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Hérodiade inizia con “La nourrice (Incantation)”: “incantation” significa
“formula magica, recitata o cantata accompagnata da gesti rituali che è
pensata per agire sugli spiriti soprannaturali oppure per incantare”.
Questa è quindi una poesia magica che deve agire sull’interlocutore come una
formula magica.
La prima parola “Aboli” fa riferimento alla negazione, al tema del “rien”, al
nulla: è l’aurora ad essere abolita (necessario prestare attenzione alla sintassi
che spesso introduce incisi). Con questa negazione si rappresenta Hérodiade
che si rifiuta di nascere.
Ci troviamo poi in questo castello in cui c’è decadenza, tristezza, è abolito, è
nero: simbolo anche qui del nulla.
L’aurora spalanca la vetrata e si riflette sugli incarnati: questa è simbolo del
crimine che verrà commessa. Inoltre il colore porpora, che viene citato come
colore dell’alba e del sole che nasce, fa riferimento a diversi elementi: il
crimine che verrà commesso, Hérodiade, ma anche Erode in quanto per
metonimia è “sovrano”.
Nella seconda strofa la nutrice guada invece una stanza: una camera
incorniciata da ornamenti di genere bellico e da gioielleria però ormai spenta
ed è colorata di bianco; c’è in più una tappezzeria sulla quale sono
rappresentate delle sibille, una delle quali è talmente vaga che si trasforma in
un aroma di ori freddi (sinestesia) che aleggiano sul sacchetto degli aromi
stessi; inoltre l’abito della nutrice è bianco e il lampadario è di madreperla.
Queste sono tutte sensazioni vaghe.
Tutto ciò è un prologo in cui la nutrice pensa, parla, ricorda ed è per questo
motivo che il prologo è così complesso: così è come il nostro pensiero si
organizza quando non parliamo con gli altri ma dentro noi stessi.
Così il risultato è un “grimoire”, cioè un testo complicato e difficile da decifrare.
Quella che segue è la versione definitiva e in cui si svolge il dialogo tra
Hérodiade e la nutrice, che cerca di convincerla a vivere.
Si entra quindi in quella che Mallarmé ha creato come scena e che è poi
diventata poesia: sono presenti due personaggi, la nutrice ed Hérodiade.
1) All’inizio troviamo il primo attentato alla verginità di Hérodiade che non
vuole assolutamente essere toccata: la nutrice vorrebbe baciarle le dita.
Un campo semantico presente in questi primi versi è quello della verginità,
dato dai capelli di Hérodiade che sono definiti come “puri”.
Al campo semantico della purezza appartengono anche i gigli, simbolo di
purezza e di regalità.
Altro campo semantico che compare in questi versi è quello della freddezza di
Hérodiade: lo si nota soprattutto negli ultimi versi del primo paragrafo, in cui la
protagonista dice alla nutrice di aiutarla a pettinarsi con molta attenzione,
come se stesse pettinando la criniera di un leone.
Questi stessi capelli che erano prima simbolo di purezza, diventano anche
simbolo della freddezza della donna: i capelli sono oro, minerale simbolo di
durezza e freddezza. In Mallarmé troviamo infatti il desiderio, la sensualità, ma
tutto ciò deve essere congelato (“già un bacio mi ucciderebbe”).
2) A questo punto assistiamo al secondo attentato alla verginità di Hérodiade:
la nutrice cerca infatti di metterle del profumo nei capelli, ma Hérodiade le dice
di allontanarsi in quanto odia quei profumi; i suoi capelli non sono infatti dei
fiori ma sono oro freddo e sterile, inodore. Sui suoi capelli non vuole altro che
oro, essi sono oro: l’oro è un minerale, quasi eterno e comunque molto
longevo, non sicuramente corruttibile come il vegetale (tema già introdotto da
Baudelaire che spiega come il minerale, l’artificiale, sia la sola possibilità che
l’uomo ha per elevarsi dalla realtà).
Successivamente entra in gioco il tema dello specchio, molto sfruttato dai
simbolisti: questo oggetto è simbolico, in quanto è minerale, freddo, glaciale e
inoltre riflette l’io, il volto, ciò su cui i simbolisti si interrogano particolarmente.
Dobbiamo inoltre aggiungere che in questo specchio non si riflette solamente
Hérodiade, ma anche la stessa poesia che è fusa con la donna.
Il tema della verginità viene poi ripreso anche dall’”astro”, che è simbolo della
prima stella che nasce, Venere, la vergine della notte.
3) A questo punto la nutrice compie il terzo gesto che attenta alla verginità di
Hérodiade, cioè cerca di toccarla. Hérodiade però la ferma immediatamente,
reprimendo così il suo “gesto di empietà”, cioè gesto sacrilego.
Hérodiade si rivolge quindi alla nutrice dicendole che la sta facendo morire
tendando di portarla alla realtà: a questo punto la nutrice, che è solo
un’umana, non può capire e pensa che la morte di cui Hérodiade parla sia la
morte fisica.
Viene inoltre ripreso negli ultimi versi di queste pagine il tema dell’”azur”: gli
uomini vivono in una realtà nella quale tendono alla realizzazione dei loro
desideri; l’esistenza in questo modo però causa sofferenza, in quanto
cerchiamo sempre qualcosa che non riusciamo a raggiungere. Questo è
esattamente ciò che pensa Hérodiade quando afferma “Odio l’azur!”, che è
simbolo della cosa alla quale tendiamo ma che non riusciamo a raggiungere
nonostante i nostri innumerevoli sforzi.
