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LUIGI PIRANDELLO
Pirandello ha una concezione relativistica dell'uomo, che ne esclude una conoscenza scientifica. La
"forma" o "apparenza" è l'involucro esteriore che noi ci siamo dati o in cui gli altri ci identificano;
la "vita" invece è un flusso di continue sensazioni che spezza ogni forma. Noi crediamo di essere
"forme stabili" (personalità definite): in realtà tutto ciò è solo una maschera dietro cui sta la nostra
vera vita, fondata sull'inconscio, cioè sull'istinto e sugli impulsi contraddittori. Parafrasando un
titolo di un suo romanzo, si potrebbe dire che noi siamo "uno" (perché pretendiamo di avere una
forma), "nessuno" (perché non abbiamo una personalità definita) e "centomila" (perché a seconda
di chi ci guarda abbiamo un aspetto diverso).
Ogni personaggio teatrale è immerso in una tragica solitudine che non consente alcuna vera
comunicatività: sia perché il dialogo non ha lo scopo di far capire le cose o di risolvere i problemi,
ma solo di confermare l'assurdità della vita; sia perché ogni tentativo di comprendersi
reciprocamente è fondato sull'astrazione delle parole (sofistica), che non riflettono più valori
comuni, ma solo la comune alienazione (i dialoghi sono cervellotici e filosofici). D'altra parte,
questa è una delle novità del teatro pirandelliano, che lo avvicina molto a quello di Brecht,
Ionesco, Beckett..., dandogli una rilevanza mondiale.
Pirandello afferma che in un'epoca decadente, dove tutto è relativo, solo un'arte umoristica è
possibile, un'arte cioè che sappia cogliere i sotterfugi e le piccole meschinità delle persone, senza
però che tutto questo divenga oggetto di riso. L'uomo non può far di meglio: ecco perché merita
compassione. L'umorista denuncia il vuoto della società borghese, le costruzioni artificiose con cui
cerchiamo di ingannare gli altri e noi stessi.
Pirandello non ha mai cercato le cause dell'alienazione che caratterizza tutti i suoi personaggi,
presi dalla piccola borghesia (impiegati, insegnanti, ecc.). Egli ne attribuisce, in modo generico, alla
storia e al caso la responsabilità.
Nel saggio L'umorismo del 1908 Pirandello distingue il comico dall'umoristico. Il primo, definito
come "avvertimento del contrario", nasce dal contrasto tra l'apparenza e la realtà. Nel saggio
citato Pirandello ce ne fornisce un esempio:
« Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca,
e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere.
"Avverto" che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora
dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa
espressione comica. Il comico è appunto un "avvertimento del contrario"»
(L. Pirandello, L'umorismo, Parte seconda)
L'umorismo, il "sentimento del contrario", invece nasce da una considerazione meno superficiale
della situazione:
« Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non
prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa
soltanto perché pietosamente, s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le
canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io
non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha
fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo
avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è
tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico»
(L. Pirandello, L'umorismo, Parte seconda)
Quindi, mentre il comico genera quasi immediatamente la risata perché mostra subito la
situazione evidentemente contraria a quella che dovrebbe normalmente essere, l'umorismo nasce
da una più ponderata riflessione che genera una sorta di compassione da cui si origina un sorriso
di comprensione. Nell'umorismo c'è il senso di un comune sentimento della fragilità umana da cui
nasce un compatimento per le debolezze altrui che sono anche le proprie. L'umorismo è meno
spietato del comico che giudica in maniera immediata.
Pirandello divenne famoso proprio grazie al teatro che chiama teatro dello specchio, perché in
esso viene raffigurata la vita vera, quella nuda, amara, senza la maschera dell'ipocrisia e delle
convenienze sociali, di modo che lo spettatore si guardi come in uno specchio così come
realmente è, e diventi migliore.
L’opera teatrale più importante è i “sei personaggi in cerca d’autore”. I sei personaggi bussano alla
porta di un teatro nel quale una compagnia di attori, diretta da un Capocomico sta provando una
commedia. I sei chiedono loto attenzione e la disponibilità a rappresentare sul palcoscenico la
propria vicenda familiare.
Una didascalia, ossia un'indicazione dell'autore, prevede che i sei si presentino con speciali
maschere: le maschere dell'antico teatro greco, che fissavano il sentimento fondamentale dei vari
personaggi. Tali sentimenti, es è il rimorso per il Padre, la vendetta per la Figliastra, lo sdegno per il
Figlio, il dolore per la Madre. Dunque non sono individui, ma tipi senza volto né nome, fissati per
sempre nella loro sofferenza ancestrale. Rappresentare a teatro la loro vicenda non potrà recare
loro la purificazione (catarsi) che costituiva l'esito dell'antica tragedia greca.
Può però alleviare il dolore, sfogandolo e mostrandolo al pubblico. Questo appare ormai lo scopo
dell'arte: se essa non può più fornire un messaggio per migliorare il mondo, può però dare una
testimonianza in cui tutti possiamo contemplare il nostro dolore.
