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DUE IDEALI DI GIUSTIZIA
Ci sono due ideali collegati che entrano in gioco quando si parla di giustizia e o in
modo congiunto o in modo separato ci portano ad avere una nozione di giustizia:
L’ideale dell’ordine, l’ordine è un’idea che risale ai primordi della civiltà, nelle
civiltà più antiche l’ordine dell’universo viene caratterizzato come un ordine di
tipo sociale (gli astri obbediscono alla divinità), le società animiste concepivano
l’ordine dell’universo come retto da leggi di tipo normativo, questo è il principio
della reciprocità d’imputazione per cui certi eventi naturali invece di venir
interpretati come causa-effetto venivano interpretati come colpa-pena. In
Hans Kelsen
uno studio di dal titolo Società e natura, Kelsen dimostra che gli
antichi non avevano il principio della causalità e tutti gli eventi erano
determinati da colpe che dovevano essere scontate.
Ogni totalità che sia ordinata ha bisogno di norme se parliamo della società e
leggi se parliamo dell’universo e canoni che prescrivano o determinano la
regolarità dei comportamenti. Ordine e legge sono due nozioni strettamente
connesse, l’ordine è garantito dal fatto che la legge venga rispettata,
questo rispetto della legge è ciò che chiamiamo giustizia.
È un concetto che in certi aspetti lascia scontenti, (libro I digesto de iustitia et
iure dispensa) l’aporia cioè i problemi che sollevano queste nozioni è che anche
una legge tirannica garantisce un ordine, mantenere la parola data è un atto
che conserva l’ordine, ma cosa garantisce che la nostra azione sia anche giusta
in senso sostanziale e non solo formale?
L’ideale dell’uguaglianza va ad integrare l’idea di ordine perché esprime
l’esigenza che per attuare la giustizia occorra non un ordine qualsiasi, ma un
ordine fondato su un principio che è quello per esempio della eguale
distribuzione degli onori e degli oneri. Le leggi vanno rispettate ma le leggi
devono rispettare alcuni criteri.
ARISTOTELE
Dobbiamo mostrare come nasce la distinzione tra giustizia come ordine e come
uguaglianza, l’autore che per primo ha elaborato tale distinzione in un contesto
Aristotele
particolare è nel trattato Etica Nicomachea del IV secolo a.c. in cui
abbiamo la compresenza di questi due concetti, il rispetto dell’ordine, della legge e
dell’uguaglianza. Il primo concetto coincide quasi con l’idea di moralità e di
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comportamento del bene, il secondo concetto di uguaglianza è più calzante per
l’organizzazione della società, tratta in particolar modo la seconda idea di giustizia.
Etica nel senso di studio del comportamento dedicata a Nicomaco, essa rappresenta le
origini della filosofia della giustizia e quest’opera parte dal senso comune dal
dikaion
linguaggio ordinario, la parola greca per giusto è e si trova anche nella
dikaiosune,
espressione giustizia ed è vista come una virtù cioè una disposizione
dell’animo a fare qualcosa che porta del bene, le virtù sono forme di medietà tra gli
estremi. È la persona che per Aristotele è giusta o ingiusta.
Dikaiosune ha due accezioni, è intesa sia come il rispetto dell’ordine sia come il
rispetto dell’uguaglianza e ci si chiede perché due cose così diverse hanno la
stessa accezione? In questo trattato Aristotele si occupa di cose giuridiche quindi il
rispetto della legge in senso ampio viene tralasciato e si concentra sul rispetto
dell’uguaglianza. Nella letteratura il primo significato cioè l’idea del giusto come
rispetto dell’ordine e della legge viene chiamato giustizia universale mentre il
rispetto dell’uguaglianza è la giustizia particolare. Questa è una disenia cioè il
doppio senso della giustizia.
Kant
Riepilogo: pone una contrapposizione dicotomica, da una parte c’è il codice che
è la fonte usata dal giurista per rispondere alla domanda quid iuris? Dall’altra parte c’è
la ragione che è la fonte del filosofo per rispondere alla domanda sulla giustizia e sul
diritto. Kant scrive questo in un trattato che etichetta metafisica dei costumi,
quando si parla di metafisica l’oggetto sono i costumi, i costumi nel linguaggio
ordinario sono le usanze, i modi di comportarsi delle persone che rivelano delle
regolarità. Rispetto alle usanze di comportamento noi possiamo porci in un’ottica
meramente descrittiva e questa è la base del sapere antropologo inteso come lo
studio delle usanze delle altre culture-della propria cultura. Ma con il termine
mores èthos
metafisica si intende dire che i costumi (i da cui deriva morale, in greco
da cui deriva etica) possono essere indagati dal punto di vista metafisico, cioè non
semplicemente descrivendoli ma anche spiegando se una certa azione che avveniva
secondo un certo costume fosse anche buona o giusta in sé. La metafisica dei costumi
era intesa come la ricerca dei principi dell’essenza dell’azione buona e giusta, veniva
cercato un principio che potesse giustificare perché un certo costume è buono e un
altro no. Questo discorso si trasformò in prescrittivo cioè si passò ad affermare che si
dovevano tenere questi comportamenti, questo è quello che fa Kant con la teoria degli
imperativi categorici ed ipotetici, partendo dalla osservazione delle usanze indagava
quali comportamenti fossero giusti in virtù di quali criteri e derivava la prescrizione.
