere non servono a nulla, il padre decide di buttarsi in un gorgo in Belbo:
solo il figlio più piccolo intuisce il pericolo. Sarà proprio questo bambino di
nove anni e mezzo a salvare il padre, a contrapporre al movimento
discendente del gorgo (verso gli inferi) un movimento ascendente, verso una
rinascita, una vita postuma.
Nel racconto Superino, il narratore è esattamente all’opposto di tale Superino.
Quest’ultimo è rosso di capelli, forte e vigoroso, tarchiato, con la carne
estremamente compatta ed aggressiva, solito ad attaccare gli altri, sicuro di
sé ed autoritario. Il narratore è alto e smilzo, legnoso eppur delicatissimo
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nelle giunture, conscio che mai in vita sarebbe stato favorito dalla sua
costituzione. Eppure i due sono accomunati da una particolare amicizia, ed il
più debole alla fine si salverà. Superino, scoperto di essere figlio illegittimo
del parroco e della maestra vecchia, corre a Belbo per suicidarsi in un gorgo.
Il motore del gesto è, ancora, la vergogna conseguente alla scoperta del
peccato. Anche nel racconto aleggia l’ostilità del destino, ripetuta più
volte e contro Superino, così come ricompare l’acqua come elemento di
morte.
In questo caso però non c’è vita postuma: a differenza di Agostino, di Milton,
del narratore de Nella valle di San Benedetto, a Superino manca la
capacità di sopportazione. Qua non è come ne Il gorgo oppure ne Ma il
mio amore è Paco (dove la famiglia interviene a fermare il suicida), il padre
adottivo di Superino è a Gorzegno ubriaco ad un pranzo di nozze. C’è un
senso dell’esilio, come per Agostino che dovette stare tre anni lontano da
casa sua, oppure Johnny che si sentiva mancare l’aria di casa dopo solo tre
mesi.
2. L’etica della rinuncia. La malora
Il secondo anno che Agostino passa al Pavaglione è ancora più duro
perché il mangiare, sebbene fosse nella medesima quantità del primo anno,
non bastava più perché il corpo suo cresceva e la fatica aumentava. Ecco che
così Agostino ruba un culatello di salame lasciato incustodito in cucina:
questo gesto è l’ideale contropartita dei mesi di privazioni e sacrifici
apparentemente privi di significato. Di per sé è una colpa che è già stata
pagata in anticipo. Tuttavia Agostino patisce quel gesto come se avesse
ucciso un cristiano, perché in fondo è consapevole che nessun possesso gli è
garantito nell’esilio da ogni bene.
La fondamentale scoperta del protagonista negli anni trascorsi al Pavaglione è
quella della privazione come condizione generale dell’uomo. E’ una
scoperta progressiva, però. Quando lascia la sua famiglia che si era fatta
bisognosa (sempre più poca polenta e quasi niente robiola), Agostino spera
ancora di ottenere una contropartita alle rinunce, ma la vita al Pavaglione si
rivela identica, se non peggiore per l’ulteriore estraneità dei luoghi e per la
fatica di un lavoro sulla terra d’altri.
La sua è una privazione fisica, rinuncia al cibo ed al riposo, ma anche
psicologica, austerità degli affetti familiari e dell’amore per la propria terra.
Celebre episodio che sublima quanto detto è l&rsq