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XIII CAPITOLO
Riassunto:
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Aristotele circoscrive ulteriormente le azioni da imitare ed i personaggi da mettere in scena. Il
filosofo fa tre esempi di personaggi non tragici. In primo luogo l'uomo nobile, perché il suo
passaggio dalla felicità all'infelicità non genera pietà e terrore ma ripugnanza. Segue poi l'uomo
ignobile che passa dalla infelicità alla felicità e, infine, l'ignobile che passa dalla felicità alla
infelicità, perché malgrado soddisfi il pubblico non genera alcun effetto di pietà e terrore. Infatti si
prova pietà per l'innocente e immeritatamente colpito da sventura, terrore per chi ci somiglia. Ne
consegue che il vero personaggio tragico è quello che non si distingue né nella virtù né nel vizio e
che passa dalla felicità all'infelicità solo a causa di un errore; se ciò non è possibile, tutt'al più si
dovrà mettere in scena un uomo migliore di noi, non peggiore. Le tragedie che raggiungono meglio
l'effetto catartico sono quelle con il finale più doloroso: per questo motivo Aristotele definisce
Euripide “il più tragico di tutti i poeti”, sebbene nella struttura (come specificherà nei capitoli
successivi) sia più debole di altri. Si devono invece evitare quelle tragedie con una “duplice
combinazione di casi”, ossia con un duplice e contrario scioglimento per personaggi migliori e
peggiori: ad esempio che Oreste, invece di uccidere Egisto, faccia pace con lui.
La persona che finisce male deve avere qualcosa che non va; nell’Edipo re, per esempio, l’errore
consiste nell’aver tentato la fuga da Corinto o di aver contrastato la volontà divina. L’errore più
grande, al limite del crimine
XIV CAPITOLO
Riassunto:
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Aristotele pone attenzione ora sul “valersi bellamente” del mito tradizionale (soprattutto quello che
mette in scena uccisioni fra consanguinei) nella composizione della tragedia. Essa può operarsi in
quattro modi, che implicitamente Aristotele divide secondo gerarchia, secondo il precetto che un
eccidio lo si può “o fare o non fare consapevolmente, o fare o non fare inconsapevolmente”. Agire
coscientemente ma poi non portare a termine è considerato dal peripatetico il modo peggiore,
perché non tragico e non porta alcuna catastrofe (Emone che non uccide Creonte nell'Antigone di
Sofocle). Immediatamente successivo è agire coscientemente e portare a termine, come nella Medea
di Euripide, tipico dei poeti antichi. Segue agire incoscientemente e portare a termine, da cui
scaturiscono pietà e terrore non appena avviene il riconoscimento (Edipo re). Infine l'ottimo fra tutti
agire incoscientemente e non portare a termine, come il mancato sacrificio di Oreste nell'Ifigenia
inTauride.
XV CAPITOLO
Riassunto:
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Aristotele delinea ora il buon carattere tragico. In primo luogo egli deve essere nobile nel senso di
inclinazione morale e quindi possibile in ogni tipo di persone, anche nei servi e nelle donne. Il
secondo punto è la coerenza con la specie e la condizione a cui appartiene: così il carattere virile si
realizzerà in maniera diversa in Antigone rispetto ad Oreste. Il terzo punto è che siano coerenti con
la tradizione mitica, ossia coerenti con l'originale che imitano. Il quarto ed ultimo punto è la
coerenza con se stesso: un caso particolare di coerenza è se il personaggio è incoerente con se
stesso, in questo caso la mimesi dovrà evidenziare questo carattere “coerentemente incoerente”. Il
trait d'union tra queste quattro varietà è dato dal fine di improntare al carattere un senso di nobiltà e
grandezza, malgrado le sue infermità di carattere: il carattere deve essere come un quadro che,
sebbene non venga meno alla somiglianza, è tuttavia più bello dell'originale. Nello stesso capitolo
pone inoltre attenzione all'artificio scenico (deus ex machina) che non deve interferire con la
struttura tragica (ad esempio il suo scioglimento), ma solo per narrare agli spettatori quanto avviene
fuori scena, sia esso prima o dopo la vicenda.
XVI CAPITOLO
Riassunto:
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Aristotele esamina ora i sei generi di riconoscimento. Il primo è quello tramite “segni”, ad esempio
un anello (Oreste ed Elettra) o una qualche cicatrice (Odisseo e la nutrice). Il secondo è quello
creato artificialmente, come Oreste nell'Ifigenia in Tauride, che non usa alcun oggetto ma dice
solamente di essere Oreste. Il terzo è il riconoscimento tramite memoria, come ad esempio Odisseo
che riconosce il citarista presso la tavola di Alcinoo grazie al suo canto. Il quarto è il riconoscimento
tramite sillogismo, come nelle Coefore di Eschilo in cui Elettra riconosce Oreste per la somiglianza
fisica, in quanto nessun altro poteva assomigliarle se non il fratello. Il quinto consiste nel
paralogismo (ragionamento imperfetto dovuto ad un errore logico). È il caso dell'Odisseo falso
messaggero, nel quale l'eroe travestito si fa riconoscere mediante la prova dell'arco, cosa che non ha
alcun presupposto nella scena (non c'è infatti, come nell'Odissea, alcuna Penelope che dà il
presupposto logico); il riconoscimento in questione si rivela quindi artificioso, perché non avviene
tramite l'azione teatrale, ma solo grazie alla conoscenza del pubblico del poema omerico. Il sesto
genere consiste invece nell'azione medesima, come ad esempio il riconoscimento nell'Edipo re.
