Riassunto esame Etnologia, prof. Meschiari
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invertebrati con pochi punti in comune). I geni, di contro, indicano che i protostomi sono divisi in
due sottogruppi: gli ecdisozoari (animali a scheletro esterno e vermi cavitari) e i trocozoari
(molluschi, anellidi, vermi piatti). I primi animali, con un’organizzazione molto semplice, come le
spugne, non avrebbero posseduto cellule nervose. In seguito, la comparsa degli animali con
un’organizzazione più complessa, dotati di cellule muscolari, simili ai polipi e alle meduse, sarebbe
andata di pari passo con l’acquisizione di neuroni. Infine, l’acquisizione, negli antenati dei bilateri,
di un corpo allungato e di uno stile di vita attivo, sarebbe concomitante all’acquisizione di un
sistema nervoso più concentrato. Gli animali in cui il cervello è più sviluppato (vertebrati) sono
imparentanti anche con altri effettivamente privi di cervello (procordati ed echinodermi) Tutto
sembra concorrere ad indicare che i diversi tipi di cervelli si sarebbero evoluti indipendentemente
negli animali più attivi. Lo scenario di un’evoluzione separata di diversi tipi di cervello nei bilateri
può essere iscritto molto bene nei limiti della teoria tradizionale sull’evoluzione del piano di
organizzazione. Queste teorie considerano un ultimo antenato comune dei bilateri (detto
Urbilateria) con organizzazione semplice. Questa ipotetica forma ancestrale è tavolata dotata di un
protocervello, ma si tratta solo di una modesta concentrazione di cellule nervose a livello della parte
anteriore del corpo. Questo organo ridotto è adatto agli ipotetici bisogni minimi di questo animale,
generalmente un minuscolo verme. A partire da questo minuscolo animale è facile immaginare che
alcuni suoi discendenti saranno dotati di organi sensoriali più sofisticati, di un modo di locomozione
più efficace, e di conseguenza, di un cervello più sviluppato diviso in due regioni specializzate.
L’idea che l’antenato dei bilateri disponesse già di un cervello elaborato è lontana, al momento ,
dall’essere accettata dall’umanità. Infatti questo dibattito è strettamente legato alla questione della
complessità generale di Urbilateria. Per molti, le sorprendenti similitudini scoperte circa la funzione
dei geni durante l’ontogenesi tra gruppi distanti, non riflettono necessariamente il carattere
ancestrale delle strutture che essi determinano. In un certo qual modo, per le semplici funzioni che
questi geni assumerebbero, numerosi geni dello sviluppo sarebbero stati cooptati in più riprese in
gruppi distanti per assumere delle funzioni relativamente comparabili. Si può quindi in questo caso
mantenere l’ipotesi di un antenato semplice, sia anatomicamente che geneticamente; questo
antenato avrebbe già posseduto tutti gli strumenti che permettono di costruire una morfologia più
elaborata.
Secondo l’ipotesi di Arendt e Nubler-Jung la struttura del cervello si sarebbe considerevolmente
ridotta in un gran numero di gruppi animali. Una tale idea sembra andare a priori contro il buon
senso. Noi abbiamo la tendenza a ritenere che il cervello conferisce un vantaggio biologico decisivo
nella competizione per la vita. Lo stile di vita attivo che permette il funzionamento di un cervello
sarebbe naturalmente più efficace rispetto ad uno stile di vita più passivo. Perché in queste
condizioni immaginare la perdita secondaria di questi vantaggi? Infatti, quando si considerano i
gruppi di animali bilateri nei quali è assente un vero cervello, ci si persuade che questi gruppi
corrispondano spesso a degli animai fissi o poco attivi. E’ il caso delle ascidie e gli anfiossi, i più
vicini parenti dei vertebrati. Le funzioni assicurate da un cervello complesso negli antenati attivi di
questi gruppi non sono più necessarie negli animali che si sono adattati ad uno stile di vita
sedentario. La perdita della struttura che assicurava queste funzioni diviene quindi possibile. Un
altro corollario dell’ipotesi di un antenato Urbilateria complesso, è che è più facile immaginare
un’evoluzione rapida della diversità dei piani di organizzazione dei bilateri attuali, a partire da
questo antenato che ha gia accumulato una buona parte di strutture e organi complessi presenti nei
suoi discendenti. Questo antenato complesso potrebbe costituire una parte della soluzione
all’enigma dell’”esplosione cambriana”. Negli archivi fossili, gli animali bilateri appaiono
improvvisamente nel corso del Cambriano, circa 540-520 milioni di anni fa. I gruppi animali che
risalgono a quest’epoca ricoprono una buona parte della diversità attuale. E’ sorprendete il fatto che
una tale diversità di organismi compaia in un lasso di tempo geologico cosi ridotto. Nessun fossile
che possa essere interpretato come prossimo dell’antenato comune o del nostro Urbilateria ipotetico
è stato al momento scoperto prima del Cambriano.
CAPITOLO 5
LO SVILUPPO DELLA CONNESSIONE CEREBRALE: TAPPA ULTIMA
DELL’INDIVIDUAZIONE? (Bourgeois)
La corteccia cerebrale dell’Homo sapiens sapiens è il recettore, il produttore e il supporto materiale
delle rappresentazioni culturali. L’identificazione delle relazioni causali tra le rappresentazioni
culturali e i geni che costruiscono la corteccia cerebrale non più al di fuori della nostra portata. La
corteccia cerebrale è il prodotto di una storia evolutiva della specie e della storia dello sviluppo di
ogni individuo. Due storie qui brevemente delineate.
Diverse ipotesi concordano sull’idea che 280 mln di anni fa, in alcuni rettili della linea dei sinapsidi
(rettili mammaliani”), sarebbe comparsa un’espansione dei territori telencefalici con combinazioni
nuove di geni “dorsilizzanti”. Questo abbozzo di un nuovo tessuto neuronale si organizzerà a poco a
poco in sei strati cellulari uguali, l’isocortex (o neocortex) che costituirà successivamente il tessuto
cerebrale specifico dei mammiferi. Nei rettili sinapsidi, secondo l’ipotesi di J.Allman, il vantaggio
selettivo fornito dall’endotermia, seguito dall’omeotermia, la placentazione la lattazione dei
mammiferi che apparvero in seguito, aveva un costo: quello di una maggiore domanda energetica.
La coevoluzione della corteccia cerebrale nei rettili e nei loro discendenti mammaliani,
migliorando le loro capacità sensorio-motrici e cognitive, avrebbe dunque permesso di migliorare
l’approvvigionamento energetico. Sempre nell’ambito di questa ipotesi, queste prime reti
isocorticali sono capaci di memorizzare in maniera più efficaci le rappresentazioni delle interazioni
tra l’individuo e il suo ambiente. La stabilità metabolica assicurata dall’omeotermia, permettendo di
sottrarsi ai rapidi cambiamenti fisici dell’ambiente, è stata forse accompagnata da una stabilità
percettiva e cognitiva, a fronte delle sollecitazioni immediate e costanti dell’ambiente. La taglia dei
cervelli è rimasta relativamente piccola, con poco isocortex, sino alla comparsa dei primati, 70 mln
di anni fa. A partire da questa epoca, la superficie totale della corteccia cerebrale aumenta nel
numero complessivo delle aree corticali. Le aree sensoriali o motrici si moltiplicano, si separano, si
specializzano. Il numero totale di neuroni diviene immenso. Essi si differenziano a un punto tale
che diviene a volte difficile classificarli in categorie ben definite. Nuovi tipo di neuroni appaiono
anche nella corteccia cingolare degli ominidi. Pertanto aumenta la variabilità interindividuale.
Durante questi milioni di anni di evoluzione della corteccia cerebrale, variazioni interne al genoma
produrrebbero continuamente nuove configurazioni neurosinaptiche. Le prestazioni di queste reti
furono costantemente convalidate o sanzionate per la loro efficacia funzionale durante il loro
sviluppo e al momento della interazioni dell’individuo adulto con il mondo circostante. Il
miglioramento delle capacità rappresentative e mnesiche della corteccia cerebrale ha conferito ai
mammiferi dei vantaggi selettivi che non si sono mai arrestati sino alla produzione della corteccia
dei primati non umani e umani. Queste rappresentazioni si sono allora sviluppate sino alla
produzione culturale e alla simbolizzazione proprie dell’uomo.
