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III
[…]
Donna Caterina AuritiLaurentano abitava con la figlia Anna, vedova anch’essa, e col nipote, una vecchia e triste casa sotto la
Badìa Grande.
La casa era appartenuta a Michele Del Re, marito di Anna, che null’altro aveva potuto lasciare in eredità alla vedova
giovanissima, all’unico figliuolo, Antonio, che ora aveva circa diciott’anni.
Vi si saliva per angusti vicoli sdruccioli, a scalini, malamente acciottolati, sudici spesso, intanfati dai cattivi odori misti
esalanti dalle botteghe buje come antri, botteghe per lo più di fabbricatori di pasta al tornio, stesa lì su canne e cavalletti ad
asciugare, e dalle catapecchie delle povere donne, che passavano le giornate a seder su l’uscio, le giornate eguali tutte,
vedendo la stessa gente alla stess’ora, udendo le solite liti che s’accendevano da un uscio all’altro tra due o più comari
linguacciute per i loro monelli che, giocando, s’erano strappati i capelli o rotta la testa. Unica novità, di tanto in tanto, il
Viatico; il prete sotto il baldacchino, il campanello, il coro delle divote:
Oggi e sempre sia lodato
Nostro Dio Sacramentato...
Morto il marito, dopo appena tre anni di matrimonio, Anna Auriti era quasi morta anch’essa per il mondo. Fin dal giorno della
sciagura non era uscita mai più di casa, neanche per andare a messa le domeniche; né s’era mai più mostrata, nemmeno
attraverso i vetri delle finestre sempre socchiuse. Soltanto le monache della Badìa Grande, affacciandosi alle grate a gabbia,
avevano potuto vederla dall’alto, quand’ella veniva a prendere, sul vespro, un po’ d’aria nell’angusto giardinetto pensile della
casa, ch’era addossata alla tetra, altissima fabbrica di quella badìa, già antico castello baronale dei Chiaramonte. Né certo
quelle monache avevano potuto sentire alcuna invidia di lei, reclusa come loro. Come loro, se non più semplicemente, vestiva
di nero, sempre; come loro nascondeva, sotto un fazzoletto nero di seta annodato al mento, i capelli, se non recisi, non più cu
rati affatto, appena ravviati in due bande e attorti alla lesta dietro la nuca; que’ bei capelli castani, voluminosi, che tanta grazia
un giorno, acconciati con arte, avevano dato al suo pallido, mite, soavissimo volto.
Donna Caterina aveva condiviso strettamente questa clausura della figlia, vestita anch’essa di nero, fin dal 1860, data della
morte eroica del marito, a Milazzo. Rigida, magra, non aveva l’aria di mesta rassegnazione della figlia. La macerazione cupa
dell’orgoglio, la fierezza del carattere che, a costo d’incredibili sacrifizii, non s’era mai smentita di fronte alle più crudeli
avversità della sorte, le avevano alterato così i lineamenti del volto, che nessuna traccia esso ormai serbava più dell’antica
bellezza. Il naso le si era allungato, affilato e teso sulla bocca vizza, qua e là rientrante per la perdita di alcuni denti; le gote le
si erano affossate; aguzzato il mento. Ma sopra tutto gli occhi, sotto le folte sopracciglia nere, mostravano la rovina di quel
volto: le pàlpebre s’eran rilassate, una più, l’altra meno; e quell’occhio più dell’altro socchiuso, dallo sguardo lento, velato
d’intensa angoscia, conferiva a quella faccia spenta l’aspetto d’una maschera di cera, orribilmente dolorosa. I capelli, intanto,
le erano rimasti nerissimi e lucidi, quasi per dileggio, per far risaltare meglio lo scempio di quelle fattezze e smentir la
credenza che i dolori facciano incanutire. Aveva sofferto tutto donna Caterina Laurentano, anche la fame, lei nata nel fasto,
allevata e cresciuta fra gli splendori d’una casa principesca: la fame, quando, domata la rivoluzione del 1848, a diciotto anni,
col primo figliuolo neonato, Roberto, aveva dovuto seguire nell’esilio, in Piemonte, il marito, escluso con altri quarantatré
dall’amnistia, e condannato alla confisca dei pochi beni. Il padre, don Gerlando Laurentano, anch’egli tra quei quarantatré
esclusi, la aveva allora invitata ad andare con lui a Malta, suo luogo d’esilio, a patto però che avesse abbandonato per sempre
Stefano Auriti. Lei? Aveva rifiutato sdegnosamente; e con più sdegno aveva poi rifiutato l’elemosina del fratello Ippolito, il
quale con altri pochi indegni della nobiltà siciliana era andato a ossequiar Satriano a Palermo, e ne aveva ottenuto la
restituzione dei beni confiscati al padre. Ed era andata a Torino col marito, tutti e due sperduti e come ciechi, a mendicare per
quel figlioletto la vita. Nessuno degli esuli, dei fuorusciti siciliani colà, aveva voluto credere dapprima che ella, di così
cospicui natali, unica figliuola femmina del principe di Laurentano, non avesse portato nulla con sé, né ricevesse soccorsi
dalla famiglia; e Stefano Auriti era stato perciò in tutti i modi ostacolato dagli stessi compagni di sventura nella ricerca
affannosa d’un posticino che gli avesse dato pane, solo pane per la moglie e per sé. E allora ella s’era gravemente ammalata e
per cinque mesi era stata in un ospedale, ricoverata per carità dopo infiniti stenti, e per carità il piccolo Roberto era stato
allevato in un altro ospizio. S’erano ravveduti finalmente e commossi i compagni d’esilio e avevano ajutato a gara Ste fano
Auriti. Uscita dall’ospedale, ella aveva ricevuto la notizia che il padre, don Gerlando Lauren tano, era morto volontariamente a
