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Under the influence of Wittgenstein, Schlick now considered the meaning of terms and propositions to
be dependent on nothing more abstract than the semantic rules governing their use; it was on this
basis that he sought to explain the tautologous character of phenomenological propositions.» [P.
Livingston 2002, pag. 245]. Su questo cfr. anche Vittorio De Palma: «Per Schlick la struttura formale di
concetti dei colori, che determina completamente il loro significato, è assimilabile a quella dei numeri.
Un cieco può comprendere il significato dei termini cromatici, in quanto può apprendere le regole del
loro uso linguistico e può quindi conoscere il colore. Infatti, nel caso del colore ciò che si può
comunicare è solo il suo posto in un sistema di relazioni interne, mentre il contenuto è incomunicabile
e come tale irrilevante dal punto di vista conoscitivo: “qualsiasi materiale può assumere qualsiasi
struttura” [Schlick M., Forma e contenuto: un’introduzione al pensare filosofico, in Id., Forma e
contenuto, trad. it. Torino 1987, pagg. 59ss.].» [De Palma 2011, pag.65].
139 L’opera procede infatti mantenendo costantemente la presa sui due livelli della logica e
dell’esperienza antepredicativa, leggendo l’uno alla luce dell’altro, ma cercando nello stesso tempo di
restituire il senso di ognuno di essi nel modo più fedele possibile; la loro messa in collegamento non
porta all’annullamento dell’una nell’altra ma si sviluppa lungo la linea di una differenza che non viene
mai perduta di vista. Il progetto così inteso di una genealogia della logica può effettivamente assolvere
alla funzione di una sua giustificazione e chiarificazione, rendendo nello stesso tempo più convincente
la tesi dell’irrilevanza di un’analisi del linguaggio a questo scopo. Questa tesi infatti, per come è
presentata nell’ottica di una “grammatica puramente logica” qual è quella cui mira la IV RL, non può
sottrarsi all’impressione di essere in certa misura soltanto pretesa. Nell’impostazione genetica che
caratterizza EG essa assume invece maggiore consistenza. Con questo non si può e non si vuole
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comunque negare la legittimità della questione di una compenetrazione tra linguaggio e logica, da una
parte, e tra linguaggio ed esperienza, dall’altra.
140 14
verità secondo la forma. Se infatti consideriamo le tre proposizioni seguenti: “non c’è
cosa materiale senza estensione”, “non ci sono polli senza piume” e “non c’è metro
senza centimetri”, è chiaro come ognuna di esse abbia la propria completa
formalizzazione nella proposizione secondo cui “non c’è intero senza parti”, in cui
viene a espressione la relazione inclusiva di parte e intero che tutte hanno in
comune. Ciò che una simile formalizzazione non restituisce è la specificità dei modi
in cui la parte è di volta in volta parte dell’intero o, inversamente, la specificità
dell’intero cui si riferisce ognuna di esse. La verità formale della proposizione
secondo cui “non c’è intero senza parti” non può essere infatti rinvenuta in ognuna
delle tre proposizioni di cui pure rappresenta a uguale diritto la formalizzazione, ma
soltanto nella terza di esse (“non c’è metro senza centimetri”), nella misura in cui in
entrambe si rileva lo stesso nesso logico di correlazione, inscritto ab origine nei
concetti implicati. Per le prime due proposizioni si dovrà invece parlare di verità
materiale, cioè di una verità fondata nel senso e non nella forma dei concetti
140
relativi , che si lascia per altro suddividere ulteriormente in necessaria e contingente
rispettivamente: soltanto i concetti su cui verte la prima di esse si collocano infatti a
quel livello di generalità dell’esperienza che contraddistingue i cosiddetti “concetti
puri” o “essenze”, laddove la seconda resta legata ad un livello di maggiore
determinatezza dell’esperienza e dunque esposta alla possibilità di una falsificazione
