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2. LA SUCCESSIONE INTESTATA (LEGITTIMA)
2.1. Le regole di ius civile
Quando un pf muore senza lasciare testamento o lasciando un testamento invalido per
ius civile, si apre la successione intestata.
● Nel I periodo, essa è regolata dai mores, fissati poi nelle Dodici Tavole, e dunque da
norme del solo ius civile, che rispecchiano la struttura giuridica della famiglia.
Nell'ordine, e secondo le regole qui di séguito illustrate, i successibili sono: i sui,
l'agnato prossimo, i gentiles.
▪ In primo luogo, al pf defunto subentrano quei sottoposti che, alla sua morte, divengono
persone sui iuris: si tratta, sempre, dei figli e della moglie, rimasta vedova, se era
sposata cum manu, poiché così si era creato un vincolo di agnazione che la equiparava a
una figlia del marito (loco filiae).
[Digitare il testo]
Ai fini successorî, tutti i figli e la moglie sono detti heredes sui, cioè “eredi propri” del
defunto, e lo sono automaticamente (ipso iure), cioè senza poter rifiutare, e per sempre.
Tuttavia, i fratelli coeredi possono decidere di tenere unito il patrimonio del loro pf nel
consorzio, anche per conservare la medesima posizione censitaria del pf nell’ordina-
mento centuriato [← mod. I, nn. 4.4 e 6.1]: nel consorzio tutti i fratelli sono titolari di
tutto, e perciò è sufficiente l’atto di uno solo, ad es., per manomettere uno schiavo o
per trasferire la proprietà di un bene.
Tra i sui l’eredità si divide per capi, ossia in quote uguali: per la divisione si ricorre alle
procedure già ricordate poco sopra [n. 1.2].
Se uno dei figli è premorto al pf o è stato emancipato dal pf, ai discendenti diretti del
figlio premorto, quale che sia il loro numero, va la quota che sarebbe spettata al loro
genitore: questo è il criterio detto oggi della rappresentazione (da non confondere con
la rappresentanza).
▪ In secondo luogo, in mancanza di eredi sui, i beni sono attribuiti – familiam habènto
“abbiano il patrimonio” – all’agnato prossimo (parente di grado più vicino in linea
collaterale), che agli inizi non è considerato erede civile, ma presto lo diviene per
interpretazione creatrice dei pontefici.
L’agnato prossimo – a differenza dei sui (eredi automaticamente e per sempre) – può
cedere a un terzo l'eredità oppure non accettarla.
▫ La cessione della eredità a un terzo deve avvenire, ovviamente, prima della sua
accettazione e va compiuta fra gli interessati (cedente e cessionario) con una in iure
cessio (hereditatis) [← Priv. II, n. 1.3]: il terzo (cessionario) diverrà l'erede, più
esattamente il vocatus “chiamato” all'eredità.
(Viceversa, all'erede testamentario è preclusa tale possibilità di cessione, che, se posta in
atto, sarà nulla). ()
▫ Se, invece, l'agnato prossimo non accetta l'eredità, essa non è deferita (= offerta)
all’agnato di grado ulteriore, ma resta vacante: chiunque può occuparla e, dopo un anno,
divenirne titolare per usucapione.
Tuttavia, con l’andar del tempo, l’usucapione dell’eredità sarà sentita come iniqua:
grazie a vari rimedi, dapprima (II secolo d.C.) si ammetterà solo la usucapione di singoli
beni ereditari e poi si giungerà a escluderla del tutto.
▪ In terzo luogo, infine, in mancanza di agnati, la occupazione del patrimonio è
assicurata ai gentiles (membri della stessa gens del pf defunto).
I gentiles non sono, né mai saranno, considerati eredi, anche perché il loro ruolo
successorio diviene ben presto marginale, finché, durante il II periodo, se ne perde ogni
traccia.
Permane invece il ruolo delle altre due categorie (sui e agnati) che, anzi, sono formal-
mente mantenute fino a Giustiniano. * * *
[Digitare il testo]
2.2. L’intervento del pretore (bonorum possessio sine tàbulis)
Dagli inizi del II periodo, la successione regolata dal ius civile e fondata sul vincolo di
agnazione viene man mano avvertita come troppo rigorosa, perché esclude dalla eredità
sia i figli emancipati, sia i congiunti per parte femminile (es.: i figli di una sorella del
defunto), sia la moglie non in manu: con tutte queste persone il legame affettivo è forte
come e, talvolta, anche più di quello con gli agnati.
Ad attenuare la disparità di trattamento successorio interviene il pretore che, dalla tarda
Repubblica, comincia a tenere in considerazione il vincolo di cognazione: nasce così la
bonorum possessio sine tàbulis “senza le tavole (testamentarie)”.
A sviluppo compiuto, il pretore la concede a quattro classi di persone, purché ingenue,
ossia nate libere (per i liberti la disciplina pretoria, qui omessa, è diversa), che
nell’ordine sono ammesse a richiederla entro i termini stabiliti nell’editto. Se manca la
richiesta dei membri, esistenti, di una classe, si passa (ed è una grande novità) alla classe
successiva (cd. “successione degli ordini”):
I) i liberi “figli”;
II) i legitimi;
III) i cognati;
IV) il coniuge superstite (vir et uxor).
I) La prima classe, quella dei liberi, comprende tutti i figli – senza fare distinzione tra
figli rimasti in potestà del pf fino alla sua morte e figli usciti dalla potestà per suo atto di
emancipazione – e, secondo il criterio della rappresentazione, i discendenti di eventuali
figli premorti al pf.
