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AQUILEIA
Le più antiche attestazioni di presenza toscana in Friuli risalgono al XIII secolo, ma almeno inizialmente non si può parlare di una presenza inserita nel tessuto sociale friulano, ma di un rapporto che intercorre tra i patriarchi della chiesa aquileiese e i rappresentanti di compagnie mercantili e finanziarie toscane. Non è un fatto casuale che questo accada proprio in un momento cruciale e determinante per lo stato patriarchino.
Il patriarca Bertoldo di Andechs aveva mirato a rafforzare la capacità di autonomia politica del patriarcato per poter creare un principato territoriale, che trovasse in esso le ragioni della sua esistenza. In questa prospettiva si scindono i legami di tipo feudale che legano Aquileia agli imperatori tedeschi; un distacco che sarà evidente soprattutto dopo il CONCILIO DI LIONE. Fu convocato da papa Innocenzo IV il 24 giugno del 1245 a Lione. Si discusse principalmente su:
- Corruzione della fede e dei costumi
- Mancato
recupero della Terra Santa;⇒ Scisma della chiesa orientale;⇒ Pericolo dei Tartari;⇒ Contrasti con Federico II⇒In ogni caso, il consolidamento del potere ecclesiastico richiese grandi sforzi, sia a causa di spinte esterne delle signorie che tentavano di restringere i territori del Patriarcato, sia da spinte interne di coloro che, in un alternarsi di conflittualità e di solidarietà, volevano conquistare un potere di carattere individuale. Fattore imprescindibile era senza dubbio la disponibilità di risorse finanziarie, la cui effettiva consistenza determinava o meno la riuscita di tale scopo. Proprio per poterne disporre, il patriarca poteva fare ricorso ad un insieme di redditi consistenti, ma in realtà più ridotti e difficilmente spostabili nel tempo.
Innanzitutto, al fisco del patriarcato competevano:
- I proventi che venivano attribuiti per l'esercizio della sovranità sul territorio;
- Gli introiti che derivavano
dall'esercizio della giustizia;
Quelli che derivavano dal transito su strade e vie d'acqua;
Quelli dallo sfruttamento delle acque;
Dallo sfruttamento di boschi e miniere demaniali;
Dalla coniazione della moneta;
Dai diritti di mercato e dogana.
In casi eccezionali, si poteva ricorrere anche alle imposte dirette, anche se questo genere di provvedimenti doveva essere approvato dal consilium del principe. La parte maggiore, grazie alla quale il patriarca poteva riscuotere ingenti introiti era quella dei beni patrimoniali, costituita dai redditi che egli riceveva dai benifondiari, insediati in tutto il territorio. Ci furono però alcuni motivi che indussero invece il patriarca a ricorrere al mezzo del PRESTITO:
La complessità del procedimento di esazione di tali contributi;
Le difficoltà di trasformare le rendite in natura in denaro contante;
L'incidenza di spese che di gran lunga incidevano
Pesantemente suiÙ normali ritmi di accantonamento. Questo fu un episodio, che da fatto casuale, divenne una vera e propria pratica finanziaria alla metà del XIII secolo, che consentì in una certa maniera di superare la scarsa disponibilità del bilancio ordinario e che riuscì a dare spazio a delle spese di carattere piuttosto “eccezionale”. Logicamente, il patriarca doveva lasciare nelle mani dei prestatori dei pegni di valore adeguato alle somme che essi glielargivano. La necessità ingente di riscattare questi beni spingeva poi lo stesso patriarca ad accendere nuovi mutui con altri creditori; questo era un chiaro segno della difficoltà economica che impediva ai patriarchi una normale gestione finanziaria. Per accendere i mutui, i patriarchi dovevano rivolgersi a dei banchieri, che avevano a disposizione vasti giri d’affari e potevano permettersi di sostenere degli scoperti. La regione friulana era priva di questo genere di figure.
perché:La ricchezza era connessa al possesso di beni fondiari;Non si trovano testimonianze di società commerciali e finanziarie;
il patriarca Bertoldo e il suo successore Gregorio di Montelongo si rivolsero quindia uomini di affari esterni al patriarcato, come bolognesi, trevigiani, veneziani. Tranne che con i veneziani, con gli altri il rapporto era occasionale e il più delle volte scarsamente vantaggioso. Il 31 maggio del 1249, il patriarca Bertoldo ottenne un prestito di 100 marche dalla compagnia senese dei Piccolomini, che aveva a Venezia una delle sue filiali. Il mutuo era accordato dal direttore della banca con i suoi responsabili: Rianerio Rustichino;
Rainerio Turchio;
Gabriele e Giovanni mercanti senesi;
Per la durata di un anno. Il prestito era garantito dalla possibilità per i senesi, di riscuotere i dazi che si pagavano a Cividale per la durata di tre anni, periodo grazie al quale essi avrebberopotuto recuperare la somma interamente. Il vantaggio per il patriarca, però, era quello di poter disporre dei contanti necessari immediatamente e dilazionare poi il rimborso del mutuo. Chiaramente erano poche le società in grado di mettere in funzione questo tipo di meccanismo e correre certi rischi. La compagnia dei Piccolomini e la compagnia dei Bonsignori erano strettamente legate alla Camera apostolica, per la quale:
- Curavano la riscossione delle tasse papali;
- Fornivano anticipi su tali somme;
- Concedevano prestiti veri e propri.