XVII CAPITOLO
Riassunto:
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Il filosofo dà ora delle norme basilari e dei consigli per comporre un buon intreccio tragico. Il poeta
deve avere ben presente l'azione come schema, che poi dovrà suddividere in episodi e svolgerli
secondo necessità, ad esempio tenendo ben presente di tenerli compatti e collegati tra loro. Questi
episodi devono essere molto concisi nella tragedia, mentre possono avere una considerevole
estensione nell'epica in quanto fanno da corollario all'argomento generale dell'opera (per esempio,
Scilla e Cariddi è un episodio non legato alla struttura drammatica dell'Odissea).
Sia nello stendere la trama che nella sceneggiatura, l’autore deve vedersi davanti agli occhi la
rappresentazione finale e vedere quindi questa operazione dal punto di vista non proprio ma dello
spettatore. Certe cose scontate per l’autore potrebbero risultare incomprensibili per chi guarda.
XVIII CAPITOLO
Riassunto:
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Si distingue il nodo dallo scioglimento: il primo va dalle vicende esterne alla trama (quelle date
assodate dalla tradizione, come Clitennestra che uccide Agamennone) alla parte che
immediatamente precede il mutamento dalla felicità all'infelicità, mentre lo scioglimento va da
questo fino al termine del dramma (Edipo che si acceca e viene cacciato da Tebe). La creazione
poetica si distanzia dal mito proprio in virtù di questi due elementi (il mito dell'Orestea è quello ma
può avere più nodi e scioglimenti) i quali debbono essere ben accordati tra loro. A seguire viene la
distinzione della tragedia in quattro tipologie: quella complessa (peripezia e riconoscimento), quella
catastrofica, quella di carattere e quella di spettacolo. Questi quattro elementi devono essere riuniti
per costruire una tragedia perfetta, che inoltre deve avere il coro come personaggio del dramma e
non deve essere di fattura epica (ossia mai narrare una tragedia con più di un mito).
Aristotele esplicita 4 tipi di tragedia. Nelle tragedia di carattere la caratterizzazione dei personaggi è
fondamentale e in questo caso il colpo di scena e il riconoscimento sono marginali: questa non è la
tipologia prediletta da Aristotele ma comunque esiste. Nel secondo tipo la tragicità è nella gravità
dei fatti ma non nella particolare struttura degli avvenimenti. La quarta non si dice cosa sia ma, dai
titoli, si capisce che si stanno catalogando tragedie sostanzialmente horror. La cosa più interessante
è quella delle righe successive; nella tragedie contemporanee ad Aristotele (a noi quasi
completamente sconosciuta) si verifica che questi 4 tipi anziché essere separati tendono ad essere
compresenti. Ci vogliono colpi di scena e riconoscimenti quindi, sciagure, i caratteri devono essere
sviluppati e anche qualche elemento horror. Prima si avevano generi separati che vedevano persone
specializzate; il pubblico pretende successivamente che l’autore comprenda tutti e 4 i generi.
XIX CAPITOLO
Riassunto:
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Aristotele passa ora all'analisi del terzo elemento costitutivo della tragedia, il pensiero, che adotta il
linguaggio per esprimersi. Il pensiero appartiene alla sfera della Retorica ed è lì analizzato, ma
viene utilizzato nell'azione drammatica per destare emozioni. Ciò che differenzia il pensiero
drammatico da quello oratorio è il fatto che il primo si esplica nitidamente tramite l'azione, mentre
il secondo tramite il discorso di chi parla.
XX CAPITOLO
Riassunto:
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In merito alla elocuzione, Aristotele lo distingue in lettera, sillaba, congiunzione, nome, verbo, caso
e proposizione. La lettera è una voce indivisibile che può diventare elemento di una voce
intelligibile: si distingue in vocale (non condizionata dal luogo o dal modo di articolazione),
semivocale (consonante che ha suono di per sé, Σ) e muta (consonante che ha suono solo con
l'aggiunta di un altro elemento, Δ). Le lettere differiscono, oltre che per modo e luogo di
articolazione, per suono (tenue, medio, intenso), accento (acuto, grave, circonflesso) e quantità
(lunga, breve, ancipite). La sillaba è anch'essa una voce indivisibile costituita però da una muta e
una vocale/semivocale. La congiunzione è una voce senza significato che né impedisce né favorisce
la formazione della frase. Il nome e il verbo sono voci significative composte le cui parti prese
singolarmente non significano nulla (“Teo-doro”, δωρον non ha l'usuale significato di dono in tale
nome), l'una senza idea di tempo e l'altra con; entrambi inoltre si declinano e si coniugano in casi
(nominativo-genitivo-ecc, singolare-plurale, indicativo-congiuntivo). Anche la proposizione è una
voce significativa composta, con la differenza che le sue parti possono avere un significato
autonomo; le parti possono essere unite significando una cosa sola (Iliade) oppure legate assieme da
congiunzioni (la definizione di uomo)
I cap. 20 e il cap. 21 che sembrano quasi estranei nell’opera perché trattano uno della metafora e
uno delle forme del linguaggio. Il problema della struttura del linguaggio