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Con l’accenno al realistico Tezuka non allude alla materialità rappresentativa, ma al fatto
che il mondo orientale ed il prodotto tecnico estetico dell’industria cinematografica sono
tra loro inconciliabili. Heidegger che tutto può essere considerato tranne che un
“modernista” in campo tecnico, apprezzando il film di Kurosawa non aveva colto questa
incompatibilità. Che cosa sottrae un film, una fotografia, al mondo giapponese? Chi ha letto
Benjamin potrebbe subito pensare all’aura: in un film, come in generale in ogni arte
tecnica, ciò che viene sottratto è l’unicità dell’opera. Per mostrare questa inconciliabilità,
Tezuka si richiama ad una delle più straordinarie e caratteristiche forme d’arte giapponese, il
teatro del No.
Ezra Pound coglie perfettamente nel gesto l’essenza del teatro del No. Il classico
palcoscenico No consiste in una piattaforma di legno ricoperta da un pesante tetto sostenuto
da pilastri, la scena è sempre vuota: i pochi arredi usati durante la rappresentazione vengono
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introdotti e portati via. L’inizio della rappresentazione è annunciato dal suono acuto e
lamentoso di un flauto di bambù, vi sono anche dei suonatori di tamburo i quali a volte
inseriscono delle grida monosillabiche. L’ouverture del dramma è di solito recitata da un
monaco itinerante, chiamato waki, il quale comincia a narrare la vicenda, dopodiché si ritira
in un angolo del palcoscenico mentre entra il protagonista, lo shite, spesso mascherato, che
comincia a raccontare e a danzare la propria vicenda davanti al waki. Il dramma culmina
proprio nella danza dello shite, una sequenza di movimenti e gesti che a noi appaiono
rigidi, stilizzati ma che rappresentano invece il cuore stesso della rappresentazione. Il
contenuto artistico del No si esprime nelle maschere, nelle danze, nei gesti coreografici e
nel testo poetico. Le maschere rappresentano una caratteristica unica, perché sono
incredibilmente capaci di espressioni, essendo scolpite nel legno in modo tale che il gioco di
luci, che può essere mutato mediante oscillazioni della testa dell’attore, comporta
espressioni diverse. Il lento movimento dei personaggi sul palcoscenico costituisce, per lo
spettatore occidentale, uno degli aspetti più enigmatici del No. Un acuto osservatore
occidentale si è espresso riguardo ad essi in un modo che ormai ci risulta familiare: la quiete
non è immobilità, bensì un perfetto equilibrio di forze contrapposte (Blyth). Questi gesti
estraggono dal movimento umano tutto quanto v’è in esso di significativo, esattamente
come un metallo prezioso estratto dalla terra impura. Quando un attore No nel corso della
rappresentazione lentamente leva la mano, il gesto non corrisponde soltanto al testo del
dramma, ma è destinato a suggerire anche qualcosa che trascende la mera rappresentazione.
Il gesto dell’attore è bello in sé e per sé, come può esserlo un brano musicale, ma costituisce
l’accesso a qualcos'altro: la mano è un simbolo non di un oggetto particolare, bensì di una
dimensione senza tempo.
Proprio il gesto ed il corretto modo di intenderlo rappresentano un importante punto
di svolta del colloquio: lo scambio di parole fra i due colloquianti su che cosa sia un gesto ci
avvicina all’essenza del linguaggio. Il gesto non consiste né nel movimento della mano né
in un atteggiamento del corpo, la sua essenza non è nulla di esteriore. Il gesto è il
raccogliersi di un portare, dice Heidegger, è quello che realmente porta. E noi non
facciamo che apportare, di risposta, la nostra partecipazione, ribatte Tezuka, in un
contemplare che per sé sfugge ad ogni percezione visiva, il quale si fissa con tanta
concentrazione nel vuoto che in questo e per virtù di questo la montagna appare.
Il gesto può essere visto nel suo aspetto di mera esteriorità, come indicazione, o come
estrinsecazione di uno stato d’animo, espressione. In entrambi i casi il gesto è segno e la
sua funzione è sussidiaria. In connessione con la gestualità del teatro del No, il gesto viene
qui inteso come “lasciar apparire”.
La difficoltà di questo passo sta nel cogliere propriamente il significato di portare,
che indica, etimologicamente ed originariamente da “porta”, il passaggio, il recare, che
possiamo intendere come soglia, limite. Il gesto non è mezzo, ma luogo, non naturalmente
nel senso di spazio ed estensione, ma in quello già più volte considerato di soglia, di luogo
inesistente di passaggio da qualcosa a qualcos’altro, dove ciò che conta non è né la sua
funzione di ponte fra due luoghi (reificazione del concetto di soglia in un luogo
effettivamente esistente) né i due luoghi che esso connette (irrilevanza e strumentalità del
concetto di soglia), ma proprio il connettere lasciando apparire i due nella differenza e
nella coappartenenza. Il gesto, perciò, possiamo ora propriamente comprenderlo non come
l’indicazione della montagna al di là del gesto né la rappresentazione della montagna tramite
il gesto, ma come la montagna e l’attore nella coappartenenza assicurata da quella
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differenza ontologica che è il gesto. Tezuka dice che l’essenza del gesto va cercata in un
contemplare che sfugge ad ogni percezione visiva (né il contemplante né la cosa
contemplata, ma il contemplare), un contemplare che si fissa nel vuoto in virtù del quale la
montagna appare. Questo vuoto già lo abbiamo incontrato, è il nulla, il tratto, la soglia, il
limite, il farsi della differenza.
