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Efeso è uno dei punti su cui si è soffermata la critica: alla fine i protagonisti si ritrovano a Rodi, tornando poi a casa; ci
si è chiesti se questa ambientazione abbia a che fare con l’autore, o se ci sia un rapporto sotteso; ultimamente si insiste
sulla Ionia, oltre all’Egitto, come luogo di produzione ed ambientazione dei romanzi, luogo di contatto fra cultura greca
ed orientale: il romanzo dà ampio spazio all’imitazione omerica, specie odissiaca, ed Efeso era una scuola di omeridi, e
addirittura nell’Artemision vi erano gruppi di statue rappresentanti l’Odissea). La bellezza di Anzia era tale da stupire e
sopravanzava di molto le altre fanciulle (topos antico della bella fra le belle, paragonata ad Artemide, sfruttato anche
nell’epitalamio). Aveva 14 anni e il suo corpo fioriva per bellezza e l’abbigliamento molto contribuiva al suo
splendore: (inizia l’, tipica dei romanzi, Anzia è immagine di Artemide) la chioma era bionda, sciolta sulle
spalle e in parte minore intrecciata, mobile al soffio del vento; gli occhi splendenti, vivaci come si addice ad una
fanciulla, ma casti (termine medio, che incutono ed hanno paura) come si addice ad una fanciulla per bene; la veste era
un chitone di porpora, cinto fino al ginocchio, lasciato cadere fino alle braccia, una pelle di cerbiatto indossata, una
faretra appesa alla spalle, arco, giavellotti in mano, cani che la seguivano. Spesso gli abitanti di Efeso, vedendola nel
santuario, l’avevano adorata come fosse Artemide, e anche allora dunque, quando comparve, la folla gridò, e si
udivano voci diverse venire dagli spettatori, poiché alcuni per lo sbigottimento dicevano che era la dea, mentre altri
dicevano che era un’altra ( è una correzione di ) fatta venire dalla dea. E altri la adoravano
e ???? benedicevano i suoi genitori, e la chiamavano Anzia la bella (testimonianze di vasi attici “kalos” sono
interpretati come doni dell’amante all’amato). E quando il gruppo di fanciulle fu passato, tutti parlavano di nient’altro
che Anzia, ma quando passò Abròcome, benché lo spettacolo delle fanciulle fosse bello, tutti si dimenticarono di quelle
e volsero lo sguardo su di lui gridando sbigottiti dallo spettacolo, dicendo “è davvero bello Abròcome, e quale nessuno
che sia imitazione di un bel dio”. E già alcuni aggiungevano anche queste parole “che nozze sarebbero fra Abròcome e
Anzia” E queste furono le prime prove dell’accorgimento di Eros. E presto ad entrambi arrivò la fama reciproca: e sia
Anzia desiderava vedere Abròcome, sia Abròcome, fino ad allora inesperto d’amore, voleva vedere Anzia.
3. Quando dunque la processione fu terminata e tutta la folla si riunì nel tempio per celebrare il sacrificio e l’ordine
della processione fu sciolto e stavano lì uomini e donne, efebi e fanciulle, lì si guardano l’un l’altro e Anzia si innamora
(termine militare) di Abròcome, e Abròcome è vittima di Eros, e sogguardava continuamente la fanciulla e pur volendo
non riusciva a separarsi dalla vista; il dio incombendo su di lui lo teneva in pugno. E anche Anzia stava male,
accogliendo la bellezza di Abròcome che fluiva in lei con gli occhi interi e spalancati (topos ricorrente, la via
dell’amore sono gli occhi, platonismo banalizzato, variatio è l’innamorarsi per sentito dire), disprezzando ormai anche
le regole di comportamento delle fanciulle; e infatti avrebbe detto volentieri qualcosa, perché Abròcome le sentisse, e
denudato parti del suo corpo, quelle possibili, perché Abròcome le vedesse; e lui si era dato a quella vista ed era del
tutto prigioniero del dio. Da quella volta procedevano addolorati rimproverando la rapidità della separazione; e
volendo vedersi ( indica il guardare continuato) ancora l’un l’altro, girandosi e soffermandosi, trovavano molti
pretesti d’indugio. Quando arrivarono ciascuno a casa propria capirono allora in quale situazione si erano venuti a
trovare; e in loro si insinuava il pensiero della vista reciproca, e l’amore in loro ardeva e dopo aver alimentato per la
restante parte del giorno il desiderio, quando se ne andarono a dormire si trovarono proprio nel colmo del malanno, e
l’amore in entrambi era irrefrenabile.
4. Abròcome afferrandosi i capelli e stracciandosi la veste disse “che disgrazia, cosa mi è successo, sventurato che
sono, quell’Abròcome coraggioso, che disprezzava Eros, che si faceva beffe del dio, sono sconfitto e costretto ad essere
schiavo di una fanciulla, qualcuno mi sembra essere più bello di me e chiamo Eros dio. Codardo che sono, non
resisterò con coraggio? Non sarò più bello di Eros? Ora bisogna che io sconfigga un dio che no è nulla. La ragazza è
bella, e allora? Per i tuoi occhi è bella ma, se vuoi, non per te. La cosa è decisa, Eros non deve prevalere su di me”.
