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In Italia, alcune delle istituzioni e delle organizzazioni che oggi consideriamo parte del
settore non profit, hanno una storia molto antica. Sono passati diversi secoli dalla nascita di alcuni
ospedali gestiti da ordini religiosi, di molte opere pie che si occupavano di poveri, di alcune
biblioteche storiche, di qualche università poi divenuta pubblica. Molti di questi soggetti hanno una
matrice religiosa, anche se non mancano le istituzioni laiche. Si tratta spesso di istituzioni frutto
della preoccupazione dei cittadini, della Chiesa e, più tardi dello Stato, per le condizioni di vita
degli strati più sfortunati della popolazione, come i poveri o gli ammalati.
A fianco di queste istituzioni secolari ve ne sono altre assai più giovani delle precedenti e
rappresentano l’esito di un processo e di esigenze completamente diverse. Si tratta di quella parte
del non profit italiano che ha visto la luce con la nascita del movimento dei lavoratori: società di
mutuo soccorso, cooperative di consumo e di produzione, associazioni politiche e sindacali. Queste
organizzazioni, che hanno rappresentato il prodotto dell’autonoma capacità di organizzazione dei
cittadini nel dare risposta ad alcuni loro bisogni fondamentali, sono ora cambiate. Alcune non
esistono più perché molti dei bisogni che si proponevano di soddisfare trovano ora una risposta
nell’amministrazione pubblica e, talvolta, nel mercato; altre sono profondamente cambiate,
trasformate esse stesse in organizzazioni di mercato, come buona parte della cooperazione di
produzione e consumo.
Ma oltre a queste istituzione di tradizione secolare, gran parte del settore non profit del
nostro paese ha una storia più recente, che può essere fatta risalire agli anni del secondo dopo guerra
e per le parti più innovative, come quelle dell’impresa sociale, all’ultimo ventennio dello scorso
secolo. Espressione di istanze solidaristiche, ma soprattutto partecipative, della società civile
italiana, questa componente del settore non profit italiano è fatta di associazioni, di gruppi di
volontariato, di comitati, di cooperative sociali create dal desiderio di contare e di incidere in prima
persona sul contesto sociale, culturale, civile e economico del nostro paese.
Queste tre anime – una istituzionale e caritatevole,una seconda partecipativa e mutualistica,
una terza partecipativa e solidaristica – continuano a convivere nel settore non profit italiano e si
fondono talvolta in un insieme complesso e difficile da decifrare in cui si contemperano tradizione e
cambiamento. 4
2. L’Ordinamento Giuridico in Italia
2.1 Quadro Normativo di riferimento
Il settore non profit italiano è costituito da un insieme ampio e variegato di organizzazioni
che si differenziano l’una dall’altra per dimensioni, struttura organizzativa e ruolo; questi organismi
sono spesso diversi anche per la natura giuridica che li caratterizza e – dal punto di vista
dell’ordinamento – non posso essere definite semplicemente come organizzazioni non profit poiché
non esiste, nel nostro sistema di leggi, una simile definizione.
La legislazione italiana sul settore non profit è infatti un insieme composito di leggi
cresciute in maniera disorganica nel corso del tempo e tuttora prive di un adeguata sistematicità. La
legislazione civilistica contenuta nel libro I del c.c. del 1942, che dovrebbe rappresentare la
principale normativa del settore, ha infatti tenuto in vita alcune norme precedenti, come ad esempio
la legge sulle società di mutuo soccorso (l. 3818/1886) o quelle sulle Ipab (l. 6972/1890),
modificata solo di recente. Oltre a ciò, a questo insieme già complesso di norme, si sono aggiunti
numerosissimi provvedimenti successivi; alcuni di natura ordinamentale, tesi cioè a regolamentare
alcune particolari categorie che si suole far rientrare nel non profit, come le organizzazioni di
volontariato (l. 266/1991), le cooperative sociali (l. 381/1991), associazioni di promozione sociale
(l.383/2000) e le imprese sociali (d.lgs 155/2006), oggetto di apposite norme; altri provvedimenti
hanno invece carattere fiscale e mirano dunque a regolare i rapporti tra particolari tipologie di
organizzazioni non profit e il fisco,come ad esempio la lagge sulle organizzazioni non lucrative di
utilità sociale (onlus) (d.gls 460/1997) o quella sulla deducibilità fiscale delle donazioni (l.80/2005);
altri provvedimenti ancora riguardano la riforma del wefare, come la legge sull’assistenza
(l.328/2000), e in modo indiretto l’operato del settore non profit.
Un’adeguata comprensione del trattamento legislativo del settore non profit italiano non può
dunque prescindere dalla descrizione, seppur breve, delle tipologie giuridiche previste dal codice
civile e delle principali leggi che hanno mirato a regolare categorie specifiche di enti.
2.2 Codice Civile
Le forme giuridiche tipiche del non profit italiano sono regolate dal Libro I del codice civile
che distingue tra associazioni (riconosciute e non), fondazioni e comitati.