Hérodiade diventerà il personaggio femminile per eccellenza che occuperà
pagine e pagine di diverse opere: questa donna glaciale fatale diventerà un
simbolo (anche se comunque il mito della donna fatale nasce nel Romanticismo
inglese con Coleridge, molto letto da Baudelaire).
Questo è anche il periodo in cui in Francia vengono combattute le prime lotte
sociali per la rivendicazione di diritti delle donne: c’è quindi un atteggiamento
di paura rispetto al possibile ruolo sociale delle donne.
Il mito della donna diventa quindi della donna vampiro che vampirizza l’uomo.
Questo concentrarsi di fatti fa sì che negli anni ’20 Marlene Dietrich diventi
l’icona della femme fatale, della donna fredda, glaciale, crudele, che fa
innamorare di sé un vecchio che quasi muore per lei nell’”Angelo Azzurro”.
SES PURS ONGLES TRÈS HAUT DÉDIANT LEUR ONYX - pag.
31 (dispensa)
Questa che leggiamo è l’edizione definitiva di questo sonetto, che è del 1867.
C’è in questa poesia un oggetto, una statuina (l’Angoscia con la A maiuscola)
che è la personificazione dell’angoscia, dello spleen: capiamo che una statuita
dal fatto che viene più o meno descritta la sua funzione, ovvero di reggere un
porta lampada. E’ una statuina d’onice, materiale durissimo, che piaceva anche
ai parnassiani (Gautier).
Ci troviamo a mezzanotte, ora magica per Mallarmé, dove si ha per qualche
istante la rivelazione dell’Assoluto, che in alcuni casi Mallarmé definisce come
nulla: per l’uomo è impossibile pensare a nulla.
La statuina sostiene anche i sogni della sera, di mezzanotte: questi sogni sono
bruciati dalla fenice, animale mitologico che rinasce dalle sue ceneri e che è
quindi simbolo contemporaneamente di vita e di morte. Le ceneri di questi
sogni bruciati non sono però raccolte in nessuna anfora cineraria.
Vediamo già quindi come Mallarmé parli di cose che non ci sono.
Inoltre sono presenti delle credenze nel salone vuoto, nessun “ptyx” (oggetto
che nemmeno esiste, inventato dallo stesso Mallarmé), oggetto abolito che non
produce alcun suono; questo significa che la poesia parla di se stessa parlando
del nulla, indicando anche la sua autoreferenzialità.
Compare quindi il Nulla, con la lettera maiuscola.
Successivamente appare una finestra la cui cornice non esiste, sulla quale sono
rappresentati dei liocorni, animali mitologici con un solo corno e che secondo la
leggenda possono essere domati solo da un vergine.
L’ultima terzina si apre con la parola “Elle” che non si sa se si riferisca alla
nissa o ad altro: ella è comunque “defunta e nuda”, due negazioni che indicano
rispettivamente non-viva e non-vestita. Abbiamo poi altre negazioni, come
“dimenticato”, “chiuso”.
Compare poi al termine del sonetto la parola “septuor”, che significa “Orsa
Maggiore”, immagine usata spesso da Mallarmé come simbolo dell’Assoluto:
questa stella si riflette in uno specchio che non esiste, in una cornice che non
c’è, ma non ci sono nemmeno le stelle che sono solo un istante di nulla, in
quanto quando noi le vediamo esse sono già morte (ne vediamo solamente la
luce, ma in ritardo dalla terra, quando queste stelle sono già nulla).
Questa è la massima espressione del Nulla e quindi dell’Assoluto.
Mallarmé spiega questo sonetto in una lettera ad un suo amico, dicendo che
esso è:
“Sonnet allégorique de lui meme”: questa espressione rappresenta
• ancora una volta l’autoreferenzialità della parola poetica e della
poesia stessa;
“Mirage interne des mots eux-memes”: il primo significato del termine
• “miraggio” è quello di rifrazione, un fenomeno ottico grazie al quale si
vedono cose che non esistono, ed è quindi illusione; se guardiamo le rime
di questo sonetto, ABAB ABAB BBA BAB, esse si riflettono come in uno
specchio;
Mallarmé definisce questi versi come “gravure en noir et blanc”: cioè
• “incisione in bianco e nero” cioè il negativo dell’immagine, che si
ricollega all’idea di nulla, di negazione;
Inoltre il poeta dice che questa poesia non vuol dire granché, ma se viene
• ripetuta più e più volte questa crea una magia, una formula incantatoria.
La parola “ptyx”, come abbiamo visto, non significa nulla, ma se lo cerchiamo
sul dizionario TLF, lo troveremo nella sezione dedicata al verbo “abolir”, come
simbolo di abolizione, di nulla.
Questa parola è un apax, cioè una parola che viene utilizzata solamente una
volta.
E’ la poesia che afferma se stessa, perché le parole sono superiori alla
realtà: il linguaggio per Mallarmé è tutto.
SAINTE - pag. 30 (dispensa)
E’ la descrizione di una vetrata che raffigura Santa Ce