vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
La posizione di Rorty può essere definita inoltre deflazionistica: secondo la teoria
deflazionistica il termine “vero” è un termine vuoto, o meglio non dice niente di più di
quanto già non sappiamo, non si riferisce a qualcosa di sostanziale o metafisico e può
facilmente essere sostituito o addirittura eliminato con altri termini. Ci sono secondo Rorty
tre usi di “vero”:
a) Un uso approvativo, il quale serve ad esprimere la nostra approvazione ad
un enunciato.
b) Un uso cautelativo, cioè un uso di circospezione rispetto ad un enunciato
che potrebbe essere giustificato ma non vero. Ciò significa che ciò che noi
riteniamo vero potrebbero non esserlo per le generazioni future in quanto
potrebbero essere migliori di noi e scoprire che ciò a cui noi crediamo è
falso. Ciò non implica un realismo di nessun tipo, semplicemente dice che
ciò che noi riteniamo vero potrà non essere ritenuto tale in futuro.
2 P. Engel, R. Rorty, A cosa serve la verità?, Il Mulino, Bologna 2007, pp 51. 3
c) Un uso decitazionale, che mette in luce come l’affermare “P” e l’affermare “P
è vero” sono equivalenti, non c’è alcuna differenza di senso, e dunque “vero”
è un termine superfluo e vuoto, facilmente intercambiabile (almeno in molti
casi) con altri termini.
Poiché questi sono, secondo Rorty, gli unici usi possibili del termine “vero”, ne segue che
la verità non costituisce affatto una norma o uno scopo ultimo a cui tende la ricerca, in
quanto non la si può conoscere come essa è in sé (non ha neppure senso parlare di verità
in sé) e non ha neppure un valore intrinseco, ma soltanto strumentale.
Infine Rorty può essere classificato come quietista, poiché si distingue dagli altri
deflazionisti che sostengono una teoria della ridondanza, secondo la quale l’uso
decitazionale di “vero” vale per tutte le applicazioni possibili del termine e questo mette in
luce il fatto che “vero” è un termine vuoto e facilmente eliminabile. Rorty al contrario
ammette che in certi casi il termine non può essere eliminato in alcun modo dalle nostre
pratiche linguistiche, e non va nemmeno eliminato dal dizionario; tuttavia il suo intento è
quello di smitizzare le opinioni più diffuse che riguardano la verità le quali la considerano
come un valore supremo e metafisico, quando in realtà, secondo Rorty, ha soltanto un
valore strumentale immanente alle nostre pratiche.
2. Ridescrizione di “vero”
Dunque Rorty vuole liberare il concetto di verità da tutti quei presupposti oggettivistici che
si sono radicati durante l’intera storia della filosofia e del dibattito riguardo il vero. Per fare
questo bisogna attuare una ridescrizione della parola “vero” e ridarne una nuova
definizione. Il filosofo americano afferma che rivedere e descrivere non hanno alcuna
differenza di significato in questo caso, poiché tutte le più grandi chiarificazioni concettuali
della storia della filosofia non sono altro che ridescrizioni mascherate. Si cerca infatti di
operare un cambiamento descrivendo l’oggetto in questione in modo nuovo. Se questo
presunto cambiamento ha un’utilità dal punto di vista pratico e sociale, allora vale la pena
di attuarlo. In questo caso, riguardo all’uso della parola “vero”, secondo Rorty è doveroso
operare questo cambiamento, perché altrimenti si ammetterebbero delle discriminazioni
all’interno dei nostri discorsi, in cui ci sarebbero gradi di corrispondenza alla realtà diversi.
Rorty rigetta espressioni come “corrispondenza alla realtà”, o “realtà in sé”, o
“rappresentare il mondo”, perché le ritiene metafore inutili che non ci portano da nessuna
parte. Tutto questo ha generato quei dibattiti sterili e privi di utilità tra i vari filosofi, dibattiti
che vanno troncati. In questo caso non è più il dibattito tra realisti e antirealisti che va
preso in considerazione, ma tra tutti coloro che continuano a discutere se valga la pena
tale dibattito e coloro che sono convinti che è arrivato il tempo di farla finita con queste
problematiche vuote. Rorty ovviamente la pensa in quest’ultima maniera.
3. Vero e giustificato
Uno dei punti chiave del pensiero di Rorty è, come abbiamo visto, il fatto che noi abbiamo
responsabilità soltanto verso gli altri esseri umani, e non verso entità in sé, astratte e
metafisiche come la Realtà o la Verità con la maiuscola. Perciò affermare che un
enunciato è giustificato ma forse non vero non significa operare una distinzione tra
qualcosa che è umano con qualcos’altro che non è tale, ma si sta parlando di situazioni
diverse in cui ci potremmo trovare: una situazione presente in cui una credenza sembra
giustificata, e una situazione ipotetica futura in cui potrebbe non essere più tale. Tutto ciò
porta Rorty ad affermare che non c’è differenza tra verità e giustificazione. La
giustificazione è infatti l’unico mezzo che abbiamo per stabilire la verità di un enunciato, è
4
immanente alle nostre pratiche linguistiche e non fa riferimento alcuno ad entità che ci
trascendono e a cui dovrebbero corrispondere le nostre affermazioni. Affermare che una
credenza è massimamente giustificata, ovvero ci sono tutte le ragioni per crederla vera, è
come affermare che quella credenza è vera. L’uso cautelativo di “vero” ci previene dai
possibili errori per cui una credenza credevamo fosse vera, ma in realtà era falsa, o meglio
era giustificata per un uditorio ma non per un altro.
