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Estratto del documento

C

così una prima rappresentazione stemmatica:

Ma ω è ingiustificato, basta pensare che C abbia fatto degli errori direttamente dall’archetipo. Inoltre bisogna

considerare che A ha delle innovazioni che migliorano di molto il testo.

Dopo il contributo di Hall, gli si affianca nello studio l’allieva Katherine Keats-Rohan, nel 1986. Il suo

nuovo articolo di preparazione all’edizione dà notizia di nuovi manoscritti, H, K ed alcuni estratti non ancora

censiti. Si arriva alla recensio definitiva del Metalogicon, ma il resto è un ribaltamento dell’analisi di Hall: A

assume ruolo dominante, anche prima della correzione, ma non ha dimostrazioni filologiche. Inoltre le

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lezioni che entrano con le correzioni (A ) sarebbero varianti d’autore, ovvero una seconda redazione; C viene

poi screditato ed escluso, basandosi sul fatto che, contenendo troppi errori, non può essere quello di dedica a

Beckett (Orlandi bollò come ridicola questa ipotesi, perché Metalogicon e Policraticus sono opere enormi da

copiare, è umano fare degli errori); inoltre C non avrebbe mai lezioni autentiche da solo, ma

quest’osservazione è la normalità in una tradizione. Altra osservazione è che H e K, codici nuovi, sono vicini

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ad A , giudicate esatte contro quelle di A , B e C. 1 2

Il risultato di queste osservazioni è una descrizione della tradizione di questo tipo: A →A HK.

Nel 1991 Hall e Keats-Rohan pubblicano per il Corpus Christianorum il Metalogicon secondo questo nuovo

schema interpretativo, tenendo A come manoscritto guida, occasionalmente corretto con H e K. Non si dà

uno stemma ma l’apparato è completo. La studiosa va avanti sul Policraticus da sola, e nel 1993 pubblica i

primi quattro libri: tale edizione è basata sullo stesso schema base dell’opera precedente. Le recensio è quasi

completa, ma propone uno stemma solo su una parte. (cfr. p. 2 dispensa)

La prima redazione dell’opera (ω) avrebbe solo il manoscritto A come testimone, poi una seconda redazione

1 2 2

non controllata dall’autore (ω ) con testimone B, e una terza redazione riferita di nuovo all’autore (ω ) con A

e gli altri codici. Il problema dello schema è che la studiosa mescola lezioni adiafore con lezioni erronee,

considerando alcuni errori come varianti d’autore. 2

Su questa base la constitutio textus segue dichiaratamente la seconda redazione dell’autore (ω ), ma di fatto è

contaminato da lezioni di A ed R.

Due studiosi si resero subito conto della pochezza di questa edizione: l’inglese Michael Winterbottom e

Giovanni Orlandi. Il primo, nel 1995, non vede perché A debba avere tale predominante qualità, e soprattutto

si accorge che i correttori principali di A sono due, uno più cauto e uno più netto: la situazione è perciò più

problematica. Inoltre Winterbottom propone alcune emendazioni rivelatesi poi il testo autentico, trascritto

male dalla Keats-Rohan. Nel 1997 Orlandi inserisce delle sue valutazioni in un articolo che ragiona in

generale su come si fanno recensio e apparato critico: per lui il rigettare C addirittura dall’apparato è un

errore gravissimo, specie perché il manoscritto, presenta aggiunte marginali d’autore. Sono infatti prodotte

da una mano diversa dai copisti e dai correttori, che nel codice è presente solo qui, e sono passi che il copista

non avrebbe mai omesso per errore, perfettamente eliminabili e, infine, varianti erudite.

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Il presupposto per una nuova edizione è considerare nuovamente C, e con esso l’intera tradizione, per capire

se il codice presenta veramente varianti d’autore. Si è collazionato perciò una decina di manoscritti, i più

antichi (fine XII - inizio XIII secolo): da questa collazione si trovano dei loci critici, che permettono la

ricostruzione genealogica, fino al XV secolo. In totale si sono visti 35 manoscritti (cfr. dispensa pag. 1). Da

ciò si verificò che Orlandi aveva ragione, C è molto importante, e si riuscì a creare un albero genealogico

ragionato, grazie ad una serie di passi (cfr. dispensa p. 32).

Il primo è in Polycraticus II, 11, episodio relativo ai segni soprannaturali della morte di Cristo: il trattato è

infatti molto disteso, quasi colloquiale, e si ritrovano episodi che esulano dall’argomento strettamente

principale, che riecheggiano i trattati classici. I primi libri sono dedicati soprattutto alla corte del principe,

che può spingerlo a degenerare, con attività molto praticate nelle corti, cacce, giochi etc. Tra le figure di cui

Giovanni parla ci sono i maghi e i negromanti, perciò si espande in un excursus sui segni sovrannaturali,

enumerando quelli presenti nel vangelo sulla morte di Cristo, in particolare sull’eclissi, che

astronomicamente non poteva succedere: è perciò un segno divino, al contrario di quanto sostengono

razionalmente gli ebrei.

Il testo di risposta all’ipotesi giudaica è presente in nota solo in C (cfr. p. 3): in essa si parla di Dionigi

Areopagita, che ascoltando la “fallimentare” predicazione di Paolo ad Atene si sarebbe convertito; la sua

storia è un mito, per cui un anonimo greco scrisse nel VI secolo a suo nome delle epistole (p.e. sulla dormitio

Virginis) e quattro trattati d’impianto neoplatonico (ci si rifà a Proclo) in cui vengono descritte le gerarchie

angeliche ed ecclesiastiche, un trattato sui nomi divini ed uno sulla teologia mistica basata

sull’inconoscibilità di Dio (teologia negativa o apofatica). Tutto il corpus c.d. areopagitico venne poi tradotto

in età carolingia (Ludovico Pio, tradotto prima da Ilduino di Saint-Denis, poi da Giovanni Scoto Eriugena)

dall’irlandese in latino, e fu determinante nella teologia medievale. Recentemente venne formulata un’ipotesi

sull’autore dell’opera, che sarebbe il pagano Damascio, ultimo scoliarca dell’Accademia (cfr. Mazzucchi):

sarebbe la più geniale falsificazione di sempre, per intessere il cristianesimo di morente platonismo.