Il lavoro è costruito secondo la struttura sperimentale del teatro nel teatro: narra cioè la storia di
un allestimento teatrale, esponendo in primo piano tutti i punti deboli di un palcoscenico per così
dire nudo.
Il Capocomico all'inizio rifiuta: il suo mestiere è quello di regista, non di autore. Poi, lusingato, cede
alle pressioni di quegli sconosciuti. Fissa degli appunti sulla carta, ma il risultato sarà
assai deludente. Le battute da lui scritte e poi recitate dagli attori non riescono a rappresentare
con dignità e realismo la vita vera dei sei personaggi. E' un tema caro a Pirandello: la Vita non
tollera di essere irrigidita e falsificata da un qualche forma (in questo caso, la scrittura).
I Sei personaggi comunicano una profonda sfiducia verso la letteratura e il teatro tradizionali:
- la letteratura tradizionale, fatta di trame avvincenti e parole eleganti, è un inganno da rigettare,
dice Pirandello: ai lettori essa non ha da dire più nulla di vero e di buono;
- analogamente, va rifiutato il teatro tradizionale, fatto di battute, applausi, effetti spettacolari;
oggi non abbiamo bisogno di applausi, ma di verità, di vita autentica: ma quest'ultima si rispetta,
non si spettacolarizza.
Gli elementi più sperimentali dei Sei personaggi sono:
- l'assenza dell'autore e, quindi, la mancanza di un testo scritto
- la sala nuda: la vicenda si ambienta in un teatro privo di scenografie, costumi.
“Il fu Mattia Pascal” 1903
Il romanzo “Il fu Mattia Pascal” è una delle opere di Luigi Pirandello più conosciute e amate dal
pubblico, ed una delle più rilevanti dell'intera produzione dello scrittore siciliano. Come ci anticipa
già il titolo stesso, ruota interamente attorno al tema, fondamentale in Pirandello, dell'identità
individuale: quella di Mattia Pascal e del suo alter ego, Adriano Meis. Il romanzo, scritto in prima
persona, è infatti il racconto da parte del protagonista della propria vita e delle vicende che
l'hanno portato ad essere il "fu" di se stesso.
Dopo la morte del padre, che aveva fatto fortuna al gioco, la madre di Mattia, il protagonista, il
quale ha pure un fratello di nome Roberto, sceglie di dare in gestione l’eredità del marito a Batta
Malagna, amministratore poco onesto che deruba giorno per giorno la famiglia Pascal. I due
giovani eredi, dal canto loro, sono troppo impegnati a divertirsi per occuparsi della gestione del
patrimonio famigliare. Mattia, inoltre, mette incinta la nipote del Malagna, e viene da questi
obbligato a sposarla per rimediare all’offesa provocata. Impoverito dalla mala gestione dell'eredità
paterna, il protagonista deve impiegarsi come bibliotecario e vivere con la moglie a casa della
suocera, donna arcigna e che lo disistima profondamente. Non passa molto tempo che la vita
matrimoniale diventa Mattia decide di partire in direzione Montecarlo, per tentare di arricchirsi
al gioco. Le sue speranze vengono esaudite: il protagonista vince una somma considerevole
alla roulette. Si rimette così in viaggio verso il paese natio, tronfio della vittoria e deciso a
riscattarsi. Durante il viaggio in treno, però, accade l’imprevedibile: Mattia legge sul giornale la
cronaca di un suicidio avvenuto a Miragno, e scopre con enorme stupore di essere stato
identificato nel cadavere dello sventurato, già in stato di putrefazione e quindi poco riconoscibile.
Dopo un primo momento di totale smarrimento, Mattia decide di cogliere l’occasione per fuggire
da quella vita poco entusiasmante che lo attende a casa.
Abbandonata l'identità di Mattia Pascal, cui si associa l'idea di fallimento esistenziale, il
protagonista adotta il nuovo nome di Adriano Meis, convincendosi che liberarsi dalla figura sociale
di Mattia (il nome, la fimiglia, la vita usuale di tutti i giorni) sia il primo passo di una nuova vita.
Dopo un periodo trascorso a vagare tra Italia e Germania, Adriano si stabilizza a Roma, dove
prende in affitto una stanza dal signor Paleari. Qui però il protagonista si scontra coi limiti
intrinseci di un’esistenza al di fuori delle convenzioni sociali: non possedendo documenti né
un’identità riconosciuta, non può denunciare un torto che gli viene fatto - nello specifico, un furto
- e, cosa ben più grave, non può sposare la figlia del padrone di casa, Adriana, di cui è nel
frattempo s'è innamorato. Frustrato dalla sua condizione, decide di rinunciare anche all'identità di
Adriano Meis, di cui inscena il suicidio e di riprendere la vecchia identità, facendo "risorgere" - per
così dire - Mattia Pascal. Tornato a Miragno, Mattia trova però una situazion