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I filii familias i nati da matrimonio legittimo che, pur essendo liberi e cittadini romani, ricadevano sotto la
patria potestà del pater familias, se anche questi era nato, a sua volta, da matrimonio legittimo.
La famiglia romana può essere definita come un gruppo di tipo potestativo il cui tessuto quindi non è il legame di
parentela bensì la sottomissione al potere del pater familias. Quest’ultimo si trova al vertice della famiglia che perciò
prende il nome di potestativa e patriarcale. La parentela è solo ed esclusivamente quella maschile dal momento che la
donna entra nella famiglia come sottoposta al potere del marito perdendo qualsiasi legame con la sua famiglia
d’origine. Questa appartenenza alla famiglia del marito viene chiamata anche patri locali.
La famiglia romana risente fortemente anche dell’esogamia, cioè la necessità della società affinché i matrimoni
avvengano tra persone non appartenenti alla stessa famiglia.
La famiglia romana, quindi, era basata sulla patria potestas rapporto che legava il figlio al padre con un vincolo così
forte da non poter essere mai sciolto con il tempo questo potere che il padre aveva sui figli diventò di minore portata
pur non scomparendo mai dal diritto romano. La patria potestas era esercitata tanto sui membri della famiglia come la
moglie e i figli quanto sui servi e le altre res. Una comunità composta da famiglie aventi la stesso capostipite e, quindi,
con un uguale nomen gentis si chiama gens. Si diventa membri di una famiglia o per natura o per diritto:
-
Per natura nascita figli/e nati in un matrimonio e procreati dal pater o dai suoi sottoposti maschi;
-
Per diritto coloro che entrano in una famiglia per atti di volontà.
Le modalità attraverso cui avviene l’aggregazione giuridica ad una familia sono:
1.
Adrogatio atto che include l’intervento del popolo se l’adottato era sui iuris e pater familias con la sua
adozione la sua intera famiglia cessava di esistere dal punto di vista giuridico, aggregandosi a quella nuova e
tutti i suoi componenti diventavano sottoposti al nuovo pater familias. Questo poteva capitare per ragioni
censitarie, infatti, aumentando la dimensione e le proprietà in capo a una famiglia esse entravano a far parte di
una classe sociale più elevata. Richiede il coinvolgimento della più antica assemblea popolare romana –
comitia curiata – in cui la comunità prende atto con il censimento che sono cambiati i numeri e una famiglia
non c’è più. Quest’atto variò nel corso del tempo.
2. serve
Adoptio atto da compiere con l’intervento di un magistrato munito di imperium ad incorporare nella
famiglia, come filius, colui che apparteneva già ad un’altra famiglia.
3.
Conventio in manum una donna entra a far parte di una famiglia nasce dall’usus dopo un anno di
matrimonio, il marito acquisisce la manus sulla moglie situazione di fatto.
I figli
I figli possono rimanere sotto la patria potestas anche tutta la vita e questo diritto risulta estinto solo con la morte del
pater familias in questo caso tutti i figli maschi e femmine diventano sui iuris: se maschi diventano a loro volta pater
familias. Poteva esserci anche la possibilità che un padre vendesse, in modo fittizio, i propri figli.
Il vendere o comprare un figlio serviva per reperire forza lavoro temporanea quindi era una situazione transitoria.
Il processo si articolava 3 vendite:
-
Prima vendita: il filius diventa persona in mancipio dell’acquirente il pater conserva la potestà ma perde il
potere di disporre del proprio filiu. L’acquirente fa uscire il figlio dal mancipium con una manumissio vindicta,
restituendolo al padre;
- Seconda vendita: si effettua lo stesso procedimento di prima;
- Terza vendita: la potestà del padre si estingue (inizialmente rappresenta una sanzione per aver venduto troppe
volte il figlio) emancipazione conclusa il filius diventa ius sui.
Questo tipo di sanzione passò dall’essere tale a diventare la prassi consuetudinaria per la liberazione di un figlio
sottoposto alla patria potestas oppure per l’adozione nel caso in cui l’acquirente non manomettesse il figlio motivi
della vendita. Figli/e in età pubere contraggono giuste nozze, purchè vi sia il consenso del padre.
Se il figlio è un militare ha il potere di disporre tutto ciò che acquista stando nell’esercito e gestirlo in una posizione
identica a quella del padre. Il pater troppo duro e crudele nell’esercitare il proprio comando è costretto ad emancipare il
filius. I sottoposti di un nucleo familiare (schiavi o figli) possono compiere atti giuridici con effetti direttamente riferiti
al pater sono in questo casi suoi sostituti.
La condizione giuridica della donna e il matrimonio romano
La donna a Roma appare collocata in una posizione subalterna: non ha alcun potere politico e il pretore le vieta di
proporre richieste ai magistrati anche per conto di altre persone.
Poteva essere anch’essa alieni iuris o sui iuris ma solo dopo la morte del padre, infatti in questa circostanza poteva
accedere al patrimonio del pater e ciò l’avvantaggiava all’interno della comunità; essendo sui iuris poteva compiere atti
giuridicamente rilevanti in molti ambiti, a volte autonomamente e altre volte esprimendo la propria volontà attraverso la
tutela questo spiega l’impedimento di una completa autonomia delle donne.