In uno stesso organismo tutte le cellule posseggono esattamente gli stessi geni, ma i neuroni si
distinguono dalle altre cellule per un certo numero di caratteristiche. Il passaggio dell’uovo
fecondato, cellula unica, a questa popolazione immensa di neuroni organizzati in reti nero-
sinaptiche delle corteccia cerebrale, comprende tre tappe fondamentali:
1) La neurogenesi (produzioni, posizionamenti e differenziazione dei neuroni) nei primati ha
luogo durante la prima metà della gestazione. L’inizio della neurogenesi, controllato
geneticamente, ha luogo nell’età post-concepimento: a 11 giorni di vita embrionale nel topo,
43 nell’uomo.
2) Le odogenesi cominciamo molto presto durante la vita fetale dei primati. Si creano delle vie
di comunicazione assonali inter-emisferiche e intra-emisferiche tra le diverse aree corticali.
Nei primati queste grandi vie sono presenti, in quantità essenziale, prima della nascita.
3) Le sinaptogenesi finalizzeranno la maturazione della corteccia cerebrale perfezionando i
circuiti cerebrali. J.Kozloski ha mostrato che i circuiti neurosinaptici della corteccia
cerebrale sono organizzati specificatamente tra loro con grande precisione. Questa
organizzazione geometrica conferisce alla corteccia cerebrale le sue numerose e varie
attitudini nell’estrarre o fondere i segnali circolanti tra le sue reti. La densità di sinapsi
presenta anche una grande variabilità interindividuale.
La corteccia cerebrale della scimmia macao è utilizzata come modello animale sperimentale della
corteccia cerebrale umana. Gli studi mostrano che la cinetica della sinaptogensi nella corteccia
cerebrale comporta almeno cinque fasi ben distinte:
Le fasi 1 e 2 della sinaptogenesi hanno luogo molto precocemente. Nel macao, la cui gestazione
dura 165 giorni, tutte le prime sinapsi sono osservabili da 40 a 50 giorni dopo il concepimento.
Questa corteccia cerebrale fetale non riceve ancora segnali provenienti dal mondo esterno, ma
produce già spontaneamente un’attività fisiologica.
La fase 3, nella corteccia della scimmia macao, comincia due mesi prima della nascita e termina due
mesi dopo. E’ una fase di produzione rapida di contatti sinaptici. Tutte le prime ramificazioni
esplorano costantemente il loro ambiente tissutale e vi inviano due fini prolungamenti cellulari.
Questi filopodia aumentano in numero e mobilità durante i periodi di intensa sinaptogenesi. Le
mappe topografiche di diversi territori della corteccia cerebrale vengono affinate durante questa
fase.
La fase 4 è una fase “di plateau” durante la quale la densità media delle sinapsi nel tessuto corticale
è mantenuta al suo valore massimale, 900 milioni di sinapsi per millimetro cubo di corteccia
cerebrale, sino alla pubertà. Come nella fase 3, si osserva un’abbondante produzione di filopodia e
di sinapsi che si riorganizzano rapidamente. Durante queste due fasi, 3 e 4, l’individuo primate
compie i suoi apprendimenti sensoriali, motori e cognitivi. Apprende anche le regole sociali e
l’organizzazione gerarchica in seno al suo gruppo, saperi essenziali per il resto della sua vita. Poi,
durante la pubertà, il 40% di sinapsi scompare. La pubertà è una transizione difficile accompagnata
da una perdita definitiva di alcune capacità di apprendimento.
La fase 5 è una fase stazionaria che si prolunga durante tutta la vita adulta. La densità media di
sinapsi non diminuisce più in maniera significativa sino alla senescenza allorché viene osservata
una perdita massiva di sinapsi. Studi simili sono stati anche effettuati nella corteccia cerebrale
umana. Le osservazioni sono parziali e realizzate su tessuti post mortem, ma si ritrova una cinetica
globale identica. Nell’uomo, la sinaptogenesi inizia ancora prima nella vita embrionale e presenta
una maggiore estensione nel tempo (sesta-ottava settimana di vita embrioanale). Questa cinetica
globale viene controllata da meccanismi genetici altamente conservati nell’evoluzione.
Questa cinetica è un inviluppo di curve che comprende numerose onde di sinaptogenesi. Queste
onde si distinguono per la loro successione nel tempo e nello spazio di diversi compartimenti di
tessuto corticale. Esse coincidono con le successive maturazioni di numerose funzioni corticali.
Alcune onde si distinguono anche per la loro velocità o la loro durata: picco rapido e breve nello
strato corticale IVC, plateau prolungato nello strato III. Nella corteccia visiva primaria del cervello
umano, A.Burkhalter mostra che i circuiti neuronali organizzati verticalmente (implicati nel
trattamenti dei segnali in ogni punto dei campo recettori) si sviluppano durante l’ultimo terzo della
gestazione. Di contro, i circuiti nervosi organizzati orizzontalmente (implicati nel trattamenti sei
segnali del contesto) si sviluppano durante il rimo anno postnatale.
Nella corteccia dei primati i sono, dalla nascita, reti neurosinaptiche già molto organizzate e
capacità funzionali molto elaborate. Nei primati le aree corticali vengono stabilite durante la vita
fetale. Nel cervello umano alcune capacità apparirebbero molto precocemente. J-P. Lacaunet ha
mostrato che il feto è capace di riconoscere a voce materna prima della nascita. S.de Schoen osserva
che il neonato acquisisce rapidamente la capacità di riconoscimento dei volti. B. de Boysson-
Bardies, mostra come a 4 mesi e mezzo il neonato può percepire delle differenze linguistiche. La
lallazione appare nel neonato a 7 mesi e viene molto rapidamente “colorita” dalla cultura familiare
verso il decimo mese. I neonati umani hanno capacità innate ad apprendere velocemente, a
categorizzare gli oggetti del mondo e a simbolizzarli. Vengono avanzate due ipotesi. La prima
considera che queste capacità innate vengono supportate da reti neurosinaptiche totalmente
determinate geneticamente e pronte a funzionare sin dalla nascita. La seconda considera la lunga
evoluzione delle prestazioni delle reti neurosinaptiche per convalidare la messa in atto di “tramiti
sinaptoarchitettonici” a favore di capacità precoci di apprendimento. Queste capacità vengono
affinate fin dalle prime interazioni con l’ambiente attraverso processi selettivi al livello dei contatti
sinaptici. La loro analisi genetica e fisiologica sarà lunga perché sappiamo oggi che molti geni
partecipano all’elaborazione di una sola funzione, e che un solo gene può essere implicato in più
funzioni distinte.
Diverse condizioni sperimentali o neuropatologiche rivelano la notevole robustezza delle prime tre
tappe della sinaptogenesi. I contatti sinaptici si formano normalmente in questi tessuto corticali
modificati. L’insieme delle osservazioni suggerisce che i meccanismi che rilasciano queste prime
onde di sinaptogenesi sono intrinseci al tessuto corticale e sono comune all’insieme del mantello
corticale. La formazione iniziale di circuiti neurosinaptici è controllata dall’insieme di interazioni
intercellulari attraverso molecole di superficie, fattori trofici, neurotrasmettitoti, neuromodulatori e
l’attività spontanea.
La genetica della sinaptogenesi è solo agli inizi. In questi ultimi anni sono stati identificati i primi
geni implicati nella differenziazione di diversi compartimenti dei contatti sinaptici. Essi codificano
per molecole sinaptiche di ogni natura. Mutazioni di questi geni vengono ritrovate associate ad
alcune psicosi. Mutazioni della neuroligina sono associate a casi di autismo, e mutazioni della
sinapsina II vengono associate ad alcune forme di schizofrenia. Mutazioni genetiche di tali proteine
sinaptiche provocherebbero risposte inadatte di alcuni circuiti neurosinaptici all’ambiente, nel corso
dello sviluppo, traducendosi nella disorganizzazione della sinaptoarchitettura nelle aree corticali
prefrontale e cingolare. La corteccia cerebrale umana è il prodotto di numerose variazioni
istologiche la cui stabilità è convalidata o sanzionata dalle loro prestazioni.