Appare però iniquo far concorrere i figli emancipati, che hanno potuto costituirsi un
patrimonio proprio, con i figli rimasti in potestà, che hanno potuto acquistare solo per
il pf.
Pertanto, il pretore dispone che una parte del patrimonio degli emancipati, da lui stimata
secondo equità, sia conferita a vantaggio dei figli rimasti sempre in potestà del pf defunto.
Fra questi ultimi può figurare una figlia andata sposa con un matrimonio sine manu, che
abbia ricevuto una dote: la figlia dotata deve valutare la propria convenienza nel
concorrere coi fratelli, poiché, da un lato, trae indubbio vantaggio dal conferimento di
beni del fratello emancipato, ma, dall’altro lato, è anch’essa tenuta ad un equo conferimento,
giacché la dote ha diminuito il patrimonio del pf defunto.
II) Nella seconda classe sono compresi i legitimi, cioè, in teoria, i successori previsti
dalla legge delle Dodici Tavole in mancanza di sui; in pratica, però, i legitimi si identifi-
cano con gli agnati, poiché i gentiles pèrdono ben presto ogni ruolo successorio.
In base all’antica regola civilistica [← n. 2.1], l’agnato prossimo, anche se rinuncia,
esclude gli altri agnati, che retrocedono nella classe inferiore, quella dei cognati, e
si aggiungono ai suoi membri.
III) La terza classe raccoglie i cognati, ossia i congiunti di sangue in linea collaterale
femminile fino al sesto grado (es.: i figli di due cugine), ignorati dal ius civile.
[Digitare il testo]
Se il cognatus di grado più vicino rinuncia, il pretore ammette la richiesta dei cognati
di grado ulteriore (cd. “successione dei gradi”), fino al sesto. Con tale ulteriore innovazione,
si determina un notevole ampliamento dei successibili.
Si noti che all’interno di questa classe si colloca la successione tra madre e figli(o) di un
matrimonio sine manu, il quale non crea fra loro il vincolo di agnazione.
Tuttavia, nel II secolo d.C., la reciproca posizione successoria tra madre e figli è
migliorata, direttamente sul piano del ius civile, da due senatoconsulti (SC):
il primo (SC Tertulliano) migliora, seppur di poco, la posizione della madre, che sia
esente da tutela muliebre, nei confronti del figlio a lei premorto;
il secondo (SC Orfiziano) migliora di molto la posizione dei figli maschi, perché essi
divengono eredi a preferenza di qualunque altro successibile.
Solo con una riforma di Giustiniano il principio della cognazione sarà posto alla base
della successione intestata, a cui molto somiglia ancora quella vigente nel nostro
ordinamento.
IV) La quarta classe è formata dal coniuge superstite (vir et uxor) di un matrimonio
sine manu: la vedova – meno frequentemente il vedovo, dato l’assetto socio-giuridico
del tempo – può chiedere il possesso dei beni del coniuge defunto.
*******************************************************
3. IL TESTAMENTO: CAPACITÀ E FORME
3.1. Capacità attiva e passiva
● Nel corso del II periodo, la vocazione (chiamata) a succedere più usuale, almeno nei
ceti medi e alti, è quella testamentaria.
Il testamento, di qualunque tipo, è un negozio di ius civile, unilaterale e formale, di
regola compiuto dinanzi a testimoni, col quale un pf nomina uno o più eredi,
determinando la sorte del patrimonio e dei culti familiari per il tempo successivo alla
propria morte.
● Non tutte le persone sui iuris possono fare testamento, perché, in via di principio,
la capacità attiva è riconosciuta al pf romano pùbere e idoneo sia fisicamente (non lo
sono il muto e, poi, il sordo, mentre lo è il cieco), sia psichicamente (non lo sono il
furiosus “malato di mente” e il pròdigus “scialacquatore” [← Priv. I, n. 5.2]).
Le donne sui iuris (tranne le Vestali) non godono, per lungo tempo, della capacità di
testare; la ottengono nel II periodo avanzato, purché il loro tutore dia l’auctoritas.
Per tutti la capacità di testare deve sussistere quando si compie l’atto e perdurare fino
alla morte, di regola senza interruzioni (per una eccezione si ricordi il postlimìnium [←
Priv. I, n. 2.2]).
● Amplissima è invece la capacità passiva, ossia di ricevere per testamento, la quale
spetta a tutti i cittadini che non ne siano stati privati o limitati da norme speciali,
come quelle per i celibi e gli orbi in età augustea [← Priv. I, n. 2.3], e, inoltre, spetta
agli schiavi.
[Digitare il testo]
▪ Tuttavia, per gli schiavi si deve distinguere tra schiavi propri e schiavi altrui.
▫ Lo schiavo istituito erede dal padrone riceve in nome proprio, purché venga conte-
stualmente manomesso dal padrone testatore: a rigore, la istituzione deve seguire la mano-
missione (“Stico, mio schiavo, sia libero e mi sia erede”), ma i giuristi, dopo qualche
perplessità iniziale, ritengono valida, purché inequivocabilmente contestuale, anche
una istituzione che preceda la manomissione.
▫ Invece, lo schiavo altrui – al pari del sottoposto libero altrui istituito erede – acquista
l'eredità non a sé stesso, ma accetta solo se il padrone glielo ordina, acquistandola per lui.
In proposito, un giurista c