nel suo successivo decorso, come è stato appunto il caso per l’esempio proposto:
risale a qualche anno fa la produzione in laboratorio di polli senza piume per motivi
commerciali. L’autonomia relativa di materia e forma della conoscenza si lascia
dunque precisare nella triplice distinzione delle proposizioni in analitiche, sintetiche a
141
priori ed empiriche (a posteriori) . Un altro luogo della riflessione husserliana che
consente di gettar luce su questo tema può essere rintracciato nella distinzione tra
“insieme”[Inbegriff] e “intero” [Ganze] esposta nella III Ricerca logica [III RL, pag. 72]:
l’ “insieme” è quel collegamento di oggetti che è del tutto indifferente alla loro
determinatezza contenutistica e da cui deriva una loro unità puramente logica; l’
“intero” è invece quel genere di unità che ha
140 Si può infatti rilevare come questi concetti siano sprovvisti di forma nel senso in cui essa può
essere invece individuata nei concetti formali, nel senso cioè di quella messa in forma categoriale da
parte del soggetto conoscente di cui Husserl ci parla in Esperienza e giudizio. Ciò non toglie che
anche nei concetti materiali si possa rilevare un carattere formale in un altro senso, relativo all’idealità
del concetto come tale per cui esso si ripete identicamente in ognuna delle proposizioni in cui occorre;
cfr. su questo Mohanty 1977.
141 Sulle diverse caratterizzazioni e localizzazioni a livello d’esperienza cui possono andare
incontro i concetti di “intero” e “parte” cfr. III RL, pagg. 43-44.
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il suo fondamento non a livello categoriale, ma contenutistico, al livello cioè dei
contenuti in specie tra cui può essere rinvenuto un rapporto di “fondazione”
142
[Fundierung] .
142 Un’ultima occasione per chiarire ciò che Husserl intende con la tesi di una relativa autonomia tra
forma e materia di conoscenza può essere offerta dall’esempio della percezione di un libro da parte di
chi sappia che cosa esso sia e da parte di chi è invece del tutto all’oscuro al riguardo: «per vedere ciò
che ho tra le mani come un libro debbo evidentemente sapere che cosa siano i libri e questo implica
un addestramento che ha nel linguaggio il luogo della sua manifestazione esemplare. Che ciò che
vedo sia un libro lo imparo nella stessa forma e negli stessi esempi che mi permettono di dominare
l’uso della parola “libro”, e tuttavia queste considerazioni così difficilmente contestabili non ci
consentono affatto di sostenere che la capacità di riconoscere qualcosa per quello che è ci costringa a
riconoscere che sia mutato qualcosa nella sua determinatezza sensibile. […]Chi sa bene che cosa sia
un libro ha, quando vede un libro sul tavolo, un insieme di aspettative particolari che possono guidare
il suo sguardo e che determinano quindi l’aspetto complessivo della sua percezione: si aspetta, per
esempio, di vedere il profilo della copertina, la rilegatura, le pagine e molte altre cose che potrebbero
invece sfuggire a chi non sa che cosa sia un libro e non ha quindi simili attese. Potrebbero, appunto:
chi guarda un libro senza sapere che cosa sia può non vedere molte cose, ma questo ancora non
significa che non veda proprio ciò che vede chi conosce bene quell’oggetto. Certo, la sua attenzione
non è sorretta da quel gioco di attese e da quell’insieme di regole che ci guidano quando, sapendo
che cos’è un libro, vogliamo accertarci di averne davvero uno davanti a noi, ma questo ancora non
significa che non possa vedere ciò che anche noi vediamo: l’attenzione e le attese predispongono il
soggetto alla visione e rendono più facile vedere ciò che comunque si può vedere, ma non
determinano ancora ciò che egli vede. Ciò che vediamo non dipende da quello che sappiamo, anche
se il sapere può aiutarci a volgere lo sguardo proprio là dove altrimenti non avremmo guardato e dove
quindi non avremmo visto nulla.» [P. Spinicci 2007, pagg. 205-206].
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