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Filosofia morale - "L'uomo fallibile"di Ricoeur Pag. 1
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FINITUDINE E COLPA

L’UOMO FALLIBILE

Tema di quest’opera è la fallibilità dell’uomo che Ricoeur cerca di mostrare anzitutto come concetto

percorrendo la via della riflessione pura; questa dovrebbe infatti indicarne la fragilità costitutiva, la

possibilità dell’errore radicata nella struttura della sua esistenza. La fallibilità dell’uomo sembra

dunque essere una “non coincidenza con se stesso” che lo porta ad essere ora più grande, ora più

piccolo di se stesso; tuttavia, a differenza di Cartesio che aveva spiegato questa sproporzione con

una posizione mediana dell’uomo, Ricoeur la riferisce alla sua attività di intermediario: l’uomo è

dunque “misto”perché opera mediazioni.

Il senso più profondo di questa verità è però espresso non dalla filosofia, ma dal cosiddetto

“patetico della miseria”, cioè dalla precomprensione che l’uomo ha di sé in quanto “miserabile”.

E’questo il punto di partenza della filosofia, alla quale è infatti precluso un cominciamento assoluto

di tipo husserliano; ciò a cui deve aspirare è invece un inizio metodico che attraverso la riduzione

del patetico realizzi un’antropologia filosofica di stile trascendentale, incentrata cioè sull’oggetto

della riflessione, sulle sue condizioni di possibilità. Tuttavia un’impostazione di questo tipo non può

mai raggiungere la ricchezza di senso che caratterizza il livello precedente da cui prende le mosse.

Obiettivo di Ricoeur è allora quello di estendere la riflessione trascendentele fin dove può arrivare,

passando dalla sproporzione del conoscere a quella dell’agire e da quella dell’agire a quella del

sentire. Prima di avviare questo movimento egli torna però ancora una volta al rapporto tra

precomprensione retorica e riflessione filosofica, individuando in Platone e Pascal gli esempi a cui

rifarsi per comprendere le potenzialità e il limite estremo a cui può arrivare il mito, nello stesso

tempo miseria della filosofia e filosofia della miseria.

La riflessione trascendentale, in quanto riflessione sulla cosa, mostra immediatamente i suoi

vantaggi e, insieme, i sui limiti rispetto a una retorica della “miseria”; se infatti da una parte spezza

il patetico introducendo il problema della sproporzione e della sintesi in una dimensione filosofica,

dall’altro mantiene questa sintesi ad un livello intenzionale, come sintesi sulla cosa, sull’oggetto

esterno; Kant può dunque chiamare questo potere della sintesi “coscienza”, ma tale coscienza non è

“per sé”. Proseguendo in questa direzione troviamo la prima scoperta che una riflessione

trascendentale di questo tipo consente, e cioè la differenza tra sensibilità e intelletto: un conto è

ricevere la presenza delle cose, un altro è determinarne il senso.

In che cosa consiste allora la finitezza del ricevere?

Essenzialmente nella limitazione prospettica della percezione, nel fatto cioè che ogni visione

dell’oggetto è una veduta sull’oggetto, è una prospettiva che coglie soltanto un lato dell’oggetto;

quest’ultimo è infatti sempre l’unità presunta del flusso di immagini direttamente accessibili alla

percezione.

Tale carattere prospettico non è però colto direttamente ma riflessivamente, in quanto ciò che

inizialmente contraddistingue ogni atto del vedere non è la sua limitazione ma la sua apertura. E’

questo il motivo per cui Ricoeur non avvia la riflessione trascendentale sulla finitezza con una

considerazione sul proprio corpo, pur avendo questo parte in essa; d’altra parte un’operazione di

questo tipo avrebbe inevitabilmente portato all’indagine psico-fisiologica di un corpo-oggetto,

osservato dall’esterno nel modo proprio della scienza. Cominciando dall’oggetto anziché al corpo,

Ricoeur può invece evidenziare la specificità del corpo che percepisce rispetto all’oggetto percepito,

disimpegnando il primo dai caratteri del secondo. Inoltre è in quest’ottica soltanto che può essere

compresa la libera mobilità del proprio corpo, sottesa alla possibilità di rapportare la diversità delle

operazioni all’identità di un polo-soggetto, cioè alla posizione del corpo nel suo insieme.

Siamo così arrivati ad una prima comprensione della finitezza dell’uomo.

Tuttavia perché essa sia esaustiva deve render conto sia della sua finitezza, sia della sua infinità,

anzi dell’una attraverso l’altra. Ricoeur focalizza dunque l’attenzione sulla presa di coscienza del

carattere prospettico di ogni visione percettiva: l’oggetto fa già parte di un orizzonte di senso che è

sempre presupposto, anteriore ad ogni punto di vista perché inversione di ogni punto di vista

nell’universale, sottratto per principio alla percezione.