4. La verità non è normativa
Tuttavia quanto si è detto finora non implica che non ci sia niente da dire sul mondo, o che
non esistano virtù come la sincerità, la fiducia, la veridicità. Tali virtù possono sussistere
anche se si continua a sostenere la tesi dell’uguaglianza tra verità e giustificazione, o
addirittura senza il concetto stesso di verità. È sufficiente infatti, secondo Rorty, la nozione
di giustificazione perché sussistano tali virtù morali: si potrebbe dire in questo caso che
una persona è sincera quando è sicura di ciò che dice e ha delle buone giustificazioni per
esserlo, non serve appellarsi al concetto di verità. E l’assenza della nozione di verità in sé
non implica certamente una riduzione della sincerità delle persone, qualora tutti sulla
faccia della terra fossero pragmatisti.
La verità dunque non è normativa nel senso morale del termine, non implica alcuna virtù
etica, anzi questo tipo di virtù fa tranquillamente a meno della nozione stessa di “vero”. Ma
non solo, la verità non è normativa in nessun senso, se non quello – piuttosto blando –
che assume piuttosto le fattezze di un consiglio, ad esempio “cercate di avere soltanto
credenze vere!”. Secondo il filosofo americano infatti non abbiamo i mezzi per distinguere
ciò che ha un valore intrinseco da ciò che invece ha un valore strumentale. E in ogni caso,
ciò non avrebbe alcune incidenza pratica sulle nostre azioni.
• Dibattito
Tirando le somme di quanto si è detto finora, si possono rilevare una serie di argomenti
che ciascuno dei due filosofi propone a favore della propria teoria.
Rorty afferma che una concezione realista della verità non è più sostenibile, perché nel
corso dell’indagine filosofica sono sorti dei problemi molto gravi che affliggono la teoria
classica della corrispondenza, teoria che ha avuto origine da Aristotele e che ha sempre
avuto sostenitori, sebbene sempre più sporadici (una versione alternativa interessante è la
teoria della corrispondenza che pone il riferimento ai fatti di Moore). Questi problemi
mettono in luce il fatto che la teoria della corrispondenza separa ciò che ci appare da ciò
che è in sé, ma la realtà in sé in questo modo è inconoscibile. Inoltre, anche ammesso che
non sia così, la teoria non vale per tutti i casi possibili e presenta delle situazioni in cui
genera problemi paradossali. Il celebre argomento detto della “fionda” di Davidson e
Church poi ha inflitto un duro colpo ai sostenitori di una concezione corrispondentista.
Engel dal canto suo è d’accordo sul fatto che la teoria della corrispondenza presenta
problemi insormontabili. Ma ciò non significa che bisogna abbandonare del tutto una
concezione realista riguardo alla verità. Il realismo in generale è una posizione che non
riduce la verità soltanto a ciò che noi crediamo. Quando invece diciamo qualcosa di vero,
ci riferiamo alle cose come stanno, non alle nostre opinioni e credenze.
Rorty qui risponderebbe che le espressioni che fa proprie il realista sono prive di utilità.
Non prive di senso, poiché ogni espressione ha un senso se gliene diamo uno, ma prive di
incidenza pratica. Espressioni come “corrispondenza alla realtà” oppure “rappresentazione
della realtà” sono ambigue e contraddittorie, e non servono per spiegare la nostra pratica
dell’asserzione. Per questo bisogna estirpare il dibattito tra realisti e antirealisti, perché si
discute di problemi futili ed è quindi una discussione inconcludente. 5
Engel qui potrebbe rispondere che più che tentare di estirpare il dibattito Rorty sta
tentando di tirare l’acqua al suo mulino. Perché se la prende tanto con il realismo?
Dopotutto esso si basa su delle intuizioni ovvie e comuni a tutti gli uomini. In questo modo
Rorty diventa più intransigente di quanto egli presume siano i suoi stessi avversari.
Possiamo davvero sbarazzarci del concetto di verità? E si può davvero fare a meno della
normatività della verità per descrivere la pratica dell’asserzione? La verità dopotutto ha un
ruolo centrale nelle nostre pratiche linguistiche e conoscitive, ed è un ruolo radicato in
esse, ne costituisce l’essenza, non si può fare a meno del concetto di “vero”. Ciò a cui
mira qualsiasi pratica sociale è il raggiungimento della verità, senza dover presupporre
che la Verità con la “v” maiuscola sia lo scopo ultimo della ricerca o altre affermazioni
simili. Semplicemente si vuole dire che in generale quando facciamo un proferimento, o
enunciamo una nostra credenza, cerchiamo di dire qualcosa di vero.
Rorty agli argomenti di Engel potrebbe rispondere che è sufficiente la giust