La plasticità è l’attitudine di tutte le cellule a produrre cambiamenti strutturali e funzionali in
risposta a stimoli esterni, senza che i geni ne controllino tutti i dettagli. Esiste la plasticità sinaptica
sin dall’inizio della sinaptogenesi, indipendentemente dal mezzo circostante, poi diviene
progressivamente sensibile anche a stimoli provenienti dal mondo esterno o dalla corteccia
cerebrale. Al livello molecolare la plasticità si manifesta attraverso trasporti locali di molecole, di
sintesi locali, di modificazioni chimiche. Al livello morfologico si manifesta attraverso produzioni o
contrazioni delle ramificazioni assonali e dendritiche, la formazione (sinaptogensi) o l’eliminazione
(sinaptosi) di sinapsi, il rimdoellamento microanatomico delle spine dendritiche, o la
redistribuzione topologica dei contatti sinaptici. Recenti esperienze sui roditori mostrano che la
ricchezza di connessioni di alcuni circuiti neurosinaptici nell’adulto sembra essere
proporzionalmente all’abbondanza di cure materne prodigate al neonato.
Adulti, rassicuratevi, esiste ancora una certa plasticità nel vostro cervello! Essa si manifesta a più
livelli di organizzazione.
1. L’attività fisiologica stimolata attiva rapidamente l’espressione a cascata di numerosi geni nei
neuroni stimolati.
2. Il livello funzionale delle sinapsi può anche essere modificato nell’adulto
3. La sinaptogenesi può ancora avere luogo nella corteccia dell’adulto.
R.Dunbar ha recentemente constatato la presenza di una correlazione positiva tra la taglia della
corteccia cerebrale e a taglia del gruppo sociale per diverse specie di primati. In questa prospettiva,
la funzione dominante di una corteccia cerebrale essenzialmente connessa a se stessa sarebbe di
rappresentarsi il suo ambiente socioculturale, con la sua propria storia di rappresentazioni. Ad ogni
generazione, i geni costruiscono una corteccia cerebrale che si sviluppa in seno al gruppo sociale in
cui essa integra e “rappresenta” gli elementi culturali. Numerose combinazioni di rappresentazioni
formatesi nei circuiti neurosinaptici possono talvolta costruire associazioni originali che producono
nuovi elementi culturali. Nel migliore dei casi questi nuovi elementi culturali sono esplicitati,
trasmessi e aggiunti all’ambiente culturale. Nuova corteccia cerebrale propagherà a sua volta o
meno questi nuovi elementi culturali.
L’evoluzione della corteccia cerebrale non segue una scala natura, ma è consentito confrontare le
cinetiche delle sinaptogenesi in cortecce cerebrali di taglia nettamente diversa in diverse specie.La
fase rapida della sinaptogenesi comincia 2 giorni dopo la nascita nel ratto e circa 4,5 mesi prima
della nascita nell’uomo. Di fatto, l’inizio della fase rapida della sinaptogenesi (fase 3) che ne ratto è
un evento postatale, diviene un evento prenatale molto precoce nei primati (eterocronia). In
rapporto a questa fase 3, la nascita diviene un epifenomeno. Inoltre la durata della fase 3 aumenta
significativamente. Si ha un aumento di questa durata di almeno 30 volte dal ratto all’uomo. Tale
aumento diviene più spettacolare se consideriamo la fine della pubertà come marcatore temporale
della fine della maturazione della sinaptoarchitettura: 1 mese nel ratto, una quindicina d’anni
nell’uomo. Si verifica allora un fatto paradossale. La densità media delle sinapsi non è più grande
nel ratto che nell’uomo. La densità media delle sinapsi per neurone sempre più piccola nei primati
che in un roditore. Come spiegare quindi il paradosso che l’uomo necessita di un tempo 200 volte
superiore rispetto al ratto per realizzare la stessa densità di sinapsi in un millimetro cubo di tessuto
corticale adulto? L’ipotesi dell’epigenesi eterocronica (HEH), abbozzata nel 1997, propone che ad
aumentare maggiormente in un millimetro cubo di tessuto corticale, nel corso dell’evoluzione, sono
le eterogeneità istologiche e funzionali dei circuiti neurosinaptici, proporzionalmente alla quantità e
alla varietà dei neuroni della corteccia.
Nei primati le tre grandi tappe della costruzione della corteccia cerebrale, neurogenesi, odogenesi e
sinaptogenesi, cominciano molto presto durante la vita fetale. La maturazione della corteccia
cerebrale si protrae per molto tempo dopo la nascita, almeno sino alla fine della pubertà. I geni e
l’ambiente si completano. All’inizio dello sviluppo i geni controllano la messa a punto delle
connessioni corticali, le forme dei neuroni e lo sviluppo delle sinapsi. Pertanto, l’efficacia di ogni
sinapsi non è totalmente e definitivamente predeterminata; essa è modificata dall’esperienza vissuta
dall’individuo attraverso differenti tappe di sinaptogenesi. Le fasi 1,2 e 3 (all’inizio) delle
sinaptogenesi sono indipendenti dall’ambiente. Esse hanno luogo prima della nascita. Lo sviluppo
della corteccia cerebrale è controllato dalle interazioni del mondo esterno con la corteccia. Solo
delle perturbazioni anormali possono modificare la corticogenesi. In questo stadio i meccanismi di
sinaptogenesi sono comuni a tutti i mammiferi, eccetto la loro durata di tempo, che varia a seconda
della specie considerata. Le fasi 3 e 4 richiedono la presenza degli stimoli dell’ambiente. Esse
hanno luogo dalla fine della gestazione fino alla pubertà. Durante questi periodi critici i meccanismi
di stesura delle carte topografiche corticali sono comuni solamente a individui della stessa specie. I
campi cognitivi si impiantano nella corteccia con gli stessi meccanismi biologici. Nella specie
umana è proprio durante queste due fasi che vengono trasmesse le rappresentazioni iniziali della
cultura. Prima della “cristallizzazione” della personalità nella pubertà, queste rappresentazioni
culturali dovrebbero essere diversificate e largamente aperte all’alterità. E’ purtroppo allora che
esse sono spesso le più restrittive, con apprendimenti intra-culturali già chiusi in se stessi. Durante
la fase 5 esistono ancora delle sinaptogenesi, in scala ridotta. Non è più possibile cambiare
significativamente gli apprendimenti essenziali, correggere gli strabismi, apprendere una lingua
straniera senza accento o divenire virtuosi nel violino. Queste osservazioni mostrano che se la
plasticità sinaptica è presente sino al termine della vita, la sua ampiezza è sottomessa ad una
“chiusura” progressiva. Ma nel corso dell’evoluzione della corteccia cerebrale dei primati,
l’estensione della maturazione della sinaptoarchitettura, massima nell’uomo, modera tale “chiusura”
sino alla fine della vita. Nell’uomo l’individuazione sociale e culturale comincia prima della nascita
e dura tutta la vita. Incastrato tra i suoi geni e la sua cultura, l’individuo biologico singolare diviene
una persona unica. Oggigiorno la dimostrazione oggettiva di una neurogenesi massiva nella
corteccia cerebrale umana adulta non è stata ancora fornita.
CAPITOLO 6
NEURONI E APPRENDIMENTO (Shulz)
Tra geni e cultura, un miliardo di cellule nervose si agita nelle nostre scatole craniche ed essere
conversano tra loro attraverso mille miliardi di connessioni sinaptiche. Una minima parte di esse
mette in relazione il cervello con il mondo esterno. L’uomo, grande comunicatore , comunica
principalmente con se stesso, generando costantemente mondi virtuali, mondi rappresentati e
sospensivi, in attesa di essere convalidati, verificati o persino selezionati dal confronto col mondo
fisico. Questa interazione con l’ambiente porta, tuttavia, ad importanti riorganizzazioni anatomo-
funzionali che intervengono, in particolare, durante il periodo precoce della vita postatale, ma che
proseguono egualmente nel corso dell’apprendimento, durante tutta la vita adulta. I cambiamenti
nell’organizzazione delle connessioni del cervello superano il diktat genetico e permettono ad ogni
individuo di divenire “singolare” grazie allo sviluppo e al mantenimento della memoria delle
esperienze passate che gli sono propri e lo rendono unico.
