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Estratto del documento

Pytazius). Non considerandone la forza e la nobiltà, Alfonso gli propose di aver salva la vita, nel

caso in cui avesse accettato il battesimo e sua figlia per moglie; in principio l’uomo accettò, ma nel

momento in cui stava per ricevere il sacramento si pentì e sputò nella conca.

Alfonso fu turbato nel vedere ciò, mise mano alla spada e separò la testa dal busto del Moro, per poi

dare il corpo ai cani.

Picasso aveva per madre una regina, conosciuta come la Ricciaferra, e per padre Salim, Re di

Trebesten. (la madre si chiamava dana Fatima, moglie di Abu ‘l-Hasan, decimo della stirpe dei

Merinidi di Fez, salito al trono nel 1331, conobbe il suo apice con la presa di Gibilterra nel 1333,

ma vide anche la caduta della sua dinastia con la sconfitta del Rio Salado, fino alla morte,

avvenuta nel 1352. Era re di Trebesten, ovvero Tremecen, nell’Algeria occidentale).

Ricciaferra venendo a sapere della morte del suo bel figlio per mano di Alfonso decise di scontrarsi

con i Cristiani, ma sapendo che sarebbe stata una grossa impresa, chiese al loro Papa, Galiffa di

Baldali, sultano di Babilonia, che comandasse a tutta la Saracinia (Partia, Media e Turchia) di

prendere una grande armata e di muovere verso i luoghi Cristiani, per occupare e destituire le chiese

di Cristo per erigere tempi a Maometto.

Così fu fatto e per tutto il territorio Musulmano viaggiarono gli Alfaquecqui, ovvero preti, portando

lettere con l’ordine da parte del loro Papa Galiffa di muovere contro i Cristiani. Furono più di

quattrocento mila persone a partire, armate di mazze e fionde; Persiani, Arabi, Saracini Neri, Parti e

Dulciani.

Questi combattevano sotto quattro stendardi, il Re del Garbo, il Re del Marocco, il Re di

Bellamarina, o di Trebesten, e il Re di Granada. Quest’ultimo non partì con i Saracini, dal momento

che il suo regno è in Spagna, ma sentendo la notizia del loro attacco decise di ribellarsi e di fare

guerra alla Spagna.

Partirono e giunsero sulla terra ferma, viaggiando per sei giorni alla fine si stabilirono in un campo,

detto Cornacervina, ricco di erba e di acqua per via di un fiume chiamato Rigo Salato, con armi,

donne e schiavi, suonando i loro tamburi. Il fiume divideva Tarifa (provincia di Cadice, dove

vennero sconfitti i Saraceni per opera di Alfonso XI nel 1340), dove era il loro campo, da Siviglia;

questi non potevano giungere presso Cornacervina per via di una valle che è accanto alla costa e

perché all’entrata del paese si era piazzato un grande e potente barone, ovvero Don Giovanni

Manuel (don Juan Manuel, il quale aveva scontri con il re perché questo per sposare Maria di 13

Portogallo aveva ripudiato sua figlia), una delle più potenti colonne di Spagna. Questo era in lite

con il re Alfonso, perché non voleva stare con la moglie ma con una bagascia, Leonora (Donna

Leonor de Guzmàn); i Saracini gli diedero grandi somme di denaro per concedere loro il passaggio

della montagna che era sotto la sua protezione, e Giovanni accettò; così i Saracini poterono

accamparsi presso Cornacervina.

Lo stanziamento durò tre mesi e Tarifa sarebbe stata ben presto perduta se non la si sarebbe

soccorsa.

Quando Re Alfonso seppe dell’assedio si sbrigò a rinforzare Siviglia, dal momento che si pensa

essere il luogo di nascita di Santa Maria; chiese aiuto al Papa e spedì richieste di alleanza a tutti i re

che circondavano il suo regno, ovvero allo zio, Don Dionisi di Lisbona, re del Portogallo, al Re di

Navarra e a quello di Aragona. A Don Giovanni disse di rimanere dove era, stando attento al

passaggio dei nemici. (di questi soltanto Alfonso IV di Portogallo, non zio ma suocero, partecipò di

persona allo scontro del Rio Salado).