Quando nasceva se libera e cittadina romana essa entrava sotto la potestas del padre, che consiste in un potere di vita e
di morte. Il fine di una donna era, però, quello di sposarsi e procreare, quindi diventare mater familias.
In questo caso il padre doveva dare (vendere) all’altra famiglia la propria figlia, la quale entrava con il matrimonio nella
manus del marito o del nuovo padre di famiglia se il marito stesso era sottoposto a un pater.
La manus si può definire come sottoposizione a un pater familias diverso da quello originario ma che avviene con il
passaggio tramite matrimonio da una famiglia all’altra. La manus vale solo per la donna sposata definita come alieni
iuris subjecti. Infatti, se il matrimonio era fondato sul consenus, esso non era accompagnato dall’acquisto della manus
da parte del marito e la donna non perdeva il suo legame i suoi diritti all’interno della famiglia di origine.
La dottrina ha definito il matrimonio romano come seria, manifesta e continuata unione tra un uomo ed una donna.
Erano previste, infatti, giuste nozze e che i coniugi vivessero insieme.
Esso si basava su tre principi fondamentali:
1. Il principio della monogamia: in nessuna epoca del diritto romano, nemmeno in quella più antica o nell’ultimo
periodo (pure contaminato da influssi orientali), era consentito ad un uomo di avere due o più mogli legittime;
2. Il principio della consensualità: nel diritto romano, non era mai l’atto formale a far sorgere il vincolo
coniugale, ma sempre e soltanto il consenso chiamato affectio maritalis dei coniugi che non riguardava la
sfera sentimentale. L’affectio era elemento essenziale dell’istituto al punto che, il suo venir meno faceva
cessare anche il vincolo matrimoniale, a questo riguardo Ulpiano diceva che il matrimonio non si costituiva in
base alla consumazione, ma per effetto del consenso, anche se la dimensione affettiva e consensuale
privilegiava i sentimenti e la volontà del maschio
3. Il principio esogamico: il matrimonio era consentito solo tra soggetti appartenenti a gruppi familiari diversi,
sia dal punto di vista agnatizio (discendenza maschile) che da quello gentilizio (appartenenza ad una stessa
stirpe), e, in seguito, da quello dei sui. In origine, infatti, era permesso sposare un uomo o una donna solo se
apparteneva a un’altra gens, comunità contraddistinte tra loro principalmente da un nomen (il prenomen per i
romani era il nostro nome attuale, il cognomen era il nostro cognome e il nomen indicava l’appartenenza a un
gruppo autonomo probabilmente anche politico definito gens), il divieto di sposarsi non era quindi affatto
legato o meno alla consanguineità . Successivamente ai gens la parentela era considerata quella della famiglia
comuni iure, cioè la cui parentela era in linea maschile, mentre la più recente era la concezione di famiglia
proprio iure che connotava gli appartenenti alla stessa famiglia (quindi sottoposti al potere dello stesso pater
familias). Inoltre in tutto il periodo romano vigeva anche il principio dell’esogamia cittadina che se infranto
portava alla perdita del connubium, come visto precedentemente.
Il matrimonio poteva essere cum manum o sine manum. Il primo era la più antica forma di matrimonio: la donna che
lo contraeva usciva dalla famiglia d’origine ed entrava in una famiglia nuova, in condizione di sottoposizione rispetto al
marito o rispetto al suo pater. Il maritus (o il pater di lui) acquistava una particolare potestà sulla moglie, che prendeva
il nome di manus maritalis (la donna, uscendo definitivamente dalla sua famiglia d’origine, perdeva ogni rapporto di
parentela con i suoi familiari di origine e quindi ogni aspettativa sulla loro eredità). La perdita di ogni relazione con la
famiglia d’origine era determinata dalla conventio in manum: se la donna era sui iuris, apportava al maritus sui iuris
tutto il suo patrimonio.
Esistevano tre diversi modi con cui la donna entrava nella stessa condizione, cioè nella manus maritalis attraverso:
1. Usus: era la forma più arcaica di matrimonio e si trattava di un’azione ripetuta nel tempo che riguardava una
res che doveva essere usucapita, cioè acquisita con l’utilizzo. Si verificava al compimento di un anno continuo
di convivenza matrimoniale, condizione che dava luogo al diritto di “acquisto” della moglie mediante
usucapione o prescrizione acquisitiva. Poiché veniva quasi usucapita, mediante il possesso annuale, passava
nella famiglia dell’uomo e conseguiva la posizione di figlia. Pertanto con la legge delle XII tavole si dispose,
che se qualcuna non volesse sottostare alla potestà del marito si assentasse ogni anno per tre notti consecutive e
così interrompesse l’uso di ciascun anno (trinoctio abesse). La donna poteva essere definita nuptiam sposa o
uxor moglie, ed era sposa per i romani fino a quando partoriva. L’usus iniziava con la fecondazione della
donna nuptia e si concludeva con il parto. La gravidanza per i romani dal punto di vista medico durava in
media 10 mesi che coincideva con la loro concezione di anno calendaristico. Proprio per questo diciamo che
l’usus era un rituale che coinvolgeva la donna e che si concludeva con il convenire in manus solo se le
condizioni e i presupposti non erano stati modificati, ad esempio se abortiva o se si