Sono state proposte tre ipotesi principali concernenti la regolazione della funzione corticale
attraverso l’attività nervosa al momento dello sviluppo. La prima ipotesi, detta di “verifica
funzionale”, considera la rete neuronale precaria alla nascita, e l’esperienza, giocando un ruolo di
stabilizzazione dei contatti sinaptici, si stabilisce interamente sotto il controllo genetico. La seconda
consiste in un’implementazione, in termini neurali, delle tesi empiriste del XVIII secolo, e suppone
che l’attività del sistema determini interamente lo stato finale della connessione. Infine, l’ipotesi
della “stabilizzazione selettiva” fa intervenire l’eliminazione mediante l’attività della rete dei
contatti sinaptici ridondanti in un sistema geneticamente precario. Il ruolo dell’esperienza
consisterebbe nella selezione e nel rafforzamento di alcuni contatti sinaptici per eliminazione. C’è
inoltre un’altra teoria, quella delle “selezioni in gruppi di neuroni”, che spiega le funzioni cerebrali
superiori. Questa teoria implica che la caratterizzazione percettiva del mondo non etichettata
anticipatamente, in accordo con i bisogni adattativi dell’individuo, non è generata dall’istruzione o
dal trasferimento di informazioni dal mezzo verso il soggetto, ma dai processi di selezione di gruppi
di neuroni formati preliminarmente al momento dello sviluppo postatale. La variazione preesistente
e la selezione a opera dell’esperienza di popolazioni di neuroni giocherebbero ruoli maggiori nel
funzionamento del cervello.
L’acquisizione, lo stoccaggio e l’ulteriore utilizzazione di informazione attraverso il sistema
nervoso centrale sono processi essenziali per l’insieme di funzioni cerebrali e l’adattamento
comportamentale che ne risulta. Le discipline scientifiche che affrontano lo studio di questi
fenomeni, come neurobiologia dell’apprendimento, hanno conosciuto un importante sviluppo dopo
il XIX secolo. Questo sviluppo si è verificato tuttavia, in maniera indipendente e parallela a quello
di altre discipline, come la fisiologia sensoriale, avendo conosciuto egualmente un rapido
incremento nell’ultimo secolo. Malgrado la contraddizione apparente fra i livelli fisiologico e
psicofisico, il successo della fisiologia sensoriale nello studio della rappresentazione dell’ambiente
attraverso le cortecce sensoriali primarie, ha condotto ad una sopravalutazione della stabilità e delle
rappresentazioni sensoriali corticali. L’esistenza di una plasticità in quanto proprietà intrinseca delle
aree sensoriali corticali, sembra incompatibile con la necessità degli organismi di ottenere
un’immagine stabile del mondo in cui essi vivono. Questa concezione ha dunque rafforzato l’idea
che lo studio dell’apprendimento e della memoria comincia laddove finisce quello dell’analisi
sensoriale. Eppure, dagli anni Sessanta p stato mostrato che la corteccia visiva primaria ha un forte
potenziale di plasticità durante un periodo precoce della vita di un animale. Per esempio, la
distribuzione corticale dell’orientamento preferenziale dei neuroni visivi viene modificata
dall’esperienza precoce nell’animale giovane. Esperimenti hanno condotto alla definizione dei
periodi critici di plasticità ma anche all’idea di una fissità delle proprietà funzionali di cellule
sensoriali al di fuori di questi periodi, in particolare nell’adulto. Un ritorno d’interesse è apparso in
questi ultimi quindici anni nella ricerca delle interazioni tra la rappresentazione corticale sensoriale
e l’apprendimento comportamentale nell’adulto.
Gli studi pionieristici di Wilder Penfield hanno mostrato attraverso tecniche elettrofisiologiche che
ogni parte del corpo è rappresentata principalmente in due aree della corteccia cerebrale, la
corteccia somato-sensoariale che riceve gli impulsi nervosi dalla periferia tattile, e la corteccia
motoria che controlla i movimenti volontari. Le dita e la bocca, beneficiano nei due “omuncoli” e
cioè il sensoriale e il motorio, di una rappresentazione amplificata. E’ stato ritenuto per lungo tempo
che queste mappe corticali non potevano essere modificate che durante una fase precoce dello
sviluppo postatale, per divenire stabili nell’adulto. Dati recenti indicano, tuttavia, che le proprietà
dei campi recettori dei neuroni corticali individuali e l’organizzazione funzionale dei campi
sensoriali corticali possono essere modificate nell’adulto dopo una serie di manipolazioni più o
meno severe del sistema, come le lesioni periferiche o centrali, ma anche attraverso apprendimenti
comportamentali di tipo associativo. L’esempio più drammatico della plasticità adulta proviene da
esperienze di lesioni periferiche o deafferentazioni. Queste provocano in qualche settimana una
riorganizzazione anatomico-funzionale tale che la regione corticale, privata del uso normale
ingresso, è occupata da una rappresentazione di siti periferici adiacenti alla lesione. Ne risulta
un’espansione della rappresentazione di queste regioni vicine e, in certi casi, un movimento
d’insieme della rappresentazione di una superficie corporea data e osservata (avviene ad esempio
dopo l’amputazione di un membro). Tali riorganizzazioni sono state osservate ugualmente nella
corteccia visiva adulta, in cui proprietà dinamiche sono state messe in evidenza attraverso lesioni
retiniche che potrebbero essere confrontate, per esempio, con lesione foveali indotte nel caso della
degenerazione maculare legata all’età. In queste condizioni di deafferentazione sensoriale, appaiono
cambiamenti già nei minuti successivi alla lesione. Tali rimaneggiamenti dell’organizzazione
anatomo-funzionale della corteccia non richiedono necessariamente una perdita dell’ingresso
sensoriale nella periferia. Una modifica delle rappresentazioni corticali può essere indotta
dall’utilizzo delle superfici periferiche, in particolare dalla manipolazione della sincronia
d’attivazione sensoriale generata dalle zone cutanee vicine.
Malgrado questi risultati, sussiste oggi comunque un consenso sul fatto che il sistema nervoso
centrale di un animale giovane è capace di riorganizzarsi in modo funzionale attraverso l’esercizio
o l’apprendimento più facilmente che nell’adulto. In un recente lavoro di Knudsen, si è evinto che
un’esperienza audiovisiva anormale nell’animale giovane (nel suo caso la civetta dei campanili),
porta ad una riorganizzazione delle corrispondenze fra le mappe uditive e visive, mentre questa
stessa manipolazione non ha conseguenze funzionali nell’adulto. In altri termini, l’adulto non è
capace di adattarsi alle incoerenze tra le informazioni visive e uditive. Tuttavia, se gli animali
giovani che hanno avuto un’esperienza anormale precoce vengono sottoposti a questa stessa
esperienza da adulti, vengono osservati rimaneggiamenti corticali comparabili. L’esperienza
postatale precoce aumenta quindi il potenziale d’induzione di una plasticità funzionale che
altrimenti non si manifesterebbe nell’adulto, o in ogni caso non con la stessa facilità.
Al momento della normale interazione dell’animale con il suo ambiente, modifiche più specifiche e
limitate risultano da un utilizzo differenziale della superfici recettrici. Modifiche
dell’organizzazione funzionale corticale intervengono, ad esempio, nel momento di un
apprendimento di discriminazione sensoriale o di una procedura di condizionamento classico.
Nell’impossibilità di stabilire legami di causalità, generalmente vengono utilizzate due strategie per
lo studio di tali modifiche funzionali: quella in cui si stabilisce una correlazione tra l’apprendimento
comportamentale e la plasticità che viene indotta (correlazione cellulare), e quella che permette di
indurre artificialmente una plasticità cellulare simile a quella indotta dall’apprendimento ( analogia
cellulare). Il gruppo di Merzenich dell’Università della California ha condotta la sua ricerca sulla
plasticità della rappresentazione corticale della mano della scimmia utilizzando la prima strategia.
Nel loro insieme, questi lavori mostrano che la carta topografica nella corteccia somato-sensoriale
corrisponde a tracce mnesiche spaziali della componente temporale, in questo caso la
sincronizzazione, della stimolazione tattile. La corteccia utilizza la correlazione temporale
d’attivazione afferente per mantenere oppure per creare delle rappresentazioni spaziali.