Da parte di Giovanni di Salisbury è una citazione molto importante, quasi come citare il Nuovo Testamento,

che affronta la questione sul piano della ratio e soprattutto dell’auctoritas, come aveva appena finito di dire:

è dunque molto pertinente, anche se non indispensabile, è un approfondimento di ciò che è appena stato

detto. Inoltre fa riferimento ad una fonte colta e raffinata: tutti elementi che fanno pensare ad una variante

d’autore, anche perché difficilmente sarebbe stato saltato da un copista.

Non hanno questo passaggio diversi manoscritti, tra cui S. In quest’ultimo il testo di una colonna di sinistra

(cfr. p. 7) è stato raschiato e sostituito da quello che c’è ora; è l’unico manoscritto a comportarsi così, gli altri

riportano il passaggio in margine. In M c’è però una particolarità, la nota (introdotta elegantemente) è

introdotta dal copista, forse distratto o perché copiava da un testo pieno di note a margine; è una stranezza,

che ci fa pensare che il suo esemplare non fosse scorrevolissimo. Un manoscritto inglese del XIII secolo, F,

succede la stessa cosa che in C, la mano che fa tale aggiunta è diversa da quella degli altri copisti; stessa cosa

succede per il coevo francese Ro, ma l’aggiunta qui è del copista. Nel manoscritto Z l’aggiunta è messa in un

posto sbagliato, perciò il copista aggiunge un rimando un po’ confuso. I manoscritti M, Ro e Z sono in

posizione particolare nello stemma.

Altro esempio è in VIII, 7, libro finale che si rifà sopratutto ai Saturnalia di Macrobio, uno degli ultimi

esponenti (inizio V secolo) della cultura pagana latina. La sua opera è un dialogo avvenuto nella finzione

durante i Saturnali, con dei personaggi importanti, tra cui Quinto Aurelio Simmaco, che fanno capire

l’intento dell’opera di Macrobio, che rievoca tutte le tradizioni romane. È una delle maggiori fonti del

Polycraticus, sia per i contenuti, parafrasati, che per il tono dotto. In un episodio uno dei dialoganti

ripercorreva le leggi romane sugli usi, come le leges sumptuarie, qui sui banchetti. Per Giovanni anche qui

sono usi da condannare, e in questo caso punta il dito contro il papa Metello. Portunianus è una versione

scorretta di Postumianus. Qui si lancia contro una famigerata cena del pontefice, ma il menu, presente in

Macrobio, è solo in margine in C. Anche la frase successiva è ripresa esattamente da Macrobio, poi varia in

parte, e si dice che, se si vuole conoscere il menu, bisogna consultare i Saturnalia, e ciò sarebbe in linea con

l’ipotesi che inizialmente non ci fosse il menu. Ma non avrebbe senso dire ciò mentre si dice tot rebus facta

fuit, ovvero si richiama ad una quantità di cibo non spiegata prima. Anche sui manoscritti la questione è

spinosa.

Nel Metalogicon ci sono dei passi che ci aiutano a risolvere la questione; in I 22 Giovanni di Salisbury parla

di Seneca, il cui stile non piace a Quintiliano, ma a lui sì. Punto critico è il giudizio dell’imperatore Caligola:

è a margine di C e K, che non è legato a C, interno al testo negli altri. In K interviene il correttore abituale.

Stessa cosa succede in Met. II 20, in un passo dove si trattano gli universali con intermedio buon senso tra

nominalismo e realismo. Chiama di nuovo in causa Dionigi Areopagita ed Agostino. Che Giovanni sia

cultore di Dionigi è confermato da sue posteriori lettere a Giovanni Saraceno, che opera in Francia,

traduttore dal greco a cui vengono commissionate proprio le opere dello Pseudo-Dionigi. Uno dei chierici di

Canterbury, Rodolfo di Reims, possedeva questi libri, da cui probabilmente Giovanni di Salisbury attinse

dopo la prima stesura dell’opera. Questo brano è nuovamente presente nel testo di tutti i codici tranne di C e

K, che lo hanno a margine (in K si usa la rasura e si sconfina nel margine; è sempre il correttore abituale).

Da questi due elementi capiamo che a monte di K e C doveva esserci qualcosa di particolare; in entrambi si

aggiunge poi nello stesso punto un titoletto a margine; in un altro punto delle righe hanno una rasura su cui è

riscritto un passaggio con termini in greco (cfr. p. 37), ma in maniera diversa in C e K: comuni sono solo i

termini greci. Dunque all’inizio Giovanni aveva posto dei termini latini, per poi riscriverli in greco,

ampliando il testo. Del Metalogicon esiste però una raccolta di estratti, tra cui è presente anche questo passo

prima della correzione, con i termini latini: tutto il passaggio coi termini greci parte da secundum graecos.

Perciò le variazioni di C sono quattro, tutte con la stessa caratteristica, varianti erudite con riscontro di

problematicità.

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Dettagli
A.A. 2015-2016
16 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/04 Lingua e letteratura latina

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Gneo Giulio Agricola di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Filologia mediolatina e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Guglielmetti Rossana.