Bùrmula, di veleno. Dei dodici anni passati a Torino, fino al 1860, donna Caterina serbava ormai una memoria vaga, confusa,
come di una vita non vissuta propriamente da lei, ma piuttosto immaginata in un sogno strano e violento, in cui tuttavia spraz
zavano visioni liete, qualche momento felice e ardente, d’entusiasmo patriottico. Incancellabilmente impressa nel cuore aveva
invece l’ora del risveglio da questo sogno: allorché le era pervenuta la notizia che Stefano Auriti, partito col figliuolo appena
dodicenne da Quarto con Garibaldi per la liberazione della Sicilia, era caduto nella battaglia campale di Milazzo. Neanche la
grazia di farla impazzire aveva voluto concederle Iddio in quel momento! E aveva dovuto sentire, vedere quasi, il suo cuore di
moglie straziato, colpito a morte, là in Sicilia, trascinarsi sanguinando dietro al figliuolo giovinetto, rimasto ora senza il
presidio del padre a seguitare la guerra. Le avevano fatto a Torino una colletta, e coi due orfanelli, Giulio e Anna, nati colà,
era ritornata in Sicilia, nella patria già liberata; ma da vedova, in gramaglie, e più misera di come ne era partita: tra l’esultanza
di tutti, lei, con quei due piccini, vestiti anch’essi di nero. Roberto era già entrato a Napoli con Garibaldi, e ora combatteva
sotto Caserta, accanto a Mauro Mortara. Era stata accolta in casa degli Alàimo, parenti poveri di Stefano Auriti. Novamente il
fratello Ippolito, ora riparato a Colimbètra, le aveva profferto ajuto; e novamente, con pari sdegno, ella lo aveva rifiutato,
meravigliando e gettando nella costernazione gli Alàimo, che la ospitavano. Povera gente, anche d’intelletto povera e di cuore,
quante amarezze non le aveva cagionate! S’era dovuta guardare da loro, come da nemici acerrimi della sua dignità, ch’essi
non intendevano; capacissimi com’erano di chiedere e d’accettare di nascosto quell’ajuto che ella aveva rifiutato, non contenti
del lavoro che faceva in casa e che si procacciava da fuori per cavarne un giusto compenso al poco dispendio che dava loro.
S’era rialzata per poco da quell’orribile avvilimento al ritorno di Roberto, accolto da tutto il paese quasi in delirio. Ancora,
ricordando quel giorno, quel momento, le sue misere carni eran corse da brividi. Ah con quale esultanza, con che spasimo
d’amore e di dolore s’era serrato al seno il figliuolo, che ritornava solo, senza il padre, l’eroe giovinetto dalla camicia rossa,
che il popolo le aveva recato su le braccia in trionfo! Il Governo provvisorio le aveva accordato un sussidio men sile, e a
Roberto non potendo altro, per l’età aveva accordato una borsa di studio in Palermo. L’aveva perduta pochi anni dopo,
questa borsa, Roberto, per seguir Garibaldi alla conquista di Roma. Ma al torrente di sangue giovanile, che avrebbe ristorato le
vene esauste di Roma, la ragion di Stato aveva opposto, ad Aspromonte, un argine di petti fraterni; e Roberto, con gli altri, era
stato preso e imprigionato, prima alla Spezia, poi al forte Monteratti a Genova. Liberato, aveva ripreso gli studii, per poco. Nel
1866, dietro a Garibaldi, di nuovo. Solo nel 1871 gli era venuto fatto di lau rearsi in legge; e subito era andato a Roma per
provvedere, dopo tante vicende tumultuose, alla propria esistenza e a quella dei suoi. Qualche anno dopo, lo aveva raggiunto il
fratello Giulio. Anna, a Girgenti, aveva già trovato marito, e donna Caterina aspettando che Roberto a Roma si facesse largo
e si preparasse un avvenire degno del suo passato, e la consolasse infine di tutte le amarezze patite e dell’avvilimento per cui
maggiormente aveva sofferto era andata a vivere in casa del genero Michele Del Re. La morte di questo, tre anni dopo, la
sciagura della figlia, la miseria sopravvenuta di nuovo, quasi non avevano avuto potere di scuoterla da un dolore più cupo e
profondo, in cui era caduta. Il figlio, il figlio da cui tanto si aspettava, il suo Roberto, fra il trambu sto violento della nuova vita
nella terza Capitale, tra la baraonda oscena dei tanti che vi s’abbaruffavano reclamando compensi, carpendo onori e favori, il
suo Roberto si era perduto! Stimando semplicemente come suo dovere quanto aveva fatto per la patria, non aveva voluto né
saputo accampare alcun diritto a compensi, aveva forse sperato e atteso che gli amici, i compagni, si fossero ricordati di lui
dignitoso e modesto. Poi forse lo schifo lo aveva vinto e tratto in disparte. E qual rovinìo era sopravvenuto in Sicilia di tutte le
illusioni, di tutta la fervida fede, con cui s’era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani,
trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed eran calati i Continentali a incivilirli: calate le soldatesche nuove, quella
colonna infame comandata da un rinnegato, l’ungherese colonnello Eberhardt, venuto per la prima volta in Sicilia con
Garibaldi e poi tra i fucilatori di Lui ad Aspromonte, e quell’altro tenentino savojardo Dupuy, l’incendiatore; calati tutti gli
scarti della burocrazia; e liti e duelli e scene selvagge; e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le
grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e
processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva
cominciato anch’essa con provvedimenti eccezion