L'ingresso nel Patriarcato di Aquileia di uomini d'affari toscani, che vedevano in questo contesto la possibilità di trarre le maggiori opportunità offerte dal territorio.
Con la morte di Federico II nel 1250, non si chiusero i conflitto con la Chiesa; anzi si assiste alla crescita dello sforzo politico, militare e finanziario della Santa Sede, che cercava di imporre sul trono dell'Italia meridionale candidati che Le fossero fedeli.
Un ruolo di rilievo in questo senso fu giocato dal Patriarcato di Aquileia, che alla morte di Bertoldo, assegnò il governo a Gregorio di Montelongo, un prelato di fedeltà comprovata che a lungo si era scontrato con le forze imperiali.
Alla sua presa di possesso del Patriarcato, egli aveva constatato la situazione finanziaria della Chiesa, pressata dalle guerre, gravata dai debiti del predecessore e penalizzata dalla crisi economica e demografica. A sua volta era stato costretto a farsi prestare dalla compagnia di BONIFACIO BONSIGNORI.
Unasomma ingente, le cui modalità non ci sono note. Per trovare poi aiuto a far fronte a questi debiti chiese aiuto a:
- Ottaviano degli Ubaldini, che non diede nessun aiuto concreto;
- Collegio Cardinalizio, affinché ottenesse dal Pontefice un appoggio in suo favore.
Il papa infatti aveva ascoltato le ragioni dei suoi creditori e le aveva sostenute; perché portava avanti la linea di rassicurare i creditori sulla assoluzione del debito da parte dei prelati. Chiaramente questo accadeva per fare in modo che i creditori continuassero ad erogare il denaro, di cui la Chiesa e i prelati avevano bisogno.
Era necessario trovare un sistema per tacitare i creditori e l'unica via che Montelongo poté percorrere fu ben precisa: nell'impossibilità momentanea di assolvere il suo debito con denaro, egli fu costretto a lasciare nelle mani dei Bonsignori i proventi della chiesa aquileiese. Il provvedimento fu chiaramente di una estrema gravità.
Gregorio di
Montelongo con due provvedimenti del 1253, concesse in appalto alla società di mercanti rappresentata da Rainaldo Rainaldi e Rainero Rustichini gli introiti delle mude vecchie di Chiusa e di Tolmezzo. In una situazione di criticità finanziaria, il patriarca trovò opportuno:
- Inasprire le gabelle;
- Assoggettare ad esse merci che fino a quel momento ne erano state escluse.
Nel patto, che fu stipulato, si contemplavano delle clausole di garanzia per i mutuanti, ai quali il patriarca si obbligava a risarcire i danni patiti nel caso in cui:
- Guerre o disordini impedissero il transito libero sulle strade;
- Le gabelle venissero tolte o diminuite e gli appaltatori non riuscissero a ricavare la somma già anticipata al presule.
Il secondo momento sfavorevole si individua e si verifica in conseguenza del rinnovo dei patti con la Repubblica di Venezia, in cui il Patriarca promise di togliere i dazi imposti su:
- Sale;
- Ferro;
- Pegola;
- Altre.
mercanzie.⇒Questi patti furono al centro di una complessa trattativa, che venne chiusa solo nel 1254, quando ormai la convenzione stipulata con i senesi era già scaduta.
Naturalmente, l'obiettivo dei veneziani era impedire ogni possibile aumento dei dazi sulle merci che si esportavano verso il Friuli o che arrivavano a Venezia, dopo essere passate per quel territorio. In ogni caso, il patriarca non si appoggiò maicompletamente ai banchieri senesi, al contrario del papa, ma cercò invece, di giostrarsi tra veneziani e senesi con l'evidente fine di trarre i vantaggi maggiori in una situazione critica.
Per qualche anno dopo queste vicende non abbiamo più notizie e riscontri nei documenti di pratiche di appalto o concessioni dei prestiti; sebbene sia attestata la presenza e l'attività negoziale dei senesi sul territorio friulano. Sappiamo però che nel 1262 si venne a creare un punto di rottura tra i maggiori enti senesi e i componenti
delle famiglie più ricche di Siena lasciarono la città, assolutamente esenti da eventuali sanzioni. Tra questi ricordiamo in particolare: Rainero e Gabriele Rustichino;
I membri della compagnia Bonsignori
Che erano tutti creditori del patriarca di Aquileia. Il decreto che liberava i debitori sembra essere stato creato apposta per dare respiro alle ormai inesistenti finanze patriarcali, sempre limitate dalla carenza di mezzi finanziari e dalle ingenti spese militari. Dalla vicenda si comprende che le resistenze del patriarca di Aquileia fossero strumentali e non intaccassero i rapporti con i mercanti senesi, il cui lavoro era indispensabile.