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Liutprando la usa diverse volte, anche nella Legatio, ma qui la cambia, gioco espressivo della citazione
decontestualizzata e smontata.
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Ottone rispetta sempre i diritti della difesa, prima di condannare il papa manda qualcuno ad informarsi:
vengono presentati dei testimoni (lessico giudiziario), che però non lo convincono del tutto. Il lettore è
contro Giovanni, mentre l’imperatore continua a conferire il beneficio del dubbio, nonostante le accuse
tremende. Lo considera ancora un ragazzo (Giovanni aveva circa vent’anni), minimizza le testimonianze.
Sperabo è più forte di “sperare”, indica “sono convinto”, una speranza fondata. Ottone, nel suo discorso, li
considera peccati banali, superabili facilmente; fa così la figura di un ingenuo, il lettore è più avanti nella
scusa, ma così facendo Liutprando presenta un gioco letterario: Ottone appare più corretto.
L’autore cita nuovamente Terenzio, l’Handria: in essa, prima commedia del corpus, il commediografo
rappresenta un vecchio saggio e il figlio scapestrato. Diversi punti del testo sono un rimando all’opera
terenziana, dallo stesso contesto. Vi è anche una citazione biblica da un Salmo, il profeta è David, frase
usatissima nel Medioevo, haec... excelsi, proverbio per indicare che Dio vuole un determinato cambiamento,
non è in mano umana.
Ottone è comunque un regnante, perciò prima di tutto adotta una strategia militare, sconfiggere Berengario
per poi rivolgersi (fisicamente, conveniamus) al papa, per farlo divenire un uomo maturo. Feretrato è
Montefeltro, la rocca di San Leo. Anche qui vi è Terenzio, dalla stessa opera precedente, in virum...
commutabit. Vi è un problema testuale riguardante la paterna abdicatio: la maggior parte delle traduzioni
riporta “rimprovero paterno”, ma abdicatio significa “rinuncia”, al limite “cacciata”; solo Cutolo traduce
“rinunciando ai nostri privilegi paterni”, frase che non ha molto senso. Non si capisce nemmeno l’esatto
valore dell’ablativo, sono strane sia la struttura sintattica che quella lessicale. Un editore ottocentesco aveva
considerato sbagliata la parola, congetturando abiudicatione al posto di abdicatione: effettivamente è un
termine usato per una condanna, ma troppo giuridico, e comunque non risolverebbe il problema sintattico.
Altra possibilità è che sia saltata una parte del testo: il papa non è legato al momento a Berengario, ma ad
Adalberto, che però manca; nei fatti Ottone imprigionerà Berengario e lo costringerà ad abdicare, perciò
paterna abdicatione potrebbe riferirsi ad Adalberto: mancherebbe però un passaggio nel testo.
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Subito Ottone raggiunge, navigando il Po, la rocca di San Leo, mettendola sotto assedio. Nel frattempo il
papa gli manda un’ambasceria, Leone e Demetrio; necnon et, costruzione pesantissima, è forma tipicamente
medievale, per rinforzare la particella. Leone è protoscriniario, all’epoca primo segretario (a Roma spesso si
hanno cariche che rimandano ai bizantini), al tempo della composizione dell’opera papa Leone VIII, eletto
alla deposizione di Giovanni; Demetrio è invece un laico, il più illustre dei nobili romani. L’ambasceria è
nelle componenti simile a quella del primo capitolo, ecclesiastico e laico. Mando è verbo tipico delle
ambascerie, significa “mandare a dire”, molto comune. Alieno... more è nuova citazione dall’Handria. In più
Giovanni manda a dire cose in malafede, richiamandosi al patto feudale: il patto era di restituire le terre al
papa con un patto feudale, ma secondo l’accusa del papa Ottone le conquistava per sé; seconda accusa è che
Ottone stava dando ospitalità a Leone e Giovanni, vescovo e cardinale ribelli, infideles, al papa. L’oratio
obliqua non è perfetta.
Ottone risponde ringraziando la promessa di cambiare modi. Arguo regge genitivo di causa: di nuovo
l’imperatore si fa garantista, ricordando che tutto ciò che libererà dello Stato della Chiesa verrà restituito,
motivo per cui sta combattendo Berengario, per prendere i territori e poi restituirli. Tuttavia Giovanni parlava
delle persone, non delle terre, così rispondendo Ottone sembra giocare sporco, perché non parla dei feudatari.
Per quanto riguarda la seconda accusa, l’imperatore rigira l’accusa, è proprio il papa a dare protezione ai due
uomini, che tramano contro di lui; si ribadisce l’aspetto di malafede, dolose. Viene inserita anche una frase
che doveva fare molto impressione all’epoca: i Bulgari avevano un grande impero nel sud dei Balcani,
considerati barbari ma cristiani, mentre gli Ungari erano gli Unni dell’epoca; tale Salecco viene così messo
in cattivissima luce, e con lui il papa; così anche il fatto che Zaccheo sia un pessimo soggetto, delinquente ed
ignorante, ma consacrato vescovo proprio dal papa.
Liutprando va in crescendo, parte dal ringraziamento al papa per poi muovere un’accusa gravissima. Infine
viene posta una frase di incredulità verso l’operato del papa, molto aspra: si capisce finalmente perché
Ottone aveva temporeggiato, dato che l’ultimo testimone è una lettera firmata dal papa stesso.
