vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
Alla fine di questi sei tentativi di confutazione il dubbio scettico riesce quindi a mettere
in crisi più di prima le nostre convinzioni di senso comune.
_ La soluzione e l’argomento del linguaggio privato
Kripke avvia il discorso in questa seconda parte del testo con un confronto tra il
paradosso scettico di Wittgenstein e le tesi dell’ “indeterminatezza della traduzione” e
dell’ “imperscrutabilità del riferimento” di Quine. La sua posizione, a cui abbiamo già
accennato, è che l’impostazione generale dei due autori sia sostanzialmente diversa e
che il punto di vista comportamentista adottato da Quine gli impedisca di portare avanti
la sua critica del significato con la stessa radicalità di Wittgenstein . Kripke passa poi a
8
proporre un altro confronto, questa volta tra Wittgenstein e Goodman, il cui “nuovo
enigma dell’induzione”, esemplificato dall’ipotesi che noi in passato con “verde”
intendessimo un altro colore (“blerde”, cioè un colore di cui tanto il blu quanto il verde
sarebbero sfumature), potrebbe essere compreso solo a partire dalle tesi scettiche di
Wittgenstein sul significato. Dopo aver in questo modo valorizzato la pars denstruens
del discorso wittgensteiniano, rilevandone radicalità e originalità rispetto agli autori a lui
più affini, Kripke sottolinea come questa non sia l’ultima parola sull’argomento
contenuta nelle “Ricerche filosofiche” ma debba essere invece compresa dal punto di
vista della soluzione proposta nella parte successiva; una soluzione che, come avremo
modo di vedere, non supera il problema ma in un certo senso lo legittima, guardandolo
8 «Per coloro che non hanno le stesse propensioni comportamentistiche di Quine, il problema di
Wittgenstein può suggerire una nuova prospettiva circa le tesi di Quine. Stando alla formulazione stessa di
Quine, sembra ammissibile per un non-comportamentista considerare le sue argomentazioni, se le accetta,
come una dimostrazione del fatto che qualunque teoria comportamentistica del significato deve risultare
inadeguata dal momento che non riesce a distinguere una parola che significa coniglio da una che significa
stadio di coniglio. Ma se ha ragione Wittgenstein, e nessuna via di accesso alla mia mente può rivelare se
intendo più o viù, non può darsi che la stessa cosa valga per coniglio e stadio di coniglio? Quindi forse il
problema di Quine si pone anche per i non-comportamentisti.» [pag.52]
7
da un altro punto di vista, e deve essere pertanto definita “scettica”. Questa soluzione
non nega infatti i risultati cui siamo arrivati fin qui e al suo interno troviamo anzi
l’argomento contro il linguaggio privato che ne è una diretta conseguenza. Kripke
insiste sul fatto che questo argomento può essere colto in tutta la sua portata soltanto
rovesciandone l’interpretazione più comune e intuitiva: quando si parla di “argomento
contro il linguaggio privato” non si sta sostenendo che un particolare linguaggio, quello
privato, sarebbe impossibile e che noi potremmo prender coscienza delle nostre
sensazioni o del significato che le parole hanno per noi facendo in qualche modo
riferimento alla loro espressione pubblica, come se gli altri potessero esserci di qualche
aiuto a comprendere ciò che intendiamo. L’argomento è piuttosto strettamente
connesso alla questione di come sia semplicemente possibile il linguaggio nella sua
più assoluta generalità, come possa essere un mezzo attraverso il quale
comunichiamo tra noi se, come si è visto, non c’è alcun fatto a fondamento dell’uso che
facciamo dei segni in cui si articola. Kripke ammette di essere caduto egli stesso in
questo fraintendimento circa il senso dell’argomento wittgensteiniano. Sempre in
materia di confronti Kripke passa quindi a individuare un’analogia tra Wittgenstein da
una parte e due grandi esponenti dell’empirismo inglese quali Berkeley e Hume
dall’altra. Al primo sarebbe legato dalla priorità accordata al senso comune, che porta
entrambi a intendere i modi soliti di pensare che dal loro punto di vista sono erronei
come fraintendimenti del loro stesso senso, il più delle volte in Wittgenstein a causa di
analogie apparenti indotte dalla forma grammaticale delle proposizioni. E’ però al
secondo che Wittgenstein sarebbe legato da un rapporto particolarmente stretto, tanto
che si può riassumere la posizione di Kripke qui esposta nell’idea di un’analogia
profonda tra il modo in cui Hume critica il concetto di “causalità” e il modo in cui
Wittgenstein fa altrettanto rispetto a quello di “linguaggio” . Hume avanza infatti la tesi
9
che di due eventi non si possa dire che l’uno sia causa dell’altro a meno che non ci si
riferisca alle classi generali di eventi cui appartengono: se ad esempio affermiamo che
il fuoco è causa del calore che sentiamo, ciò è dovuto all’esperienza di una regolarità
della co-occorrenza tra certi tipi di eventi, riflessa nel fatto che possiamo parlarne
soltanto in termini generali. Certo, questa fondazione della causalità sull’abitudine può
lasciare piuttosto insoddisfatti: soprattutto non è chiaro in che senso un nesso che
riguarda tutti gli eventi di un certo tipo possa non valere per nessuno di essi in
particolare, né in che senso altri eventi dello stesso tipo possano aggiungere qualcosa
a una certa occorrenza del nesso tra coppie determinate di essi. Si tratta di dubbi
legittimi ma essi esulano dalla prospettiva scettica di Hume e non colgono pertanto la
specificità della soluzione che trova posto al suo interno. Del resto, nell’ambito
dell’argomentazione svolta da Kripke, non è necessario impegnarsi a una disamina
critica della tesi proposta ma di vederne le analogie rispetto al discorso seguito da
9 Questa analogia sarebbe però nascosta dalle seguenti circostanze:
1) Wittgenstein avrebbe detto di trovare la lettura di Hume “una tortura” [K. Briton, “Portrait of a
Philosopher”, The Listener vol.53, N. 1372 (16 giugno 1955), p. 1072].
