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IL DIBATTITO SUL RISORGIMENTO

La discussione sul Risorgimento fa parte del “Risorgimento” stesso.

Le discussioni iniziarono immediatamente dopo l’unificazione italiana del 1861.

Iniziò il Mazzini che riconobbe solo l’unificazione territoriale dell’Italia ma non quella

politica ed etico-religiosa. Per lui il Risorgimento era stata una conquista di uno

Stato (Regno di Sardegna o Sabaudo) nei confronti di un altro Stato ( o più

correttamente più Stati considerato la divisione in tanti Staterelli dell’Italia di allora).

Per Mazzini a seguito del Risorgimento nessuna “nazione” era rinata ma tutto

restava come prima.

Partendo da queste tesi ipercritiche del Mazzini, si dipanò una discussione sul

Risorgimento che ha raggiunto i nostri ultimi anni, come vedremo successivamente.

Già nel 1892 Alfredo Oriani diede alla stampe un libro “La lotta politica in Italia”

dove sottolineava che la centralità della monarchia sabauda nel Risorgimento

italiano fu dovuto alla mancanza di rivoluzione della nazione, del popolo italiano.

Niente da paragonare con le rivoluzioni popolari francese, inglese, americana,

olandese ma la conquista di un territorio da parte di un piccolo Stato (regno di

Sardegna) che prese le sembianze di conquistatore, di usurpatore.

Quindi Oriani individua questa “rivoluzione mancata” come peccato originale della

fondazione dello Stato italiano e che l’Italia necessitava di una “vera rivoluzione” di

popolo per sanare questo vizio d’origine.

Queste tesi vennero riprese da Gobetti, Gramsci, Mussolini che auspicavano una

“vera rivoluzione” di popolo, naturalmente ognuno col proprio punto di vista.

Per Piero Gobetti (1901-1926) la storia italiana aveva sofferto della mancata riforma

protestante che negli altri Stati aveva contribuito a far maturare idee politiche

proprie di una nazione. Lo stesso Risorgimento era stato per Gobetti una rivoluzione

fallita perché opera di pochi e dalla quale il popolo italiano era rimasto estraneo.

L’assenza del popolo a questa costruzione dell’unità italiana contribuì alla mancanza

di una coscienza dello “Stato” degli italiani.

Questo vizio originale per Gobetti ebbe conseguenze nella vita politica degli anni

successivi, infatti mancò in Italia una lotta politica aperta, una discussione profonda

sugli ideali, su programmi e sulle proposte per affrontare i problemi del Paese.

Questa situazione aveva fatto nascere “Il trasformismo”, cioè il cambio repentino di

idee e posizioni dei vari uomini politici (De Pretis, Giolitti, Turati), facilitando il

compromesso, il conformismo, la corruzione, gli accordi sottobanco, ecc., vizi

ancora in auge di questi tempi.

Gobetti che scrive durante il periodo fascista (e quindi in quel contesto storico)

riconosce a quest’ultimo il merito di aver affrontato “il problema dell’esegesi del

Risorgimento” (cioè, dell’interpretazione critica del Risorgimento). Per Gobetti

l’equivoco suddetto, che sta a monte della nascita del Risorgimento , aveva dato

origine ai mali ed ai vizi italiani: retorica, cortigianeria, demagogismo, trasformismo,

ed il fascismo era erede di questa Italia. Gobetti chiamava alla lotta contro il

fascismo perché questi in continuità con il Risorgimento , rappresentava una Italia

conformistica, corrotta,dedita al compromesso senza idealità e coraggio.

Antonio Gramsci (1891-1937) offre una lettura marxista del Risorgimento. Le sue

tesi furono elaborate durante la sua permanenza in carcere sotto il fascismo.

Secondo Gramsci il Risorgimento italiano doveva essere considerato all’interno dei

movimenti politici e sociali dell’Europa, a cominciare dalla rivoluzione Francese, che

ispirarono gli italiani a conquistare l’unità nazionale.

Per Gramsci, però, questo processo risorgimentale fu guidato dalle forze moderate

anziché quelle democratiche (socialiste). I moderati rappresentavano la classe

borghese che era molto più coesa dei democratici che non avevano un ceto sociale

di riferimento. Questo causò a suo dire l’”egemonia” dei moderati sui democratici.