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L’atteggiamento di Ottone rimane lo stesso, nonostante la conclamata perfidia del papa: manda perciò
un’ambasceria a Roma, per discolparsi dalle accuse del papa. Entra in scena Liutprando in persona, che da
questo momento in poi diventa protagonista dei fatti raccontati. Landoardo è un vescovo della Sassonia,
dunque molto fedele ad Ottone, e insieme a lui viene inviato proprio l’autore del testo. Italia designa, in
Liutprando, il Regnum Italiae, ovvero l’Italia centrosettentrionale, specie la pianura padana.
I due vescovi sono mandati, secondo la prassi normale, insieme agli ambasciatori del papa: è un’“ambasceria
di ritorno”. Satisfacturos ha sfumatura finale, di origine classica. Alle guardie degli ambasciatori viene
ordinato di dimostrare la sua innocenza con un duello: nel Medioevo il duello era una pratica giudiziaria,
qualora il giudice non fosse in grado di dimostrare la verità; alla radice sta la concezione religiosa, il giudizio
viene affidato a Dio. Ancora Dante esporrà, con argomenti teologici, la ragione del duello; San Tommaso,
invece, l’aveva bollata come stupida; Liutprando non ha bisogno di spiegare la pratica, molto diffusa ai suoi
tempi.
L’accoglienza riservata ai vescovi è descritta ironicamente da Liutprando, risulta chiaro che il papa non li
voleva al proprio cospetto. Nonostante i giuramenti dei vescovi e la proposta di duello, il papa non cambia
parere, rimane nella duritia mentis, l’ostinazione, espressione biblica. Manda invece due suoi messi insieme
agli ambasciatori che tornano, Giovanni di Narni, che diventerà papa, e il cardinale Benedetto: rilancia la
posta in gioco, subdolamente. L’espressione verba dare è classica, risale a Terenzio; l’ambasceria gli
permette infatti di prendere tempo, permettendo ad Adalberto di giungere a Roma: per questo la mossa viene
indicata con subdole. Adalberto era fuggito dai musulmani a Frassineto, ora torna a Civitavecchia, il porto di
Roma, per poi venire accolto dal papa con tutti gli onori nell’Urbe. Honorifice viene costantemente usato da
Liutprando per indicare la buona accoglienza, è quasi una formula fissa, usata con suscipio, vox media, non,
come in italiano, “accogliere (positivamente)”. Si crea così una situazione di aperta ostilità, perché il papa
accoglie il nemico di Ottone.
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Questa volta Ottone scende a Roma non in pace. All’inizio del capitolo Liutprando si permette una
descrizione astrologica, zodiacale, per l’estate del 963, di chiara matrice classica. I nordici, generalmente,
non erano abituati alla calura estiva in Roma, era pericoloso andarci: perciò Ottone aspetta qualche mese,
ovviamente per non gravare l’esercito. Tra agosto e settembre marcia su Roma dietro invito segreto dei
Romani: è un’indicazione importante, perché l’imperatore non prende l’iniziativa, risponde ad una richiesta,
come era successo prima. Liutprando fa notare che Ottone non è arrogante, è un parallelo con invitante
riferito a Giovanni e Adalberto nel capitolo precedente: il papa invita il nemico, i Romani l’imperatore. Clam
è un nuovo fronzolo stilistico, dopo l’indicazione zodiacale: è una climax, un gioco retorico, perché subito
smentisce che sia di nascosto; c’era stata infatti un atto ufficiale, con concessione di ostaggi.
I fatti di cui si parla li conosciamo da poche fonti, ma sappiamo che la pratica dietro a ciò era tipica: una
parte dei Romani si era ribellata al papa, occupando il castello di San Paolo, vicino all’omonima basilica
fuori dalle mura aureliane. Il castello era molto importante nel Medioevo: se veniva occupato, si poteva
dominare tutta la città, come una caserma; qui si ha un’idea di castello fuori città contrapposto a Castel
Sant’Angelo, dentro la città, l’occupazione ha il significato di avere una fortificazione dove mettere le
truppe. Per rafforzare la richiesta d’aiuto, inoltre, i capi mandano degli ostaggi, probabilmente i figli: anche
ciò si iscrive nel concetto di feudalesimo.
Continua con le domande retoriche, un’espressione classica con congiuntivo dubitativo, una frase fatta.
Castrametatus può essere nominativo assoluto o, più probabilmente, sottintendere un est. Non c’è nemmeno
battaglia, il papa e Adalberto fuggono, ma evidentemente è guerra aperta. I Romani confermano la loro
fedeltà, offrendo ad Ottone la scelta sul nuovo papa. Eleggere ed ordinare il papa sono due azioni diverse,
separate da qualche giorno, perciò Liutprando le tiene distinte. Si capisce che i Romani sono tenuti ad
eleggere il papa in accordo con l’imperatore Ottone, non con l’istituzione imperiale in sé, nuova immagine
del patto personale; comunque, ovviamente, gli imperatori successivi faranno leva su questo patto.
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Plebs indica la popolazione in generale, non solo quella bassa: insieme ai vescovi si riunisce a San Pietro per
un sinodo peculiare, data la presenza di laici; inizia così la lista dei nomi dei partecipanti, che introduce una
parte dell’opera, fino al capitolo 15, che ricorda un verbale, a dare maggiore forza storica alla propria opera.
Non si rintraccia, se non in alcune frasi di raccordo, la presenza dell’autore, ma probabilmente non sono i
veri atti del sinodo. I nomi vengono presentati in ordine gerarchico e geografico, a partire dai tre
archiepiscopi dell’Italia del nord, Aquileia, Milano e Ravenna: Ingelfredo di Aquileia, tuttavia, è malato,