Queste cose diceva, e il dio ancor più violento gravava su di lui e lo trascinava e lo faceva soffrire… Incapace di
sopportare oltre, gettatosi a terra disse “Eros, hai vinto; un gran trofeo è stato costruito da te su Abròcome il casto;
hai in me un supplice, ma salva chi ha cercato rifugio da te che sei il signore di tutti. Non abbandonarmi, e non punire
troppo il tracotante. Io ero superbo perché ancora ero inesperto della tua potenza, ma ora dammi Anzia. Non essere
solo aspro con chi si oppone a te, ma sii un dio benevolo con chi è stato sconfitto”. Diceva queste cose, ma Eros era
ancora irritato, e pensava di esigere da Abròcome una grande pena ( è il verbo dell’esattore, col doppio
acc.). ma anche Anzia stava male, e non potendo sopportare oltre si alzava dal letto, cercando di non farsi vedere dagli
altri di casa. Diceva “Cosa mi è capitato, sventurata che sono, io una fanciulla, contro la mia età, amo, provo
sofferenze nuove che non si addicono ad una fanciulla, e impazzisco di amore per Abròcome che è bello ma arrogante.
E quale sarà la fine del desiderio? Violento è questo mio amato, e io sono una fanciulla sorvegliata; quale aiuto potrò
avere? A chi potrò rivelare ogni cosa? Dove vedrò Abròcome?”.
Plutarco (50-120 ca.), De genio Socratis
Il dialogo fa parte dei Moralia: esso sfrutta al massimo lo schema della cornice, tanto da far chiedere se è più
importante la cornice o il dialogo stesso. La cornice è il colpo di mano con cui i patrioti tebani, negli anni ’70 del IV
secolo, riescono a liberarsi del governo filo spartano e della guarnigione spartana sulla Cadmea. I patrioti hanno
l’usanza di riunirsi a casa del filosofo Simmia, protagonista con Cebete del Fedone, per dissimulare le intenzioni agli
occhi degli spartani. Il racconto di Plutarco riguarda il giorno designato per l’azione, ma la conversazione, che occupa
circa metà dell’opera, riguarda il demone di Socrate. Il racconto è una scena di notturno, una notte tempestosa, i tiranni
sono riuniti a banchetto, gozzovigliano ottenebrati dal vino, mentre i patrioti escono nella notte, pronti, e sconfiggono
gli avversari. Il racconto è narrato ad Atene da Cafisia ad Archidamo.
30. Era l’ora in cui di solito la gente è seduta a cena, e il vento che soffiava più forte, già levava nevischio misto a
pioggia sottile, cosicché c’era molta solitudine per chi passava per le strade. (I patrioti si dividono in due gruppi, per
altrettanti obiettivi) Quelli dunque schierati contro Leontide e Ipate, che abitavano vicino l’uno all’altro, uscirono fuori
avvolti nei mantelli non avendo nessun altra arma se non una spada ciascuno(e tra loro c’erano anche Pelopida,
Damoclida e Cefisodoro), Carone e Melone e quelli che dovevano insieme a loro attaccare Archia e i suoi ( o
+ nome di persona si può tradurre come “quelli intorno a”, ovvero “gli uomini di”, o, più frequentemente “la
persona e i suoi” oppure, nella lingua tarda, indicare solo la persona) con indosso delle corazze leggere, avendo in capo
corone di fogliame, alcuni d’abete, altri di pino, e alcuni con indosso abiti femminili, imitando persone ubriache che
andavano in giro per la città ( è la processione notturna degli ubriachi). Ma, o Archidamo, la sorte malvagia e che
pareggiava le debolezze e l’insensatezza dei nostri nemici al nostro ardimento e ai nostri preparativi, e che, fin
dall’inizio, costellava, come fosse una tragedia, la nostra azione con episodi pericolosi, intervenne nel momento
decisivo dell’azione, proponendo una prova, e terribile, di un’inattesa peripezia. Infatti quando Carone ritornò a casa
(gen. ass.) dopo aver persuaso Archia, Filippo e gli altri, e quando ormai ci esortava all’azione, arrivo da qui una
lettera dello ierofante Archia a quell’Archia, che era suo amico ed ospite, a quanto sembra, lettera che annunciava il
rientro e la congiura degli esuli ed indicava la casa in cui si erano trovati e i nomi di quelli che collaboravano con essi.
Ormai Archia sommerso dall’ubriachezza e inebetito dall’attesa delle donne, ricevette la lettera, ma quando il
portalettere gli disse che gli era stata scritta riguardo cose serie, disse: “A domani le cose serie”. Mise la lettera sotto
al cuscino, e, dopo aver domandato una coppa, ordinò di riempirla e mandava continuamente alle porte Fillide, per
vedere se le donne arrivassero.
31. Prolungando questa aspettativa la bevuta, noi, , spintici all’improvviso dentro nella piccola stanza, fattici avanti
fra i servi, ci collocammo per un attimo sulla porta osservando ciascuno dei commensali. Dunque, la vista delle corone
e delle vesti, suggerendo una falsa spiegazione della nostra presenza, provocò il silenzio. Quando per primo Melone si
lanciò nel mezzo della stanza, con le mani appoggiate sull’elsa della spada, Cabirico (nome tipico tebano, fa
riferimento al santuario dei Cabìri a Tebe, il più grande sul continente, ma non come quelli di Samotracia e Lemno),
l’arconte sorteggiato, afferrandolo per il braccio mentre gli passava accanto, urlò “Ma questo non è Melone,
Fillide?”. Dunque Melone si liberò, e sollevando insieme la spada, gettandosi su Archia, che si alzava a fatica, non
smise di colpirlo fin quando lo ebbe ucciso. Carone colpì alla gola Filippo che, pur difendendosi con le coppe che
aveva vicino, Lisiteo, dopo averlo gettato a terra dal triclinio, uccise. Noi poi calmavamo Cabirico invitandolo a non
aiutare i tiranni ma perché con noi liberasse la patria, che è sacra, dal momento che lui era consacra