Questo superamento della finitezza non è infatti realizzato dalla percezione, ma dagli atti di

significazione con i quali l’individuo si rapporta necessariamente alla realtà esterna; la parola, in

quanto possibilità di dire il punto di vista, è infatti ciò in cui si contrae la violazione dei limiti del

punto di vista, attraverso il superamento intenzionale della situazione. A questo punto Ricoeur,

dopo aver individuato nell’uomo una doppia intenzionalità (non solo intenzionalità di una presenza

riempita, ma anche intenzionalità significante a vuoto), considera più nel dettaglio le strutture in cui

si articola il linguaggio, mostrando come l’intenzionalità possa accedere a un senso solo se ha a

disposizione un nome e, ancor prima, un verbo.

E’ infatti nel verbo che si manifesta quella sovrasignificazione rispetto al nome di cui ha parlato per

primo Aristotele: da una parte esso indica il tempo attraverso un’ affermazione di esistenza

presente, dall’altra non dice direttamente il suo oggetto (come il nome), ma relativamente a

qualcos’altro, cioè al soggetto.

E’ proprio in virtù di questa doppia intenzione del verbo che la frase umana acquista la sua unità di

significazione e, nello stesso tempo, la capacità di errore e di verità espressa dalla possibilità di

affermare ciò che non è come se fosse e negare ciò che è come se non fosse, come aveva scoperto

Aristotele prima di Cartesio. E’ però quest’ultimo a trarne le dovute conseguenze: tale volontà

molteplice delle medesime cose mostra l’indipendenza della volontà dall’intelletto, la sua capacità

di andare al di là della sua finitezza, rendendo necessario articolare già al livello della semplice

affermazione umana la complessa relazione tra verità e libertà del giudizio, ricondotta da Ricoeur

alla coppia noesis-noema che la costituisce.

La sproporzione può così essere declinata in due modi: essa è dualità dell’intelletto e della

sensibilità, alla maniera kantiana, oppure della volontà e dell’intelletto, in senso cartesiano. Quale

che sia il quadro di riferimento, emerge comunque il problema del termine intermedio, ovvero della

sintesi compiuta dall’immaginazione trascendentale.

L’aspetto sorprendente, sul quale Ricoeur torna a più riprese, è che questo terzo termine non è dato

in se stesso, ma solo nella cosa; proprio il fatto che la sintesi operata dall’uomo è soltanto

intenzionale garantisce del suo carattere trascendentale: essa è unità nell’intenzione o, in altri

termini, condizione di possibilità di quella sintesi che potremmo chiamare oggettuale. In questo

senso Ricoeur può affermare che l’oggettività dell’oggetto non è “nella” coscienza; essa piuttosto le

sta di fronte, come ciò a cui si rapporta. Tuttavia è proprio sulla questione dell’oggettività che

Ricoeur si allontana da Kant, al quale rimprovera di aver ridotto la portata della sua scoperta alle

dimensioni limitate di un‘epistemologia, facendo dell’oggettività dell’oggetto la scientificità degli

oggetti; in realtà l’oggettività non è che il modo di essere della cosa, è propriamente lo stato

ontologico di questi “essenti”che chiamiamo cose ed in essa si esaurisce la sintesi trascendentale.

Quest’ultima non ha infatti un per sé, un’intellegibilità propria. Ricoeur si preoccupa di insistere

ancora una volta su questo punto: la sintesi che l’immaginazione trascendentale, termine medio

nell’ordine teoretico, opera tra intelletto e sensibilità è coscienza, ma non coscienza di sé; resta cioè

puro e semplice progetto dell’oggetto, ed è proprio tale limite della riflessione pura che legittima

un’apertura della filosofia alla retorica della miseria. Questo nulla toglie alla necessità di partire

dalla riflessione pura, alla quale Ricoeur riconosce il merito di fare della questione della totalità un

problema filosofico e un ‘idea direttrice in senso kantiano, obiettivo di approssimazioni successive;

essa diventa così esigenza di totalizzazione da contrapporre all’esigenza di radicalità e purezza che

aveva caratterizzato il primo momento di un’antropologia filsofica.

Ricoeur passa dunque dal teorico al pratico, da una teoria della conoscenza a una teoria della

volontà, ricercando quella totalità di senso che il momento astratto aveva messo tra parentesi. Il

primo passo in questa direzione è la tematizzazione di tutti gli aspetti di finitezza “pratica” che si

possono comprendere a partire dalla nozione trascendentale di prospettiva finita, riassunti ora nella

nozione di “carattere”; anche in questo caso è però necessario procedere per gradi, prendendo prima

in considerazione la prospettiva affettiva e quella pratica.

La finitezza della prospettiva affettiva viene allora ricondotta alla confusione del desiderio, a ciò

che resta altro dalla sua chiarezza, dalla sua intenzionalità. Questa oscurità del desiderio,

esemplificata dal proprio sentirsi bene o male, attesta la muta e indicibile presenza a sé del corpo,

rivelando così come esso non sia pura mediazione, ma anche immediato per se stesso e quindi

chiusura della sua apertura intenzionale. Tale adesione, tale aderenza a sé costituisce

l’accompagnamento continuo che lega tutte le vedute affettive, svolgendo un ruolo analogo a ciò

che abbiamo chiamato centro di prospettiva nel caso del corpo percepiente. Per quel che riguarda

poi la

Dettagli
A.A. 2010-2011
5 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-FIL/03 Filosofia morale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Gennaro Caruso di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Filosofia morale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Roma Tor Vergata o del prof Viccaro Simona.