Per “egemonia”, Gramsci intendeva la capacità di una classe di indirizzare

intellettualmente e moralmente la popolazione. Conquistando “l’egemonia”, una

classe legittima il proprio ruolo di direzione di una società-

Per “dominio”, Gramsci intendeva l’uso della forza e dell’oppressione.

Il giudizio di Gramsci sull’azione dei “moderati” durante il Risorgimento, è di due

tempi:

-positivo all’inizio per il raggiungimento e la conquista dell’indipendenza grazie

anche al ruolo di egemonia svolto nella società;

-negativo negli anni successivi all’unificazione. perché i moderati imposero i loro

interessi di classe agli interessi generali.

Si passò, quindi, dall’egemonia al dominio.

Per Gramsci i democratici avrebbero dovuto creare loro un grande movimento di

popolo e questo si sarebbe ottenuto se avessero proposto insieme all’unificazione

anche una grande riforma agraria ( cioè la ridistribuzione della terra). Siccome i

democratici non misero al centro dell’impegno risorgimentale una riforma agraria, il

popolo non partecipò al Risorgimento.

Quest’ultima tesi è stata confutata (contrastata) dallo storico Rosario Romeo,

secondo il quale la rivoluzione agraria non era né possibile né auspicabile.

Nel tempo il dibattito sul Risorgimento è stato sempre vivo ed acceso di polemiche.

Ultimamente e precisamente in occasione di una Mostra sul Risorgimento dell’anno

2000 al meeting dell’associazione cattolica “Comunione e Liberazione” a Rimini è

scoppiata la polemica perché questa associazione giudicò molto severamente i

protagonisti del Risorgimento (Cavour, Mazzini, Garibaldi) e sostenne la necessità di

riscrivere la storia del Risorgimento perché l’obiettivo finale dello stesso e dei suoi

protagonisti, fu quello di distruggere la Chiesa cattolica, anche al costo di una guerra

civile tra la popolazione italiana.

Naturalmente la polemica storico-politica fu notevole e le reazioni di esponenti laici,

come quella di Alessandro Galante Garrone, non si fecero attendere, difendendo le

ragioni “civili” del Risorgimento.

Il dibattito sul Risorgimento si infiammò ancora una volta nel 2011 in occasione del

150 anno dell’unificazione.

Da un lato i sostenitori della tesi che il Sud che stava bene economicamente e

socialmente, fu conquistato e depredato dal Nord e, all’inverso, i commentatori del

Nord che rinfacciano al sud i tanti sperperi di denaro pubblico dall’unificazione ad

oggi.

La domanda di fondo resta sempre la stessa “chi ha guadagnato e chi ha perso

dall’unione tra nord e sud del Paese?”

La storia, come si sa, non si fa con i “se” e con i “ma”. La storia si fonda su dati certi,

documenti e fatti accaduti, e sul vaglio delle opposte interpretazioni dello stesso

episodio, per consentire di arrivare ad una verità storica che non è mai definitiva e

dev’essere sempre illuminata dal dubbio.

Così mentre l’autore Pino Aprile nei suoi “Terroni” argomenta ed esalta la situazione

sociale, economica, demografica e politica del Sud all’epoca dei Borboni, altri autori

Pasquale Villari ,Francesco Saverio Nitti , Giustino Fortunato , come indicato nella

raccolta di Emilio Gentile “Italiani senza padri”, descrivono un sud in condizioni

terribili da ogni punto di vista, sotto i Borboni.

Anche Ernesto Galli della Loggia, scrittore e giornalista analizza questa polemica e

trova la soluzione nella debolezza dell’identità italiana (rispetto alla francese o

americana) e questa debolezza va ricercata nella “debolezza dello Stato” che non è

efficiente nei servizi, nelle strutture amministrative, nel rispetto della legge,

nell’esaltazione dei valori patriottici, ecc. ,da qui un mancato riconoscimento

nell’Italia da parte degli italiani. Un’Italia che non ha ancora superato le divisioni del

passato che le trascina nel presente e che non riesce a formare un’unica identità

nazionale, un unico sentire comune.

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Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-STO/02 Storia moderna

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