I Re non risposero all’invocazione di Re Alfonso, ma cominciarono direttamente a cavalcare con i

loro cavalieri; il primo aiuto a giungere fu quello del Papa Benedetto, 700 cavalieri tra Tedeschi e

Franceschi armati e con grossi cavalli. Il secondo fu quello del Re di Navarra con cavalieri di

Pamplona, cinquemila cavalieri con bellissimi elmi, con una targia in braccio, una guisarina a lato e

una zagaglia (lancia) in mano, e con ventimila pedoni; il terzo fu quello del Re di Aragona, con

cinquemila cavalieri tra Provenzali e Francesi, alcuni provenienti anche da Tolosa, e ventimila

pedoni. Ci fu anche lo zio Dionisi con quelli della città di Lisbona e infine l’aiuto del Re di

Portogallo con quindicimila cavalieri spagnoli, con cavallo e dardi in mano. Il quinto aiuto

provenne invece dal re Alfonzo, re di Castiglia, con trentamila cavalieri, su cavalli buoni

provenienti da Castiglia (i migliori) e pedoni a non finire.

Mentre avveniva l’assedio a Tarifa, il re Alfonso era a Siviglia con il suo seguito; ma la fame era

molta e i prezzi alti, e le persone che avevano seguito il re non avevano abbastanza denaro. Ci si

cominciava a lamentare del ritardo; così Alfonso, parlando con i suoi baroni, decise di andare da

solo verso un’avventura.

Con qualche cavaliere e pochi pedoni si ritrovò separato dai Saraceni solo dal fiume che viene

chiamato Salato; decise quindi di seguire quella strada, mandando avanti i 700 cavalieri papali

crociati. Quattrocento avrebbero dovuto combattere con le guardie, mentre trecento dovevano

mettersi dal lato della corrente, per cercare di far passare i pedoni; non era un’impresa facile, e

venne affidata a cavalieri eletti. A questi fu dato uno stendardo con il campo bianco e la croce

vermiglia, sotto la quale vi era un crocefisso; i 700 dovevano andare avanti, mentre subito dopo vi

era il re sul suo cavallo, di cui dicevano essere il migliore del mondo, e i suoi cavalieri, che, appena

rotto il guado, si sarebbero scagliati per primi alla battaglia. Sarebbero stati protetti alle spalle dai

Portoghesi, mentre gli altri avrebbero chiuso tutte le vie di fuga; venne mandata una lettera a Roma,

a Stefano della Colonna, che apprese la notizia con dispiacere.

Il segnale fu dato, ma i primi tre cavalieri, un arcivescovo e due cavalieri dagli speroni d’oro,

appartenenti all’esercito del re Alfonso, non fecero in tempo a guadare il fiume che venne loro

staccata la testa dal busto; per il resto della battaglia, i Saraceni non erano molti, e subito ripresero

le armi e cominciarono a combattere, mentre si udiva il suono dei tamburi. L’Anonimo chiede anche

a due pellegrini spagnoli se avessero sentito di questa battaglia, i due si tolsero i cappelli e gli

mostrarono i segni che avevano sulla fronte, due grandi e tondi segni di pietra, le frecce del fiume.

La battaglia andò avanti, fino a quando i Saraceni non sentirono Gianni Manuello che scendeva

dalla montagna, al che provarono a fuggire; quel giorno vennero uccisi 60 mila Saraceni, e fatti

prigionieri 40 mila.

A questi avvenimenti il re non fu presente né li sentì per via dell’esitazione di uno dei suoi. La 14

notizia del combattimento arrivò alla guardia che proteggeva la porta reale, Serafino. Questo, a cui

era affidata la protezione del Re, non sapeva se comunicargli o meno la brutta notizia, ma decise

comunque di dirla alla Regina Ricciaferra. Lei la comunicò al marito e questo, ben vestito, senza

ulteriori indugi si mosse verso la casa sua.