L’implicazione del processo di associazione sensorio-sensoriale nel controllo della carte spaziali
ricorda teorie associazioniste delle quali William James è stato uno dei fondatori verso la fine del
XIX secolo. Più di mezzo secolo più tardi, Hebb sviluppa una prospettiva originale del
funzionamento del cervello durante la percezione e l’apprendimento, idea fondata sul concetto di
aggregato cellulare riverberante. Un aggregato è un insieme transitorio di neuroni attivi in un dato
istante. L’attività elettrica percorre questa rete e vi perdura dopo che l’evento sensoriale che lo ha
generato è scomparso, fenomeno chiamato riverbero. Secondo Hebb, i riverberi aiuterebbero a
produrre modifiche sinaptiche che permetterebbero all’aggregato cellulare di riattivarsi più
facilmente in assenza di stimoli iniziali. Le connessioni funzionali tra i neuroni appartenenti
all’aggregato cellulare si formerebbero e si rinforzerebbero secondo la legge della plasticità
sinaptica. Successivamente, quando due rappresentazioni mentali apprese (due aggregati cellulari)
vengono attivate contemporaneamente, essere stabiliscono delle associazioni tra loro secondo
diverse regole di apprendimento. L’implicazione, da una parte, di una retroazione di riverbero e,
dall’altra, di un rinforzo di connessioni sinaptiche che dipendono dall’utilizzo di una rete
multiconnessa, genera condizioni di retroazione positiva che conducono necessariamente ad un
aumento continuo sino a una saturazione dei pesi sinaptici. E’ la legge della plasticità sinaptica a
essere stata messa lla prova, e che ha condotto per la sua implementazione sperimentale alla
scoperta del fenomeno di potenziamento a lungo termine (PLT), considerato oggi come il candidato
più probabile del meccanismo sinaptico dell’apprendimento. Il PLT è un miglioramento
dell’efficacia di trasmissione dinastica tra due neuroni interconnessi e necessita di un appaiamento
tra il segnale presinaptico e l’emissione del potenziale s’azione postsinaptico.
Numerosi studi hanno messo in evidenza l’esistenza di una plasticità funzionale importante
nell’adulto. Rimane difficile dimostrare una relazione di causalità tra queste manifestazioni, cosi
come per l’apprendimento percettivo comportamentale. Grazie allo sviluppo di tecniche di
manipolazione genetica questi studi hanno mostrato che esistono deficit di plasticità corticale
concomitanti a deficit di plasticità sinaptica. Un approccio intermedio tra il livello sinaptico e la
plasticità di mappe corticali indotte in seguito a una lesione o apprendimento, consiste
nell’esaminare le modifiche funzionali di neuroni individuali sottoposti ad un condizionamento
associativo al momento della registrazione elettrofisiologia. Nel caso del sistema visivo,
osservazioni recenti suggeriscono che segnali extraretinici, legati a processi di attenzione, possono
giocare un ruolo di “segnale porta” nell’induzione e nell’espressione della plasticità sinaptica.
Nella corteccia visiva, i cambiamenti funzionali osservati nel corso dello sviluppo sono non soltanto
dipendenti dall’attività afferente e dall’attività corticale, ma sono egualmente regolati da segnali
extraretinici. Tali segnali di controllo hanno per origine diversi sistemi neuromodulatori.
Nell’adulto, l’implicazione degli stessi sistemi neuromodulatori nell’apprendimento associativo è
stata proposta sulla base di numerosi dati fisiologici e comportamentali. Questa ipotesi sui
meccanismi neuronali soggiacenti al controllo comportamentale della plasticità sinaptica è ispirata
da descrizioni di Crow e Kety, in cui fattori legati all’attenzione e al rinforzo colpiscono la
regolazione dei pesi sinaptici attraverso l’attivazione di sistemi diffusi ascendenti, che danno un
segnale di convalida o print now signal. L’influenza dei segnali comportamentali nella formazione
di una traccia mnesica della correlazione neuronale è stata messa in evidenza nella corteccia uditiva
della scimmia. Il contesto comportamentale condizione la plasticità corticale, questa stessa risulterà
dall’interazione tra i segnali interni che forniscono un controllo “dall’alto in basso” e segnali
esterocettivi propri di ogni esperienza.
L’innervazione neuromodulatrice del neocortex proviene da diverse strutture sottocorticali, in
particolare a partire da molteplici nuclei del tronco cerebrale. Gli assoni delle cellule
neuromodulatrici di tali nuclei raggiungono la corteccia cerebrale e vi liberano in maniera
diffusaneuromodulatori vari che sono sostanze implicate nella regolazione delle funzioni legate allo
stato di attenzione, alla detezione di uno stimolo nuovo nell’ambiente dell’animale ancora
all’aspettativa di una ricompensa. Alla luce di questi risultati e dei contributi di altri gruppi può
essere espressa l’ipotesi che l’informazione sul contesto comportamentale, cioè sul livello di
attenzione, la motivazione o ancora l’ottenimento di una ricompensa, che sembra soprintendere la
plasticità delle connessioni corticali, potrebbe essere cosi sottesa da una o più sistemi ascendenti
diffusi. Se questa ipotesi è corretta, sarebbe possibile indurre una plasticità corticale attraverso
l’associazione tra stimoli sensoriali e un’attivazione, imposta dallo sperimentatore, dei nuclei
neuromodulatori. Esistono tuttavia prove dirette che mostrano come segnali neuromodulatori siano
necessari all’induzione attraverso l’esperienza di una plasticità, nella corteccia sensoriale adulta. Per
esempio, nella corteccia somestetica, la plasticità indotta attraverso un’associazione sensorio-
sensoriale (una forma semplice di apprendimento) viene bloccata dall’applicazione intracerebrale di
un antagonista dei recettori muscarinici, l’atropina. Quest’ultimo lavoro è stato realizzato in un
sistema sensoriale, quello delle vibrisse o dei lunghi baffi del muso, nei ratti. Le risposte nervose
nella corteccia somatosensoriale del ratto adulto, struttura che riceve le informazioni tattili delle
vibrisse, mostrano un livello di plasticità importante. L’acetilcolina sembra necessaria all’induzione
della plasticità delle risposte corticali. Essa è tuttavia necessaria all’espressione della plasticità?
Alcuni studi hanno messo in evidenza una nuova forma di plasticità nella corteccia a colonne del
ratto in cui non soltanto l’induzione, ma egualmente l’espressione, dipendono dall’acetilcolina.
Quindi, cosi come il ricordo delle informazioni apprese dipende dal contesto sensoriale e dallo stato
fisiologico nel quale il soggetto si trova al momento dell’acquisizione delle informazioni,
l’espressione della plasticità delle risposte al livello del neurone corticale dipende dal contesto
neurochimico endogeno del cervello al momento dell’apprendimento neuronale.
Tutto il sistema conserva tracce delle sue esperienze passate, cioè modifiche che perdurano dopo
l’eliminazione delle sollecitazioni che le hanno provocate. I sistemi biologici si sono evoluti in
modo da poter trarre vantaggio dall’informazione cosi incamerata. La memoria permette agli
organismi viventi l’utilizzo del passato per adattarsi ad uno futuro sconosciuto e mutevole. Le
cortecce sensoriali primarie sono plastiche durante le fasi precosi dello sviluppo postatale, periodi in
cui l’animale interagisce in maniera privilegiata con il suo ambiente. Ben oltre i periodi ciritici il
sistema nervoso mostra tuttavia un livello importante di malleabilità. La riorganizzazione
funzionale delle mappe corticali e le modifiche dei campi recettori intervengono nell’adulto in
seguito a lesioni. Tutte queste modifiche anatomo-funzionali dipendono dall’attivazione delle reti
neuronali corticali attraverso la periferia sensoriale che sappiamo essere associati a stati interni,
come la motivazione, l’attenzione, la vigilanza, l’avversione. Questa reattività ineluttabile del
sistema nervoso a tutte le perturbazioni può provocare delle trasformazioni sensoriali drammatiche
come “arti fantasma” e sensazioni ectopiche che si verificano in seguito all’amputazione dei
membri.