Le associazioni sono quelle organizzazioni costituite da un gruppo di persone che si unisce
per perseguire uno scopo e un attività comune, di tipo non economico e non commerciale.
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L’associazione può essere riconosciuta o non riconosciuta, a seconda che abbia personalità giuridica
oppure no. Il riconoscimento viene accordato dal presidente della Repubblica o, se l’associazione
opera in un ambito territoriale limitato, dal prefetto o dal presidente della regione. Con il
riconoscimento dell’associazione diventa persona giuridica a tutti gli effetti, in grado di firmare
contratti e obbligazioni, di rispondere con il proprio patrimonio degli obblighi sottoscritti e, se
necessario, di comparire in giudizio.
Le fondazioni, invece, sono enti che, attraverso l’amministrazione di un patrimonio,
perseguono uno scopo specificato dall’atto – lo statuto – che da vita alla fondazione stessa. A
seconda dell’attività svolta, si suole distinguete tra fondazioni di erogazione (grant-making), che
gestiscono il patrimonio con lo scopo di distribuirne le rendite a soggetti terzi – come la fondazione
Gates o la Ford Foundation -, e fondazioni operative che, anziché distribuire i frutti del proprio
patrimonio, svolgono direttamente attività funzionali al perseguimento degli scopi statutari -come la
fondazione San Raffaele di Milano o la fondazione Guggenaim di New York.
La terza organizzazione di cui si occupa il Libro I del Codice Civile è il comitato.
Quest’ultimo può essere considerato una sorta di associazione temporanea di persone che
perseguono uno scopo definito e raggiungibile in un arco temporale delimitato. Gli organizzatori del
comitato sono direttamente responsabili della conservazione e dell’uso dei fondi raccolti.
2.3 Le organizzazioni di volontariato
La legge quadro sul volontariato (11 Agosto 1991, n°266) è sintetizzabile attraverso pochi
commi dei suoi primi tre articoli che riassumono efficacemente cosa rappresenti il volontariato per
il nostro paese:
Art.1, co. 1. La Repubblica italiana riconosce il valore sociale e la funzione dell’attività di volontariato come
espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne promuove lo sviluppo salvaguardandone l’autonomia e
ne favorisce l’apporto originale per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale
individuato dallo Stato, dalle regioni, dalle province autonome di Trento e di Bolzano e dagli enti locali.
Art. 2, co.1. Ai fini della presente legge per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo
personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche
indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà.
Art. 3, co. 1. È considerato organizzazione di volontariato ogni organismo liberamente costituita al fine di
svolgere l’attività di cui all’articolo 2, che si avvalga in modo determinante e prevalente delle prestazioni
personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti.
Il riconoscimento del fenomeno del volontariato è servito anche da stimolo per le
organizzazioni di volontariato stesse affinché intraprendessero con decisione la strada del
miglioramento nella struttura e nella qualità dei servizi offerti in modo da poter recitare quel ruolo
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di protagonista, assieme a tutta la società civile, che sarà determinante nel passaggio dal welfare
state alla welfare community.
2.4 Le cooperative sociali
Le cooperative sociali nascono nel 1991 con la legge 381 sulla cooperazione sociale, la
prima che ha trattato il tema del rapporto tra mondo non profit e attività d’impresa, poi pienamente
affrontato con il d.lgs 105/2006 sull’impresa sociale che ha disciplinato il tema anche per le altre
tipologie di società.
La legge 381 è composta da 12 articoli, il primo dei quali, definisce le cooperative sociali
come organizzazioni che << hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla
promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso:
a) la gestione di servizi socio-sanitari educativi;
b) lo svolgimento di attività diverse –agricole, industriali, commerciali o di servizi-
finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate >>.
Questa legge ha senza dubbio il merito di aver “inventato” una tipologia di cooperativa che
supera il concetto tradizionale di cooperazione. La cooperativa tradizionale nasce per fare,
innanzitutto, l’interesse dei soci. Le cooperative sociali, invece, vengono costituite dai soci per fare
del bene come prima cosa agli altri, per inserire nel mondo del lavoro soggetti svantaggiati e per
offrire servizi di pubblica utilità.
2.5 Le associazioni di promozione sociale (APS)
La disciplina delle associazioni di promozione sociale è affidata alla legge 383 del 2000 che
ridisegna profondamente il nostro sistema del welfare assegnando un ruolo di primo piano alle
associazioni non profit. Tra le novità più significative introdotte da questo provvedimento troviamo
la costituzione di un osservatorio nazionale sull’associazionismo, che promuova studi e ricerche sul
tema, e una rappresentanza di 10 elementi nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro,
aprendo, così, alle questioni sulla rappresentanza del terzo settore.
2.6 Le imprese sociali
Con il d.lgs 155 del 2006 il legislatore stabilisce (art. 1) che possono acquisire la qualifica di
imprese sociali tutte le organizzazioni private che esercitano in via stabile e principale un attività
economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi di utilità sociale,
superando così il concetto, come espresso n