Attorniato da 7000 Turchi, preceduti dai cembali e dai suoi missi che scagliavano frecce in

continuazione, il re cercava di scappare. La fuga durò sei giorni, e dietro di sé lasciava morti, e la

sua stessa regina.

Ricciaferra, per la partenza del marito, fece stendere per tutta la città dei panni bianchi su cui fece

mettere tutti i gioielli reali, presso cui sedeva con le sue 50 cortigiane, che erano anche le concubine

del re.

Arcilasso, un cavaliere spagnolo, giunse presso il padiglione reale ed entrò; vide la Regina seduta

con tristezza, che comunicava dignità nel solo stare seduta, e la trapassò con una lancia, per poi

girarsi e riprendere la strage nel villaggio. Dopo poco arrivò anche re Alfonso, il quale entrò nel

padiglione e vide la strage. Tra le donne che piangevano la morte della Regina vi era anche una

cristiana, Maria, cresciuta presso una villa di nome Obeda e che era stata fatta schiava, ma per via

dei suoi costumi e di come parlava era diventata concubina del re. Questa chiese ad Alfonso pietà e

gli comunicò che a uccidere Ricciaferra era stato Arcilasso. Il re si dispiacque di questa notizia, fece

onore alla salma della regina e la fece porre, per dignità, in un’altra torre; in seguito la vendette al

Re che era fuggito per molto denaro. Maria, la guardina della Regina, venne liberata.

La fuga dei Saracini si interruppe con l’arrivo a Zizziria, una città cristiana in cui la gente si era data

al saccheggio; vennero uccisi lì 60 mila Saracini e le loro ossa furono ammucchiate in una grande

montagna che, dice l’Anonimo, dura ancora fino ai suoi giorni, tanto che quando vi vanno coloro

che arano i campi, trovano solo gambe, braccia e teste. Spesso coloro che stavano morendo, tra i

Mori, si mettevano in bocca delle monete d’oro; per questi campi, quindi, si poteva vedere lo

sbrilluccichio e molti si fermavano percuotendo le ossa altrui per rubare l’oro.

Alcuni vennero uccisi, mentre altri cominciarono a servire i padroni cristiani, altri vennero venduti

come delle capre, con una corona in testa; dalla loro sconfitta tutti ci guadagnarono molto e lo

stesso padiglione regale venne riempito con tutto quello che era possibile, come il corpo della

regina Ricciaferra, per cui il marito molto aveva pagato.

Del resto, vi venne ritrovata anche la lettera del Papa dei Mori, il sultano Galiffa de Baldali, il quale

prometteva a chi moriva in quel passo la resurrezione in tre giorni, 7 mogli vergini in Paradiso, di

farli accogliere da Maometto e san Elinason, di regalare loro recipienti di latte e formaggio, pasta di

grano duro (lagane n. t.) e altre cose; infine, comandava loro di sterminare la Cristianità e di

invadere il mondo.

Il Re mandò un decimo di tutto quel tesoro a Papa Benetto ad Avignone, come anche il vessillo

sotto cui aveva conquistato la vittoria e il suo cavallo; quest’ultimo in seguito venne regalato da

Papa Clemente V (Chimento n. t.), il successore di Papa Benetto, a Filippo di Valois, Re di Francia,

per il molto bene che gli volle.

L’Anonima afferma anche di aver visto con i suoi occhi parte di quel grandissimo tesoro; egli si

trovava dove giunse un uomo che cercava candele, confetti e spezie. Questo aveva con sé una spada

bellissima che non aveva intenzione di vendere se non a un prezzo altissimo, proprio perché era una

di quelle guadagnate combattendo nello scontro tra il Re di Bellamarina e il Re di Castiglia.

Nonostante la vittoria e il gran tesoro, continua l’Anonimo, il Re continuò la sua Crociata contro i

Mori, con al seguito molti cavalieri, e assediò una delle città della Turchia e della Saracinia, che più

di tutte era conosciuta per la qualit&a

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A.A. 2017-2018
41 pagine
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SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/13 Filologia della letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Muriko95 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Filologia II e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Roma La Sapienza o del prof Campanelli Maurizio.