CAPITOLO 7
LE TRADIZIONI VOCALI DEGLI ANIMALI: L’ISTINTO DI APPRENDERE (Marler)
In linea di massima si è concordi nel pensare che siamo abbastanza diversi dalle altre specie
esistenti, e che una sorta di unità genetica caratterizza l’Homo sapiens. La verità è che qualunque
cosa sia compiuta da un organismo vivente, in fin dei conti è il riflesso dell’attività genetica. Ogni
tratto che lo caratterizza è la manifestazione di una struttura distintiva di attivazione e di inibizione
genetica. La cultura umana è ciò che è in virtù delle differenze genetiche tra noi intesi come specie
e gli altri organismi. Il genoma umano è responsabile di ciò che caratterizza il nostro corpo, le
nostre attitudini, le nostre mani, le nostre emozioni, il nostro cervello, la nostra mente. Però il
genoma umano non è il solo responsabile di tutto questo, Come Schmalhausen ricordava molto
tempo fa, non c’è crescita senza contesto ambientale, e non c’è organismo senza genoma. I geni
sono sempre implicati in qualsivoglia tratto culturale. Fino a un certo grado, le culture prodotte da
una specie sono funzione del suo genoma . E’ evidente che le culture variano da popolazione a
popolazione e da individuo a individuo. Questa variazione a volte sottile e difficile da definire. Lo si
nota per alcuni dei 39 tratti culturali recentemente repertoriati nello scimpanzé, come i diversi modi
di utilizzare un bastone come utensile. A volte la variazione è più estrema, ed è allora che
cominciamo ad esitare nell’invocare una spiegazione genetica. Si tratta quasi di un assioma o di un
atto di fede: la variazione genetica all’interno di una specie non può spiegare le differenze tra le
culture. Ma l’assioma nasconde molti problemi. Anzitutto, geneticamente parlando, le popolazioni
che formano una data specie non sono omogenee fra loro. Differenze genetiche tra popolazioni
corrispondono abbastanza spesso a differenze culturali. I termini della questione mutano: i legami
tra geni e cultura sono di tipo causale o si danno nell’ordine della coincidenza? Questo interrogativo
è estremamente difficile da affrontare scientificamente nel caso dell’uomo, ma non è escluso che si
possa trattarlo passando attraverso il comportamento culturale degli animali, in particolare il
comportamento vocale. Prendiamo il canto degli uccelli: il passero nel Nord America, conosciuto
per gli stupefacenti dialetti che caratterizzano il suo canto relativamente semplice, controllato da
giovane in un laboratorio si scopre saper imitare qualsiasi dialetto locale ascoltando delle
registrazioni. Allevato senza ascoltare un adulto, un maschio sviluppa un canto decisamente
anormale, che non assomiglia al suo dialetto natale. Si può cosi dimostrare che il dialetto non è
innato, ma appreso, e che si trasmette di generazione in generazione come tradizione orale.
L’apprendimento vocale è un tratto non abituale negli animali. Negli uccelli lo si trova in solo tre
dei 24 gruppi tassonomici maggiori. Gli altri sono tutti geneticamente handicappati al riguardo. Il
loro cervello è incapace di effettuare i compiti legati a un sistema di comunicazione uditiva fondato
su vocalizzazioni apprese. La cosa è valida anche per i primati non umani, tra cui lo scimpanzé. Il
tipo di cultura che una specie sviluppa dipende dal tipo di cervello che possiede. Non esiste un
cervello animale, che sia in grado di sviluppare naturalmente una sintassi grammaticale o proferire
una frase vera e propria. Per esempio gabbiani, fagiani e rapaci possiedono repertori vocali estesi e
complessi, e anche se devono imparare ad utilizzarli, sono sprovvisti del patrimonio genetico che
permette di creare e trasmettere delle tradizioni vocali. Le culture si fondano su un certo numero di
esigenze di base, tra cui certi dettagli della struttura del cervello, una particolare architettura del
copro, e una certa motivazione a impegnarsi in attività culturali, a partecipare alle attività culturali
altrui e a trarre piacer nel raggiungere un certo grado di conformità e invenzione. Queste esigenze,
tutte presenti nel comportamento vocale degli uccelli, non sono soddisfatte in assenza del genoma
che le sottintende. L’eredità filogenetica di una specie pone dei limiti alle possibilità culturali. Ma
qual è la relazione tra geni e cultura nell’ambito definito della filogenesi? Sembra che esistano delle
possibilità quasi infinite di arricchimento culturale, in particolare in una specie cosi dotata e cosi
avida di esperienza come la nostra. Prendiamo di nuovo l’esempio delle specie di uccelli che
imparano a cantare. Hanno tutte le stesse potenzialità: si osservano infatti molti esempi di uccelli
indotti a cantare come uccelli di altre specie, uccelli che in natura non imitano quasi mai altre
specie. Sappiamo da molto tempo che certi uccelli possono cantare come altre specie. Nel 700 molti
uccelli selvaggi venivano portati sul braccio o messi in gabbie, non necessariamente con membri
della loro specie, ma con membri di altre specie. In tali circostanza non era raro che imparassero il
canto sbagliato. Inoltre gli uccelli possono imparare il canto di un’altra specie anche attraverso delle
registrazioni. Di conseguenza, all’inizio, si era portati a pensare che il canto degli uccelli fosse,
entro certi limiti, qualcosa di simile ad una tabula rasa. Si pensava che l’uccello aspettasse che gli si
insegnasse a cantare. Tuttavia, perché l’insegnamento eterospecifico riesca bene, bisogna impedire
all’uccello di ascoltare il canto della propria specie. Se ha accesso a canti intraspecifici, questi
diventeranno presto il centro quasi esclusivo della sua attenzione e i canti delle altre specie saranno
trascurati. Gli uccelli non possono cantare il canto della loro specie in modo innato, tuttavia
dispongono dell’attitudine a distinguere il proprio canto da quello delle altre specie con cui vivono e
con le quali può esserci confusione. Imparano a cantare e sono energicamente spinti a farlo, ma non
esiste tabula rasa. Imparano in modo selettivo e operano delle distinzioni privilegiando le strutture
cantate dalla loro specie. L’apprendimento del canto rappresenta dunque un caso straordinario
d’interazione profonda fra il processo di trasmissione culturale da un lato e le predisposizioni innate
dall’altro, predisposizioni che favoriscono l’orientamento che può prendere il cambiamento
culturale. Questo genere di scoperte ci ha indotti a pensare a ciò che abbiamo chiamato “istinti di
apprendere” (Gould e Marler). L’uccello è ansioso di imparare a cantare e di riprendere una
tradizione vocale particolare. E’ inoltre possibile che sia incline a ricamare su quanto ha appreso
inventando e improvvisando. Risultato: in un dialetto ci sono sempre delle differenze individuali.
Ma questo ricco potenziale di plasticità di sviluppo è un ritorno trasversale e condizionato da
predisposizioni innate, predisposizioni che devono avere fondamento genetico. Nel corso dello
sviluppo, certi uccelli aderiscono fedelmente al modello che i loro membri hanno sperimentato da
giovani, e altri se ne discostano nettamente, imponendo le loro proprie improvvisazioni individuali.
Il concetto di “istinto di apprendimento” serve a ricordarci che una specie può riuscire a trarre
partito dai vantaggi della diversità culturale, conservando al tempo stesso un certo grado di ciò che
potremmo chiamare “canalizzazione culturale”. Questa idea non potrebbe aiutarci a capire il
comportamento umano? Nelle ricerche sull’uomo non possiamo procedere ad analisi comparative
tra specie diverse. Se l’uomo di N. fosse sopravvissuto potremmo avere una prospettiva molto
diversa sulla nostra diversità culturale. In particolare per quanto riguarda il linguaggio, un caso
affascinante da un punto di vista biologico per la straordinaria rapidità con cui si è evoluto. Invece
dobbiamo affrontare il soggetto in maniera indiretta. Due sono le opzioni possibili. Se la cultura
crea per definizione la diversità, allora l’uniformità comportamentale deve implicare qualcosa di
diverso e di opposto. L’altra possibilità consiste nello studio di come si sviluppano i tratti culturali,
per vedere se le variazioni riscontrate determinano la forma che prende il nuovo comportamento.
Questi due approcci si sono rivelati illuminanti nello studio del linguaggio, in particolare quello
parlato. Da un lato, la diversità delle strutture umane della parola è immensa. E tuttavia sappiamo
che se giochiamo a fare i riduzionismi e selezioniamo la parola in elementi minimi essenziali,
scopriamo una quantità straordinaria di punti comuni tra tutte le lingue. A livello della struttura
delle parole e dei lessemi, incontriamo molti universali, che si fondano sul genoma umano.
Analogamente, gli stufi diacronici sullo sviluppo danno molte indicazioni sulle predisposizioni
particolari che un bambino mette in atto per imparare a produrre e capire le parole. Molte cose
nell’emergere della parola dipendono dal cervello del bambino, e non dall’esperienza o
dall’insegnamento ricevuto. Quindi il concetto di istinti d’apprendimento sembra valido sia per il
linguaggio umano che per il canto degli uccelli.
CAPITOLO 8
IL LINGUAGGIO E LE LINGUE TRA IL BIOLOGICO E IL SOCIALE (Hagège)
E’ interessante studiare gli spetti in base ai quali il linguaggio e le lingue sono degli oggetti
biologici e inoltre quelli in base ai quali questi oggetti fanno anche parte delle scienze sociali.
