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Emerge il principio utilitarista. Nel discorso dello stolto il discorso è usato per conseguenze sociali, per
argomentare contro il fondamento dell’obbligo di osservanza dei patti che sta alla base del concetto di
giustizia.
Il ragionamento dello stolto non è il ragionamento di uno sciocco, lo stolto è uno che ragiona secondo il
pensiero di Hobbes ma arrivando a conseguenze sbagliate. Sporge spontanea la domanda: se l’inosservanza
del patto non procura danno poiché devo osservarlo? Poiché non si deve fare l’utile immediato.
Una società ben ordinata è quella ove i fessi prevalgono sugli stolti. Il fesso è colui che obbedisce anche
quando l’inadempienza non gli procurerebbe alcun danno. Se il numero degli stolti supera quello dei fessi
allora la società non funziona più. Stolto è colui che si rende conto che l’obbedienza spontanea è alla base
della società.
È un carattere soggettivo che non si giustifica per essere respinto solo sulla base di un ragionamento
strettamente utilitaristico.
Il problema dell’osservanza del precetto senza la possibilità della sanzione. Una norma che corrisponde ai
criteri di giustizia può non avere concretamente delle sanzioni.
In molti casi limite è facile constatare che seguire pedissequamente il comando del potere vigente può
portare ad un danno troppo grande. Un potere vigente che prescriva comportamenti riprovevoli o contrari al
proprio interessese deve essere ubbidito se si può essere sicuri che l’inobbedienza potrà essere sanzionata? Si
certo, se uno crede in Dio o ha una motivazione che lo riporti ad un orizzonte di credenza che fa riferimento
ad un potere che è tale poiché in grado di far arrivare l’effettiva sanzione dell’inosservanza; allora può essere
indotto a seguire il precetto di salvezza. Ma se questo timore di Dio non c’è perché ubbidire? Si deve
obbedire ad un Dio che è lo stato, non serve una divinità ma basta la credenza dell’esistenza di un’entità
superiore che può punire.
Giustizia come osservanza del potere comune. Se il potere stesso è ingiusto cosa si fa? Questo è alla base del
ragionamento con cui si è cercato di giustificare il potere acquisito con la scelleratezza. Ovvero del potere
acquisito senza alcun vincolo ( Macchiavelli).
Tale allusione è molto significativa, il ragionamento di Macchiavelli è un ragionamento che prescinde dal
riferimento ad ogni discorso morale.
Macchiavelli vuole indicare il modo con cui il principe può acquisire, osservare e accrescere il proprio
potere.
Hobbes vuole spiegare perché dei singoli individui, sottoposti ad un potere comune, lo arrivino a riconoscere
come vincolante per loro ubbidienza arrivando a conseguire che il bene è fondamentale per la propria pace.
Si tratta di come sentirsi obbligati ed obbedienti al potere e non come acquisirlo (simil Macchiavelli).
La logica che obbliga a seguire il potere vigente pone fuori questione la domanda sulla giustizia del potere
vigente. Il potere vigente deve essere considerato di per sé sempre vincolante. La distinzione fra giusto e
ingiusto dipende dalla statuizione di chi detiene il potere. Se si pensa che il potere del sovrano sia ingiusto
allora si sta ragionando come lo stolto.
Il ragionamento di Hobbes è una coazione logica: tutto si basa sulla presenza di Dio e su una premessa che è
anche la conseguenza del ragionamento.
La problematicità del pensiero di Hobbes è sito nel passaggio da una dimensione in cui il ragionamento è
riferito al singolo che ricerca l’affermazione del proprio interesse ad una condizione in cui il ragionamento è
riferito al singolo in quanto compreso come singolo in un rapporto di vincolo politico e sociale.
C’è uno snodo complesso, un salto, proprio per questo in Hobbes scatta il riferimento teologico, in Hobbes
Dio funziona come una plausibile via di fuga emotiva riferita al sentimento della fede quando l’argomento
razionale non riesce più a risolvere il problema.
Lo stolto è il passaggio per cui un ateo abbia bisogno di far riferimento ad un Dio, che può anche non
esistere. Dio è l’estremo garante della coesione sociale. Poiché lo stato funzioni e abbia la massima vitalità i
sudditi debbono credere in Dio. La fede in Dio deve esserci altrimenti non si risolve il problema.
Questo modo di pensare non è così estraneo, la storia della società moderna ha spesso ripercorso questa
strada, quando c’era la Democrazia Cristiana a ben guardare c’erano correnti al suo interno che avevano
caratteri molto simili a questa funzione, esponenti della DC si potevano definire laici ma avevano bisogno
dell’etichetta della DC poiché la fede era un essenziale vincolo religioso che serviva per tenere in piedi la
società politica. La storia successiva parlerà degli atei devoti. È necessario difendere il vincolo sociale che ne
deriva nella fede nella verità al riferimento fondamentale di questo sentimento che è Dio.
24/4/2018
Hobbes parla di ragione nel Leviatano e nel “De corpore”. Nel primo testo Hobbes caratterizza la ragione
come facoltà del calcolo: l’uomo utilizza la ragione come “recogning” ovvero come “fare i calcoli”.
