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L’indice nasconde al suo interno una tensione temporale. Da una parte, la traccia indessicale –
l’impronta, il fossile, la fotografia – porta con sé una storicità, rende il passato presente.
Dall’altra, l’indice deittico – i significanti ‘qui’, ‘ora’, ‘questo’, ‘ quello’ – sono inestricabili
dall’idea di presenza.
Adottando una posizione pragmatica, in “What is the Point of an index?” Tom Gunning cerca di
dimostrare che il digitale e l’indessicale non si escludono a vicenda, affermando che l’indice è
insignificante o inutile al di fuori della precisione visuale o della riconoscibilità dell’immagine.
L’autore suggerisce una rilettura del sistema dei segni di Peirce, sostenendo che l’indessicalità
non possa essere separata da considerazioni di accuratezza visuale contro l’affermazione di
Peirce che la funzione indessicale e quella iconica di un segno debbano essere considerate
reciprocamente indipendenti. Per Gunning la fascinazione che sentiamo quando ci confrontiamo
con una fotografia deriva non da qualche desiderio di conoscere come è stata fatta (sia che abbia
un referente reale sia che non ce l’abbia) ma piuttosto dalla nostra capacità di riconoscere la sua
rassomiglianza visuale nei confronti di un referente (per quanto possa essere differente da esso):
La potenza del digitale (o anche della fotografia tradizionale) di ‘trasformare’ un’immagine fa
affidamento sul mantenere qualcosa della precisione visuale della riconoscibilità dell’immagine
originale. Uso questa frase (‘accuratezza visuale e riconoscibilità’) per indicare il modo in cui
l’indessicalità si intreccia all’iconicità nel nostro comune giudizio delle fotografie.
Gunning sfida l’utilità della nozione di indessicalità minimizzando la struttura semiotica della
fotografia e mettendo in primo piano la sua fenomenologia:
Penso che è’ solo da un’investigazione fenomenologica del nostro investimento nell’immagine
fotografica (digitale o ottenuta altrimenti) che possiamo cogliere davvero la spinta dietro la
digitalizzazione e il perché sembra improbabile che la fotografia possa scomparire. […]
Ipotizzerò quindi una fascinazione fenomenologica per la fotografia che implica un
mantenimento del senso di una relazione tra essa ed una realtà preesistente. Mentre questo è
precisamente ciò che in apparenza implica l’‘indessicalità’, sono sempre meno convinto che
questo termine semiotico costituisca il termine appropriato (o sufficiente) per l’esperienza.
La consapevolezza di come la fotografia è stata prodotta (la relazione indessicale rispetto ad un
oggetto reale garantita dalla luce che rimbalza contro l’oggetto), sostiene Gunning, non può
spiegare la nostra fascinazione rispetto ad essa. Una relazione indessicale “cade interamente
all’interno del dominio razionale” e perciò non può rendere conto del “potere irrazionale della
fotografia di trascinare la nostra fede”. Gunning ci spinge a rivisitare Barthes e Bazin, che
consideravano la fotografia come un’immagine senza codice (Barthes) che ci mette in presenza
di qualcosa (Bazin). Tuttavia, contrariamente a Barthes e a Bazin, Gunning sostiene che le
qualità che rendono affascinante la fotografia non sono necessariamente quelle relative
all’indessicalità, cioè alla temporalità. Invece egli enfatizza il “senso di una quasi inesauribile
ricchezza visuale” della fotografia, il piacere nell’illusione visuale che essa suscita, e la sua
capacità di porci in presenza di qualcosa che non è necessariamente un referente reale: qualità
che noi riconosciamo come essenziali dell’immagine digitale, piuttosto che di quella analogica.
In The virtual life of film Rodowick sfida la riduzione dell’indessicalità al realismo percettivo da
parte di Gunning. Le immagini digitali funzionano attraverso la trascrizione, prima di tutto un
processo temporale, mentre le immagini digitali funzionano attraverso il calcolo o la
conversione: esse non provocano un’esperienza dell’intensità del tempo ma semplicemente
misurano il tempo in quanto conversione di luce in codice: “Il senso primario di ogni fotografia è
che essa è una registrazione spaziale di una durata, […] Catturare un cono di luce implica aprire
una finestra di tempo.” Al contrario,
i criteri tecnologici del realismo percettivo assumono [erroneamente] […] che le forze primarie
della fotografia siano le apparenze spaziali. […] Il concetto di realismo in uso tra i professionisti
della grafica computerizzata […] non corrisponde ad un ordinario senso spaziale del mondo ed
agli eventi reali che hanno luogo al suo interno, ma piuttosto alle nostre norme percettive e
cognitive per comprendere uno spazio rappresentato, in particolare uno spazio che può essere
rappresentato o costruito secondo simboli matematici.
Paradossalmente Rodowick, come Doane, finisce per cancellare la distinzione tra analogico e
digitale che apparentemente cerca di sostenere sottolineando la virtualità inerente al cinema.