Il linguaggio è una facoltà caratterizzante l’umano, mentre le lingue sono le sue manifestazioni
concrete storicamente situate. Questa facoltà si è codificata nel genoma della specie umana nel
corso di un’evoluzione molto lunga e complessa. Il punto di arrivo è il periodo in cui compare una
nuova specie che non è più scimmiesca intorno a 2,4 mln di anni fa in Africa orientale. Per i più
prudenti, l’iscrizione della facoltà del linguaggio nel codice genetico non deve essere ascritta a
questo periodo, che è quello della comparsa dell’Homo habilis, ma piuttosto al medio Pleistocene.
Per costoro l’inscrizione genetica a pieno titolo non sarebbe anteriore a 1,5 mln di anni fa. Altri
sono favorevoli a una datazione ancora più recente, ma comunque stiano le cose è molto probabile
che dal Paleolitico meio, tra 100mila e 500mila anni fa, la parola fosse già un’acquisizione stabile in
grado di definire in modo peculiare la specie umana. Quanto alla manifestazione del linguaggio
sotto forma di lingue, si può considerare che i primi balbettii e in seguito la nascita vera e propria
delle lingue umane nelle loro forme arcaiche facciano la loro comparsa con l’Homo sapiens, alla
fine del Paleolitico superiore (tra 50mila e 15mila anni fa).
Certi linguisti pensano che le proprietà della Grammatica Universale, appannaggio di tutte le lingue
umane in quanto implicita del patrimonio genetico, costituiscano una componente ipotetica del
patrimonio genetico. Una volta che si adotti questo mutamento di prospettiva, questo aspetto della
linguistica entra a far parte della psicologia, e in definitiva, della biologia (Chomsky).La
Grammatica Universale di Chomsky postula l’esistenza di moduli dalle caratteristiche molto
specifiche. Uno di essi è la teoria della legatura, che riguarda il comportamento dei pronomi nella
relazioni che si stabiliscono, a distanza variabile, tra essi e i nomi cui si riferiscono. Altri due
moduli fanno parte della cosiddetta teoria degli spostamenti: secondo uno dei due, detto vincolo di
soggiacenza, non si può spostare un elemento appartenente a un nodo stretto, come ad esempio
quello che forma una preposizione relativa. Secondo l’altro modulo, detto principio delle categorie
vuote, mentre gli argomenti del verbo si possono estrarre dalla loro collocazione, non si può estrarre
un argomento da un’isola (dominio chiuso). I tre moduli sono iscritti in via ipotetica nel codice
genetico della specie umana. Non sappiamo se esiste una precisa zona celebrale che corrisponde
alle unità linguistiche e alla loro organizzazione nel sistema come nella catena parlata, e qual è il
tragitto che segue l’influsso nervoso che in teoria le sottende. Sappiamo solo che i circuiti possono
essere trasformati dall’apprendimento con creazione di nuove sinapsi e nuove connessioni. L’ipotesi
biologizzante trascura certi aspetti essenziali della relazione umana con il mondo, molti dei quali si
riflettono in modo particolare nel linguaggio. Si tratta di aspetti affettivi e culturali che guidano i
comportamenti fondamentali dell’uomo come ad esempio la memoria collettiva che è uno dei
fondamenti della Storia, o il sogno, o ancora la creazione artistica, o infine l’attività ludica. Certe
proprietà delle lingue e del linguaggio riflettono in modo interessante i meccanismi celebrali.
Eccone tre aspetti.
Sappiamo che tutte le lingue organizzano i propri mezzi di espressione secondo una distinzione di
base tra lessemi o morfemi. Questa differenza tra le due componenti di grammatica e lessico va
messa in relazione con una facoltà, condivisa dal cervello umano e dai computer che lo imitano, che
consiste nel limitare i costi energetici senza per questo limitare il rendimento. Il dispendio di
energia corrisponde qui a una durata di tempo: certe attività necessitano di meno tempo perché sono
di routine, mentre altre, più complesse e creative, si sviluppano su tempi più lunghi. Queste ultime,
proprio a causa della grande estensione temporale ed energetica, si situano a una grado di coscienza
più elevato rispetto alle precedenti. Infatti è più difficile individuare dei sinonimi di alcuni comuni
lessemi piuttosto che di comunissimi morfemi. Questo perché la scelta di un lessema attiva la
facoltà creativa dell’informatore, che per scegliere trai sinonimi che conosce, è abituato a una
grande investimento di tempo e di energia, mentre è abituato a un investimento ben inferiore per i
morfemi; infatti, la scelta che deve operare avviene tra elementi di un inventario limitato, e il suo
cervello non gli fornisce facilmente un equivalente perché, quando parla, egli ripete più o meno
inconsciamente il morfema di cui ha bisogno.
Un altro effetto dei vincoli fisici è quello che si suole chiamare legge del secondo peso. Nei binomi
a diverso grado di fissità (più o meno, presto o tardi qui e là..) l’elemento foneticamente più
pesante, tende a figurare al secondo posto piuttosto che in prima posizione. Di tratta di un vincolo
articolatorio e acustico, quindi fisico. Questo vincolo potrebbe entrare in conflitto con una logica
semantica che si basa sulla deissi (la prima posizione del binomio viene occupata dall’elemento che
in rapporto al locatore è più vicino nello spazio o nel tempo ed è più valorizzato). Quando accade
però che l’elemento prioritario secondo la deissi è anche quello più èesante sul piano fonetico allora
ha la tendenza ad occupare la seconda posizione (tarde o temprano). Cosi, un vincolo a base fisica,
legato alla configurazione del nervo uditivo e degli organi di articolazione che dipendono dalle aree
celebrali corrispondenti, prevalgono sulle esigenze stesse della produzione di senso.
Infine, l’antropologia culturale, è il fenomeno in base al quale un legame di provenienza storica si è
imposto in numerose lingue tra particelle diverse e i nomi di parti del corpo umano, come ad
esempio testa, piedi, panca, fronte, schiena, fornendo le fonti lessicali di particelle che significano
rispettivamente sopra, sotto, dentro, davanti, dietro.
Un altro aspetto ben studiato che testimonia il fondamento biologico del linguaggio è quello
illustrato da diversi tipi di patologie, dalle varie forme di afasia e disfagia, fino alla sindrome di
Down, la sindrome di Williams, e più in generale tutti i casi in cui un disturbo del linguaggio
corrisponde a una lesione celebrale sinistra ben localizzata. Lavori recenti condotti da specialisti,
stabiliscono che anche certe lesioni dell’emisfero destro provocano un deficit nella comprensione
degli atti di significazione che integrano tutto ciò che implica contenuti semantici che non sono
quelli della pura denotazione. Da qui il nome di disiponoesi (dal greco hyponoo “congetturare”).
Alcuni aspetti fanno emergere l’importanza del sociale nel linguaggio e nelle lingue. Uno di questi è
il rapporto tra organizzazione biologica ed intelligenza: la specie umana possiede la sorprendente
capacità di fondare il proprio adattamento all’ambiente non solo sulla propria organizzazione
biologica, che si è definita a partire dall’Homo Erectus, ma anche sulla propria intelligenza e sulla
vocazione a stringere relazioni interpersonali ed elaborare culture. L’uomo esercita sull’ambiente
un’attività cosciente con cui arriva a ridurre le pressioni selettive della natura, perché di fronte ad
esse la specie umana si caratterizza per una capacità fondamentale: la capacità di scegliere.
Quest’ultima è un altro aspetto importantissimo nella questione “linguaggio e lingue come oggetto
sociale” insieme alla natura vocale-uditiva delle lingue. Dalla diversità dei contesti ecologici e
dunque ecolinguistici in cui si installarono i discendenti dell’Homo habilis, seriva una visione
poligenetica delle lingue umane che si oppone a quella monogenetica, cioè di una lingua originaria
unica da cui deriverebbero tutte le altre. Fra 1,4 e 1,6 mln di anni fa, in Africa occidentale, Europa
occidentale e Asia orientale furono ritrovati resti di mascelle e ciottoli. Le società preistoriche
disperse su cosi vasta scala hanno scelto il canale vocale-uditivo come supporto materiale per
produrre senso, quando in effetti altri canali erano ugualmente possibili. Questo fenomeno non è
solo umano ma è caratteristico anche degli animali superiori, mammiferi e uccelli, con i quali sono
entrati in contatti gli antenati dell’uomo grazie alle migrazioni. Cosi, un tratto fondamentale degli
esservi viventi può essere emerso sotto la pressione dell’ambiente, e cioè la mimesis o pulsione
all’imitazione, che deve aver giocato un ruolo determinante. Ma oltre a ciò una serie di fattori
favorevoli ha consolidato le abitudine acquisite, e tali fattori spiegano il successo dell’elemento
sonoro nell’avventura umana delle lingue. Tra i vari sensi, alcuni, come il tatto, determinano una
ricezione a prossimità immediata, mentre altri agiscono come recettori a distanza, cioè autorizzano
una ricezione differita nello spazio. E’ il caso di vista e udito. Perché l’udito ha prevalso sulla vista?
