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INTRODUZIONE
Che cos’è il diritto? È un particolare insieme di regole di organizzazione della convivenza umana. In questo modo però
abbiamo solamente delimitato la domanda, non rispondendole direttamente. Questo perché, innanzi tutto, la conviven-
za umana è un qualcosa che cambia nel corso del tempo e per questo motivo non esiste un diritto vero e valido in ogni
luogo: il diritto cambia a seconda delle epoche storiche e di dove è localizzato. A tal punto, dopo aver individuato e
storicizzato il diritto nel contesto del nostro tempo e del nostro spazio, possiamo chiederci: cos’è il diritto per noi? Con
“noi” si intendono tutte le società che sono comprese nell’area della civiltà giuridica occidentale, in quanto queste
condividono, in prima approssimazione, una certa concezione del diritto. Per queste società il diritto è da sempre un
insieme di regole di organizzazione della convivenza distinto, e in questo senso particolare, da quelle della natura e
della morale (o religione) - che sono anche regole di convivenza. Questa distinzione (che si verifica solo in alcune civiltà)
è l’esito, la conclusione di un processo di differenziazione del diritto dalla religione e dalla morale cominciato nell’antica
Roma, riavviato da grandi giuristi all’epoca dei comuni italiani e ripreso definitivamente con la nascita degli Stati (XVI-
XVII secolo). Anche al giorno d’oggi però è possibile ritrovare situazioni in cui la religione è confusa con il diritto. Ad
esempio la Shariʿah, nei paesi islamici, si confonde con le regole giuridiche, infatti se un individuo la trasgredisse verrà
sanzionato da un’autorità pubblica, non religiosa (cosa che per noi è inconcepibile in quanto il peccato non è reato e
viceversa; i giudici non giudicano le persone per i loro peccati, ma per le loro azioni): la religione è confusa con il diritto.
La responsabilità religiosa - davanti a un Dio - o morale - davanti ai propri simili o a se stessi - non si confonde mai con
la responsabilità giuridica.
Nell’antico diritto naturale ogni cosa esistente (umana, ma anche animata e inanimata) era concepita come ten-
dente a conservare se stessa e volta verso il proprio bene specifico. Vi era una specie di destino che si si riteneva che
ciascun essere umano avesse. Nella nostra società non è più così poiché da un lato noi riteniamo di essere, almeno in
parte, artefici del nostro futuro e dall’altro presumiamo di dover rispondere di certe nostre azioni se sono qualificate
illecite (contrarie al diritto). Le leggi naturali si riferiscono a fenomeni che accadono regolarmente, che sono sempre
esistiti: la legge di gravità è sempre esistita, anche prima che Newton la scoprisse. Tutto ciò, però, non dipende da un
qualcosa che deve essere adempiuto, ma una regolarità, un accadimento, un fenomeno che si verifica costantemente a
certe condizioni. Prendendo una frase come “gli animali che vivono nel mare sono pesci” ci si riferisce ad accadimenti
regolari che comprendono delle eccezioni: nel mare ci sono anche mammiferi. A nessuno viene in mente che la regola
secondo cui nel mare ci sono i pesci è trasgredita dal fatto che nello stesso ci possono essere anche i mammiferi. La
regola non è trasgredita, bensì consta di un’eccezione che, in un certo senso, anch’essa si presenta come regolare: è un
fatto, cioè un qualcosa che rimane nella sfera dell’essere.
Le regole giuridiche non si traggono, invece, dalla regolarità dei comportamenti umani, ma consistono in un
dover essere che si suppone possa essere trasgredito. La trasgressione presuppone una regola, intesa come un qual-
cosa che deve essere (anche morale oltre che giuridico).
Le regole naturali, dunque, si distinguono dal dover essere. Prendendo ad esempio il caso dell’omicidio, questo è
la trasgressione della regola che impone di non uccidere che è comune al V Comandamento e al codice penale, es-
sendo qualificata come peccato, nel primo caso, e come, reato nel secondo. In ogni caso a nessuno verrebbe in mente
l’omicidio come eccezione a queste regole. Tutt’al più possiamo dire che di solito gli uomini non si uccidono fra loro,
ma queste sono tutte situazioni di fatto che non hanno nulla a che fare con la regola.
In modo più raffinato possiamo esprimere questa differenza tra essere e dover essere con quanto ci riporta Hans
KELSEN ne “La dottrina pura del diritto”. Il giurista ci fa il paragone tra l’ordine di consegnare una certa somma dato a
un bandito e lo stesso dato a un funzionario delle imposte. Il senso soggettivo è lo stesso. La differenza è che soltanto
l’ordine del funzionario corrisponde a una norma valida e vincolante il destinatario: l’atto del funzionario delle imposte è
autorizzato da una legge tributaria.