Rodowick rimanda a Metz che
Distingue tra film come unità discorsiva effettiva o concreta, e cinema come ideale insieme di
strumenti. Questa distinzione ci spinge verso un altro senso della virtualità del film e della teoria
del film. […] All’interno del filmico, il cinematografico si inscrive come un’immensa virtualità
[…] [attraverso] la nozione di codici cinematografici.
I singoli film sono concreti ed unici mentre i codici cinematografici sono virtuali: “la qualità
dell’essere cinematografico non deriva in nessun modo dalla natura fisica del significante”. La
specificità del medium non ha origine dalla materialità del significante cinematografico: un
codice “è un costrutto piuttosto che un’unità di per sé, e non emerge prima di un’analisi”. Perciò
il cinema esiste come una virtualità concettuale, della quale il cinema analogico è solo un caso
particolare. D’altra parte, la virtualità insita nel cinema è una funzione del suo essere ibrido in
quanto medium sia spaziale che temporale. Sconvolgendo le categorie concettuali dell’estetica
del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, il cinema, definito come la presenza di qualcosa
che è assente nel tempo e nello spazio, era sin dall’inizio “tra le più temporali, e perciò virtuali,
delle arti”. La sua “duplice virtualità è determinata da una vertiginosa spazializzazione del tempo
e da una ‘temporalizzazione’ dello spazio”. Trattando il digitale come la vita virtuale
dell’analogico, ed enfatizzando la misteriosa natura ontologica del cinema – cosa che implica che
nemmeno l’indice possa esserne alla base – Rodowick minimizza la spaccatura tra i due,
suggerendo che il digitale e l’indice non si escludono a vicenda.
Infine, in “Digital editing and montage: the vanishing celluloid and beyond” Martin Lefebvre e
Marc Furstenau affermano che per quanto le immagini digitali “siano create nella speranza di
essere interpretate come fotografiche” esse potrebbero essere considerate indessicali: il loro
“indice” è la fotografia piuttosto che la realtà. Per dimostrare che ogni segno è indessicale gli
autori analizzano un dipinto realistico di una casa rappresentata in un modo che ci permette di
leggerlo come un segno relativo alla vita domestica.
L’ipotesi è che le case di questo tipo in realtà appartengono al nostro concetto di vita
domestica. La casa nella figura è perciò concepita come appartenente ad una classe di oggetti
dell’esperienza, cioè come enti ‘connessi’ in modo indessicale da una contiguità con quella
classe. Inoltre, se la casa esiste davvero, allora il dipinto può essere visto come determinato
dall’esistenza di una casa appartenente ad una classe di oggetti che ricadono sotto il concetto di
vita domestica. Se, al contrario, l’immagine è un semplice prodotto della fantasia del pittore,
sussiste comunque la sua connessione ad altre case esistenti, appartenenti alla classe di oggetti
che ricade sotto il concetto di vita domestica che le ha parzialmente determinate.
Qui l’indessicalità è definita concettualmente: la casa funziona come un segno indessicale
semplicemente grazie all’appartenenza ad un tipo generale – case, esistenti o immaginarie – che
ricadono sotto il concetto di vita domestica. Gli autori affermano che questo esempio “illustra
che ogni segno, sia che riguardi qualcosa di esistente sia che riguardi un tipo generale, comporta
indessicalità. […] In breve, tutti i segni, comprese le immagini digitali e le finzioni
cinematografiche, dovrebbero significare qualcosa e in fondo dovrebbero essere intesi come […]
indessicalmente connessi alla realtà. Qui l’indessicalità è fusa con la leggibilità: se un segno è
leggibile esso deve essere (perché è) indessicale. Tutti i segni sono automaticamente indessicali
perché l’indessicalità è semplicemente
La funzione semiotica per la quale un segno indica o punta verso il suo oggetto. […] Ora ogni
oggetto dato, che sia una fotografia, un film, un dipinto o una immagine di grafica
computerizzata, è connesso con il mondo (o con la Realtà) in un numero illimitato di modi, che
sono tutti modi in cui esso può funzionare come un indice. Perciò non ha senso dire, per
esempio, che una fotografia tradizionale è più (o meno) indessicale di un’immagine digitale dal
momento che non possiamo quantificare il numero di modi in cui un oggetto dato può funzionare
come un segno.
Come Gunning, Lefebvre e Furstenau considerano la temporalità come solo uno dei molti modi
in cui un segno può funzionare indessicalmente: un indice non deve necessariamente essere una
traccia (un’impronta di un momento passato). Anzi, essi proseguono suggerendo che ci sia
un’intera gamma di differenti gradi di indessicalità, che comprendono l’indessicalità diretta e
indiretta, della quale sono esempi “un indice di artisticità” e “un indice di stile”.
Le discussioni teoriche sull’indessicalità sono state spostate da un’analisi strettamente semiotica
ad un’analisi fenomenologica dell’indice in termini di affezione. Thierry de Duve ci spinge a
considerare la reazione psicologica prodotta