Tezuka afferma che i giapponesi si meravigliano di come gli europei siano potuti
cadere nell’errore di interpretare nichilisticamente il Nulla. Per loro il Vuoto è il nome più
alto per indicare quello che Ella vorrebbe dire con la parola “Essere”. Ecco un esempio di
vera traduzione di due termini, quella traduzione che non porta a sostituire un termine con
un suo analogo in un’altra lingua, ma a comporre due termini. Il Nulla ed il Vuoto orientale
dicono lo stesso dell’Essere heideggeriano, ma non è la stessa cosa pensare a partire dal
Nulla o pensare a partire dall’Essere, perché diversissime sono le provenienze dei due
termini. Nell’Essere di Heidegger c’è tutta la presenza vincolante della metafisica, di cui
vuol essere superamento, non come critica o rinnegamento di essa né come sua evoluzione
progressiva, ma come chiarimento, della sua essenza.
I due colloquianti ritornano all’espressione heideggeriana “linguaggio come dimora
dell’essere” e proprio tale accezione ci avvicina all’essenza stessa del linguaggio “senza
violarla”, come disse Tezuka. L’essenza del linguaggio, lo stesso termine o concetto di
essenza sono cose alquanto diverse per un occidentale e per un orientale. Heidegger, a
questo punto, pone a Tezuka una domanda che giustamente lo impegna in una lunga pausa
di riflessione. Che intende un giapponese per linguaggio? Esiste nella lingua giapponese
una parola per indicare ciò che noi chiamiamo linguaggio? In caso negativo, come si
configura, per un giapponese, l’esperienza di ciò che da noi si dice linguaggio?
Heidegger non cerca una parola sostitutiva, ma una parola essenziale, una parola a partire
dalla quale si possa giungere vicini a ciò che per i giapponesi è l’essenza del linguaggio.
Tezuka, non risponde ad Heidegger come farebbe un dizionario, ma va alla ricerca appunto
di una parola essenziale, come la definizione “dimora dell'essere”.
Non pensiamo che questa espressione giapponese che dice l’essenza del linguaggio ci
venga subito svelata. Non è l’avidità di sapere ciò che guida una conversazione filosofica.
La digressione, ora, avviene sul termine “cenno”: l’espressione heideggeriana “dimora
dell’essere” è un’espressione che dice l’essenza del linguaggio nel senso di far cenno ad
essa. Quale sarà la natura di questo accennare? Tale domanda che non può non farci
tornare con il pensiero alla natura del gesto nel teatro del No. I cenni sono enigmatici e
vanno pensati in connessione con i gesti e nella differenza dai segni. Tezuka esita a
pronunciare l’espressione giapponese, a causa di un timore che esprime la soggezione che
nasce dal rispetto per ciò che ci sovrasta. Ma è anche un’esitazione che nasce dalla
consapevolezza che ogni nominazione, proprio per il fatto di essere tale, è sempre esposta
al rischio di irrigidirsi in immagine metaforica o in rappresentazione concettuale. Quel
che Heidegger ha in mente con quell’espressione non è l’essere dell’essente, ma l’essenza
dell’essere, più precisamente la Differenza di essere ed essente.
Ora è Heidegger che intende rispondere ad un problema, il problema di una
interpretazione dell’ermeneutica, secondo il modo hedeggeriano di filosofare, che risale
all’etimologia delle parole. Heidegger deve dire che cos’è l’ermeneutico. Ora dire il “che
cos’è” di qualcosa equivale a darne la definizione, il concetto, proprio ciò che, invece, nel
suo pensiero rappresenta una forma di nascondimento dell’essenza (una forma mai del
tutto evitabile). Tuttavia egli afferma che l’interpretazione di questa parola può diventare
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una Erörterung. Erörterung ha, nel tedesco corrente, il significato di discussione o
dibattito. Heidegger non intende trasformare l’interpretazione del termine ermeneutica in un
dibattito su tale termine, ma indicare il luogo e osservare il luogo. L’esito di questa
Erörterung è una domanda.
Ermeneutica deriva ermeneuein, dal dio greco Hermes, il messaggero degli dei. Il
linguaggio è ermeneutico non in quanto interpretazione del mondo, ma in quanto suo
annunciarsi. Ad Heidegger preme di trattare l’essere dell’essente non più alla maniera della
metafisica, ma in modo che l’Essere stesso si manifesti. L’uomo è pertanto uomo in quanto
corrisponde alla parola della Differenza e la annuncia. Ciò che regge il rapporto
dell’essenza dell’uomo con la Differenza è il Linguaggio. È questo che determina il
rapporto ermeneutico. L’essere, in quanto venire alla presenza, in quanto annunciarsi di
ciò che è presente, ha bisogno di un corrispondere a questo annuncio, e questo è il
linguaggio. La parola, prima di essere funzione comunicativa, è un cenno che accoglie
l’annuncio, senza il quale le cose sarebbero mere cose. L’uomo è uomo in quanto sta nel
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