2) Wittgenstein è animato dalla preoccupazione costante di confutare la concezione humeana degli
stati mentali (le idee come “impressioni”).
3) Hume si definì uno “scettico” mentre Wittgenstein non lo ha mai fatto, né lo avrebbe probabilmente
mai fatto; ciò sarebbe infatti andato contro l’intento dichiarato di salvaguardare il senso comune, il
più delle volte nel senso di una rottura rispetto alla filosofia precedente.
8
Wittgenstein nelle sue considerazioni intorno al linguaggio. Il modo più chiaro di
esprimere questa analogia è quello di vedere nella tesi di Hume un argomento contro
quella che Kripke chiama “la causalità privata”: così come Hume nega che la causalità
possa mai fondarsi su due eventi colti nella loro individualità, allo stesso modo
Wittgenstein nega che il linguaggio possa mai fondarsi nel nesso tra segni e significati
per come si presentano nell’interiorità di ognuno, come un fatto che riguardi lui soltanto
(“modello privato del linguaggio”). Anche in questo caso l’osservazione che gli altri non
possano in alcun modo intervenire sulle mie personali intenzioni, sensazioni e
attribuzioni di significato manca il punto di vista scettico e la soluzione interna ad esso.
Kripke ammette che in realtà la posizione di Wittgenstein quale emerge dalle “Ricerche
filosofiche” è molto più sfumata di come egli la presenti. Wittgenstein avrebbe
probabilmente rifiutato una simile schematizzazione del suo pensiero e insistito sul
fatto che anche le espressioni del linguaggio privato come “Jones col ‘+’ intende
l’addizione” possono avere un impiego del tutto legittimo nel linguaggio ordinario,
esprimendo in questo modo quell’attaccamento al senso comune che abbiamo detto
essere un aspetto condiviso con Berkeley . L’analisi immediatamente successiva delle
10
differenze tra la teoria del significato del “Tractatus” e quella che emerge dalle
“Ricerche filosofiche” è finalizzata a chiarire la funzione di una simile radicalizzazione
del pensiero di Wittgenstein. L’attenzione di Kripke si concentra sul passaggio dalle
“condizioni di verità” alle “condizioni di giustificazione” come criterio di sensatezza delle
proposizioni: se cioè nel “Tractatus” una proposizione aveva senso solo se raffigurava
uno stato di cose possibile che, nel caso fosse dato realmente, ne avrebbe determinato
la verità, nelle “Ricerche filosofiche” non si ricerca più la sensatezza delle proposizioni
nella corrispondenza a stati di cose possibili ma invece nelle circostanze in cui una
determinata proposizione potrebbe essere effettivamente impiegata e nell’utilità di un
11
simile impiego entro la più ampia dimensione umana cui appartiene. Questo
cambiamento di prospettiva si riflette in una posizione non più centrale dell’asserzione
rispetto alle altre possibilità espressive e in una critica della concezione realista in
matematica che segnano le “Ricerche filosofiche” fin dalle prime pagine, come
mostrano i molti esempi di giochi linguistici in cui tanto l’una quanto l’altra vengono
messe in discussione (Kripke accenna in particolar modo agli esempi introduttivi del
tipo “pilastro!” e a quello delle “cinque mele rosse”). Il passaggio dalle “condizioni di
verità” alle “condizioni di giustificazione” è rilevante non soltanto perché propone un
altro criterio di sensatezza delle proposizioni e un'altra teoria del significato a suo
fondamento; ancor più importante per il nostro discorso è lo spazio di manovra che
10 L’idea di Kripke è che proprio la priorità accordata al senso comune avrebbe impedito a Wittgenstein di
raccogliere le proprie argomentazioni in forma sistematica, in quanto in questo caso sarebbe stato difficile
presentarle altrimenti che come tesi contrarie al senso comune, fuori dal modo solito di pensare.
11 In che senso Kripke parla qui di “utilità”? Per come la mette Kripke sembra che questo sia un requisito
della sensatezza di tutte le proposizioni e sicuramente delle asserzioni, su cui si sofferma in particolar modo.
Ma in che senso un’asserzione è “utile”? Anche una constatazione dovrebbe quindi esserlo? Un’ipotesi è che
l’utilità consista in questo caso nell’informatività delle proposizioni, come ciò che consente una qualificazione
del loro cont