La sfera del dover essere ha a che vedere con un comportamento umano che deve essere, la sfera dell’essere con un
comportamento umano che è. Queste due sono collegate perché il comportamento umano, che deve essere conforme
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Appunti di Miele Pasquale Lezione 1
a una certa norma, può anche non esserlo. Quindi si apre un campo di possibilità tra essere e dover essere (ovvero la
trasgressione della norma implica che c’è anche la possibilità). Può avvenire perfino che una legge in vigore, adottata
secondo le procedure previste dall’ordinamento, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e perciò in grado di esplicare i suoi
effetti, sia disattesa in generale. È la massima contraddizione possibile tra legalità ed effettività. Questa distinzione non
toglie nulla, anzi conferma che c’è una distinzione tra essere e dover essere (e in questo caso fra regole giuridiche e
regole sociali). Allora possiamo dire che serve a dirci che cosa è utile, ad indicarci la funzione del diritto.
Una definizione della funzione del diritto la possiamo ricavare partendo dalla constatazione che le regole
giuridiche possono essere trasgredite. Se fossero trasgredite sempre il diritto sarebbe impossibile; se non lo fossero mai
sarebbe inutile. Herbert L. A. HART diceva che “gli uomini non sono demoni dominati dal desiderio di sterminarsi a
vicenda, ma se non sono demoni non sono neanche angeli; e il fatto che gli uomini siano una via di mezzo [fra questi
due estremi] è qualcosa che rende un sistema di reciproche astensioni [dalla violenza] tanto necessario quanto possibile.
Così come stanno le cose, l’altruismo umano ha una estensione limitata ed è discontinuo e le tendenze all’aggressione
sono sufficientemente frequenti per essere fatali alla vita sociale se non vengono controllate”. Quindi abbiamo una in-
dicazione più precisa [il diritto come una serie di reciproche astensioni] di quella che avevamo dato all’inizio [un partico-
lare insieme di regole di organizzazione della convivenza umana]. Questo particolare insieme ha anzitutto la funzione di
creare un sistema di reciproche astensioni dalla violenza attraverso un meccanismo coattivo-centralizzato che assicuri a
determinate autorità l’uso legale della forza (in linea generale allo Stato): è la c.d. coercitività del diritto.
Assai diversa è la distinzione tra regole morali (o religiose) e regole giuridiche. Ci sono molti punti di vista da cui si
può guardare la questione. Possiamo per esempio dire che l’origine delle prime è diversa da quella delle seconde. La
domanda “da dove viene il diritto” si pone nel momento il cui questo si differenziano morale e religione. Quindi una
volta che si comincia a scoprire, all’epoca dell’antica Roma, che il diritto è qualcosa di diverso soprattutto dalla reli-
gione, si scopre che è un prodotto della volontà umana. In altri termini, le fonti del diritto sono prodotte dagli uomini
(non da un dio o da una tradizione immemorabile).
A) Distinzione totale
Vediamo come dover essere morale e giuridico si differenziano. Prendendo ad esempio tre Comandamenti quali
“ama il prossimo tuo come te stesso”, “non desiderare la roba d’altri” e “non desiderare la donna d’altri”, possiamo
tranquillamente affermare che non hanno nulla a che fare con il diritto perché fanno riferimento all’animo, al desiderio,
all’interiorità di un individuo e manca in essi ogni dimensione di azione esterna (che è una caratteristica indefettibile del
diritto). In realtà, la sfera della coscienza individuale però può essere presa in considerazione dal diritto. È il caso dell’in-
cidente provocato da un’autovettura e bisogna capire se c’è stato un intento, una volontà (dolo) di provocare lo stesso.
In questa ipotesi è chiaro che l’azione umana è vista anche nella sfera interiore di chi l’ha compiuta, ma quella che si
giudica è soprattutto l’azione (non l’individuo in quanto tale).
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B) Distinzione parziale: contenuto e sanzione
Prendendo in considerazione altri e due Comandamenti come “non rubare” e “non uccidere” il discorso cambia,
poiché questi corrispondono al divieto di furto e di omicidio descritti dai codici penali di tutto il mondo. In questa cir-
costanza la vicinanza dipende dal fatto che i comandamenti si riferiscono a comportamenti che hanno rilevanza esterna
come il diritto. A ben vedere, però, neanche in questo caso c’è piena coincidenza. Dall’art. 624 c.p., intitolato “furto”,
notiamo che:
1. il furto è vietato, e questo è comune con il comandamento.
2. il comportamento qualificato come furto è molto più preciso dell’atto generico del rubare: riguarda l’imposse-
ssamento di una cosa mobile altrui che viene così sottratta a chi la detiene con il fine di trarne profitto per se
o per altri (è la c.d. fattispecie giuridica, ovvero un comportamento che si può produrre nella sfera del-
l’essere e che viene qualificato giuridicamente attraverso una certa regola, un certo dover essere). Questo
perché se ci fosse soltanto “non rubare” questo comporterebbe per le autorità pubbliche un eccesso di lib-
ertà nel giudicare i comportamenti. C’è bisogno di limitare questa libertà (che in questo caso si chiama meglio
discrezionalità del giudice) e prima ancora dell’eventuale autorità di pubblica sicurezza che abbia colto la per-
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Appunti di Miele Pasquale Lezione 1
sona in fragrante all’atto di rubare. In sintesi ci sono una serie di prescrizioni che servono a delimitare l’area
della discrezionalità per evitare che l’autorità possa fare quello che vuole.
3. la fattispecie giuridica furto viene punita con una sanzi