Ragione come “facoltà del calcolo” fa riferimento al calcolo dell’utilità, è in qualche modo costruita su un
modello di tipo matematico e applica il modello matematico al calcolo di grandezze riferite all’utilità.
Hobbes usa tale definizione poiché gli permette di parlare della ragione indipendentemente dal riferimento a
Dio. Gli permette di parlare di ragione con riferimento alla sola attività dell’individuo singolo senza porre il
singolo in un contesto complessivo come potrebbe essere il riferimento a Dio. Egli rivendica alla ragione la
condizione di esattezza. Il calcolo della ragione (che è precisa; 2+2=4 sempre) applicato alla realtà permette
all’uomo di arrivare a delle verità certe. La ragione permette di arrivare a valori universali, questo permette
di arrivare ad un concetto di verità superiore alla semplice esperienza. L’esperienza non è universalizzabile
poiché non permette di affermare che quanto accaduto potrà essere vero in ogni caso e circostanza.
Hobbes quando parla di ragione in questi termini dice che la ragione non è innata poiché se lo dicesse
dovrebbe dire che la ragione è naturale poiché ce l’ha messa qualcuno e allora la caratteristica dell’uomo
deriverebbe da un atto di creazione e allora tutto il presupposto materialistico della sua teoria della
conoscenza verrebbe meno. Hobbes allora asserisce che la ragione come facoltà del calcolo noi l’acquisiamo
con l’esperienza. La ragione non è quindi innata ma è qualcosa di diverso dall’esperienza e non essendo
innata è qualcosa di acquisito attraverso l’esperienza, si acquisisce con l’”industria”.
La ragione
Hobbes dice che la ragione come facoltà del calcolo è una prerogativa dell’uomo che l’acquisisce con
l’industria. Ma dice che l’uomo acquisisce questa capacità perché in effetti egli ha la capacità di rendersi
conto della sua individualità fino in fondo. Hobbes se la prende con l’affermazione connessa a questo
problema che si trova in Aristotele. Hobbes asserisce che l’uomo non è un animale socievole poiché per lui
quello che prevale è l’affermazione di sé su ogni altro uomo, la volontà di prevalere. Questa distingue
l’uomo dagli animali. Animali sociali sono le formiche e le api, l’uomo no perché ha la passione di prevalere
(che è tipicamente umana). Cos’ha portato l’uomo a prevalere a differenza degli animali? Hobbes non lo
dice.
La costituzione dell’uomo è duplice: passionale e razionale. Nell’uomo c’è una pulsione passionale che ha
origine dall’esperienza e si sviluppa come ricerca del piacere e fuga dal dolore che costruiscono una
passionalità che è desiderio del godimento e repulsione nei confronti del dolore. Il massimo godimento per
l’uomo è l’affermazione di sé. Questo implica che l’uomo ricerchi il prevalere, non si dice poiché anche gli
altri animali non lo facciano. Questo desiderio di prevalere spinge l’azione umana a realizzare al massimo
grado tale risultato che muove la volontà dell’uomo. Per realizzare tale volontà l’uomo si industria con la
razionalità che è il mezzo con cui fare la passionalità. La ragione è facoltà di calcolo per raggiungere il
massimo risultato possibile nella strada del massimo godimento e minimo dolore. La razionalità dell’uomo
per questa ragione si struttura secondo Hobbes come facoltà del calcolo che ha la caratteristica di conseguire
delle affermazioni aventi valore universale. Hobbes dice che la geometria è l’unica scienza che Dio si è
degnato di concedere agli uomini.
La socialità in effetti si forma su una condizione infelice in cui l’uomo può agire in parte facendo riferimento
alle passioni che lo spingono a ricercare il piacere, in parte, avvalendosi della ragione che gli concede questi
strumenti. È un calcolo estremamente valido. La ragione immaginata come facoltà dell’universale è lo
strumento di cui l’uomo si serve per conseguire il risultato che gli fa nascere il desiderio di conseguire la
passionalità come autoaffermazione di sé. La massima autoaffermazione di sé per l’uomo come ricerca di
sicurezza è il vivere in uno stato ben ordinato. Questo è il risultato di un calcolo della ragione applicato alle
pulsioni.
Se un precetto o una regola non ha possibilità concreta di essere confermata dalla sanzione, fa sì che la
violazione del comando abbia come conseguenza un’afflizione. Se non subisco punizione perché ubbidire (è
la domanda dello stolto)? La risposta di Hobbes è che questo ragionamento è da stolto poiché è evidente che
se dovessimo supporre che le norme siano effettivamente cogenti soltanto quando c’è la possibilità che siano
sanzionate noi andremmo contro una sanzione cui non si potrebbe nutrire un’osservanza delle norme nel
contesto sociale. Non c’è una regolarità sociale se non c’è ubbidienza sociale. Lo stolto è un utilitarista
sociale che calcola male il proprio utile. Il problema del cattivo calcolo dello stolto è un problema può avere
una risposta di questo genere a li