Schopenhauer
Non tutti hanno questo approccio, per esempio in omaggio a Kant
scrive la Metafisica dei costumi ma non la intende come un’impresa che deve
prescrivere qualcosa agli uomini ma la intende come qualcosa che indaga partendo
dai sentimenti più profondi dell’uomo. Quando cerca di isolare il concetto di giustizia
parte dall’osservazione del sentimento che prova chi commette l’ingiustizia, perché
chi si avvantaggia rispetto all’altro prova un sentimento di rimorso, di pentimento.
Parte dall’osservazione dei fatti della nostra esperienza interiore, quando compiamo
un atto ingiusto la nostra volontà si afferma ai danni della volontà dell’altro. Questo
sentimento per Schopenhauer non è solo un’inclinazione psicologica ma ha una radice
più profonda. Questa ricerca ci mostra un primo concetto di giustizia che però è
primum
derivato o negativo perché il è l’esperienza dell’ingiustizia. Siamo comunque
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nell’ottica della metafisica dei costumi, quando Schopenhauer dice queste cose non si
basa su un codice ma su un’indagine razionale che muove dallo studio di questi fatti
dell’esperienza interna. Nell’idea di Schopenhauer c’era un punto dolente, è giusto il
comportamento che non è ingiusto cioè che non lede la volontà dell’altro, diceva: “a
un viandante che si è smarrito chi si rifiuta di indicare la strada non si dimostra
ingiusto ma è invece ingiusto chi lo indirizza per una strada falsa”. L’importante è
definire i l
imiti dell’ingiustizia, che riguardano la sopraffazione della volontà altrui, è un
problema di coerenza della definizione di partenza.
CONTENUTO POSITIVO DELLA GIUSTIZIA testo di Giorgio del Vecchio
Nella tradizione occidentale c’è un concetto positivo di giustizia importantissimo
che si può rintracciare già nella filosofia antica ed è l’idea che si deve restituire a
ciascuno ciò che gli spetta, mentre il torto è trattenere ciò che a una persona
Platone
spetta. Per la prima volta troviamo questa idea formulata in un’opera di La
Repubblica attribuita ad un poeta Simonide in cui troviamo scritto che la giustizia è
restituire a ciascuno il suo.
È un’idea che ritroviamo ancora oggi per esempio sul palazzo di giustizia di Milano c’è
Ulpiano
scritta una frase di (slide 48) un giurista del III secolo, i cui frammenti si
ius naturale
trovano nel digesto. A lui risale una famosa definizione dello inteso come
quel diritto che accomuna gli animali umani e gli animali non umani, è un’idea strana
iustitia est constans et
e inconsueta. Sul palazzo di giustizia si trova la frase: “
perpetua voluntas ius suum cuique tribuerei ”, qui c’è un’idea di senso comune perché
si vuole rimarcare la voluntas, significa che “la giustizia è la costante e perpetua
volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto”. Per Ulpiano sono tre i precetti del diritto:
Honeste vivere ->il vivere onestamente
Alterum non laedere -> non ledere gli altri che è proprio l’idea di
Schopenhauer.
Suum cuique tribuere -> dare a ciascuno il suo.
Per qualcuno questo è un climax perché si parte dal generale e si arriva al particolare,
per altri sono tre forme diverse ma quello che conta è dare a ciascuno ciò che gli
spetta.
Dal VI secolo d.C. arriviamo al XII secolo d.C. quando le scuole di diritto portano il
digesto nelle aule delle università e questo diventa l’insegnamento di base. Il destino
di questa idea è ancora più complesso infatti diventa proprio la definizione che dà
Tommaso d’Acquino
della giustizia uno tra i massimi filosofi-teologi occidentali cioè
che dice: “giustizia è quell’atteggiamento in virtù del quale un uomo di ferma e
costante volontà (riecheggia Ulpiano e Giustiniano) attribuisce a ciascuno il suo
diritto”. La summa theologiae che è il trattato con il quale san Tommaso con il metodo
delle questiones affronta tutte le questioni rilevanti per la giustizia e per il diritto parte
da questa definizione.
Se vogliamo ricercare l’origine di questa idea di dare a ciascuno il suo, la troviamo
Aristotele
espressa per la prima volta in un testo di , nell’Etica Nicomachea offre
una riflessione che condizionerà il pensiero posteriore, scrive nel IV secolo a.C. e parte
dall’idea che questa giustizia sia intesa come una virtù. La parola per giustizia è
dikaiosune ed è una disposizione a compiere delle azioni giuste. È necessario capire
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quali sono i criteri mediante cui consideriamo qualcosa come giusto o non giusto. Etica
dikaiosune
ha a che fare con i costumi e per Aristotele questo studio della viene fatto
e concepito come qualcosa che riguarda i comportamenti dell’uomo nella polis, quindi
non riguarda la vita familiare e non esiste giustizia nei rapp