Il canale visivo è ben presente nella comunicazione linguistica tra vedenti quando si produce
significato con i gesti; ed è l’unico canale verbale per i sordi. Ma esso non era e non è utilizzabile in
permanenza, perché i gesti non sono percepibili di notte e inoltre perché un ostacolo, un rilievo o
qualsiasi altro schermo blocca la vista ma non l’udito, a condizione certo che la distanza non sia
troppo grande. Lo sviluppo genetico predisponeva l’udito a giocare un ruolo centrale, ancor più
della produzione vocale: a livello dell’individuo, il bambino percepisce i suoni per via intra-uterina,
mentre impiegherà molto tempo (18 mesi) per arrivare ad una buona discesa della laringe
(presupposto per la comparsa della parola); sulla scala della storia della specie umana l’evoluzione
segue lo stesso percorso. Questo non significa che la facoltà del linguaggio, che è indipendente
dall’invenzione delle lingue (mentre l’inverso è falso), non sia apparsa molto prima della discesa
della laringe.
La specie umana è diagonale a tutti gli effetti. La comunicazione emerge fin dalla notte dei tempi
coma una pulsione di risposta a un’urgenza. Nel momento in cui diventa complessa,
l’organizzazione sociale presuppone un mezzo di comunicazione. Certi biologi considerano infatti
la dimensione sociale come secondaria. Secondo Changeux “Sembra probabile che lo sviluppo del
legame sociale, si amplifica enormemente nei primati superiore, sia all’inizio la conseguenza e non
la causa dell’espansione del neocortex... Non bisogna per altro escludere la possibilità di un effetto
di ritorno del contesto sociale sull’evoluzione genetica degli antenati diretti dell’uomo”. Del resto
Changeux aveva parlato di una “variabilità significativa dell’organizzazione della corteccia
cerebrale in relazione all’ambiente culturale”. Cosi, fin dagli inizi di un vero e proprio sviluppo
della vita di gruppo, bisogna ipotizzare che ‘interazione tra fattori cerebrali e fattori sociali diventa
permanente. Più in particolare, la “natura” dota la specie umana di una certa quantità di reti
neuronali che corrispondono a operazioni mentali definite. Ma l’ambiente opera una selezione tra
queste reti secondo il loro grado di funzionalità. Tutto questo è definito da Changuex
“stabilizzazione selettiva” delle sinapsi. L’innato e l’acquisito non hanno dominio stagnante di
sviluppo, ma si trovano in costante interferenza. Se si esamina l’evoluzione del bambino, si osserva
che possedere fin dalle prime settimane di vita una conoscenza delle strutture del mondo, e che
questa conoscenza, indipendente dal linguaggio, è connessa a dati biologici. Però le espressioni
linguistiche che il bambino impara ben presto a costruire con segni e combinazioni di segni, e che
diventa capace di applicare alla conoscenza che ha del mondo, non possono essere create in lui dal
nulla, contrariamente a quanto è potuto accadere all’alba della specie. Anche se è vero che la facoltà
del linguaggio non può essere appresa, una volta ridotta a se stessa come potrebbe rendere conto
dell’acquisizione del nocciolo duro della lingua tra 15-18 mesi e 3-4 anni, se l’imitazione degli
adulti, non giocasse un ruolo fondamentale? Non si fa certo avanzare il dibattito se si sostiene che la
mimesis è essa stessa inscritta nel codice genetico, perché di fatto i suoi effetti si combinano con i
dati ereditari. La tesi innatista sostiene inoltre che l’organizzazione gerarchica delle frasi nelle
lingue umane è geneticamente assegnata in virtù di principi come il ciclo trasformazionale
(Chomsky).Secondo tale principio, una stessa serie di trasformazioni viene applicata
successivamente, in lingue come l’inglese o il francese, per formare una frase complessa dalla
proposizione subordinata di ultimo grado fino alla principale. Questi vantaggi selettivi si articolano
sull’urgenza comunicativa. E’ rivelatore il fatto che certi innatismi negano alla lingua una funzione
fondamentale comunicativa, a dispetto della constatazione che ciascuno può fare dell’uso della
lingua nella comunicazione. La lingua non è anzitutto un mezzo di comunicazione. Possiede troppe
ambiguità, troppe ridondanze, troppi tratti specifici per essere un buon mezzo di comunicazione.
Le lingue presentano innumerevoli tracce dei fenomeni sociali che, inscrivendosi nel tessuto
materiale delle strutture linguistiche, creano dei vincoli lessicali e grammaticali altrimenti
inspiegabili con la sola dinamica interna. Ecco tre esempi illuminanti:
Le parole sono testimoni di fatti socioculturali. Un esempio ne sono l’indonesiano (lingua moderna)
che è formato sulla base del malese, una lingua antica. Si tratta di un fenomeno sociale che si
inscrive nel tessuto della lingua senza che intervenga alcun fattore che si possa ricollegare ai
meccanismi di una grammatica universale innata. Esiste una chiara tendenza nell’indonesiano
moderno, a utilizzare di più dei predicati attivi con il prefisso me- che con il prefisso ber-, che
funziona piuttosto come aggettivo. Questa tendenza della funzione predicativa a evolvere dalla
descrizione di una situazione a quella di un attività è parallela alla tendenza sociale che va verso
l’individualizzazione e il dinamismo del soggetto nella cultura indonesiana odierna, attraverso
l’influenza della cultura moderna.
La costruzione di vincoli formali come processo di ritualizzazione delle lingue. I fattori sociali
possono determinare delle forme che non rientrano nella necessitò organica delle lingue intese come
meccanismi mentali. Si può chiamare ritualizzazione il processo in base al quale, con il rinforzarsi
delle relazioni di solidarietà tra i membri di una comunità, vincoli sempre più stretti e più arbitrari
cominciano a pesare sulla traduzione linguistica del mondo e sulle categorie grammaticali che ne
sono alla base. Un esempio tipico è quello delle classi nominali: in molte lingue, gli elementi
dell’universo sono ripartiti in categorie marcate formalmente da morfemi speciali detti classificatori
per distinguere altrettante forme, dimensioni, usi, tipologie, ecc. di oggetti. Anche in questo caso
non si può invocare un determinismo legato all’organizzazione del dicibile in base ai vincoli innati
di una grammatica universale.
Le forme linguistiche come liturgie sociali. Il confronto tra Pidgin e lingue creole illustra la
differenza tra assenza e presenza di un legame sociale che consacra in senso liturgico
l’appartenenza identitaria dei membri di un gruppo. I Pigdin non hanno una funzione identitaria
perché la lingua è usata tra membri di gruppi che non parlano la stessa lingua nei mercati delle città
africane. La creolizzazione invece non ha per unico scopo quello di rispondere all’urgenza
comunicativa attraverso il mezzo più diretto per rapportarsi con gli altri a parole. Per questo nelle
lingue creole le complicazioni morfologiche sono strumenti che servono a marcare l’identità etnica.
Inoltre esse conservano tracce importanti delle lingue di sostrato, andando contro le tesi innatiste
che sostengono la presenza in esse di costruzioni nate spontaneamente dall’attitudine genetica degli
utilizzatori.
Il modello che potrebbe corrispondere alla doppia natura delle lingue (biologica e sociale) è quello
socio-operativo. In definiva l’essere umano compie nella società delle operazioni di costruzione
dell’enunciato. Nel corso del tempo fabbrica degli strumenti formali grazie ai quali può elaborare
un sistema linguistico e proiettarlo nello spazio-tempo del discorso, ma tutta questa attività
operativa ha come contesto permanente l’atto sociale della comunicazione. Si osserva inoltre che gli
strumenti formali che l’uomo fabbrica per comunicare, presentano differenze notevoli da una lingua
all’altra, anche all’interno della stessa famiglia genetica. Le comunità umane strutturano in modi
molto diversi la loro conoscenza del mondo. Questa diversità si spiega in una prospettiva socio-
operativa: l’essere umano può essere concettualizzato come un enunciatore psicosociale, cioè come
produttore e ricettore di parole in un processo di comunicazione a base biologica, ma plasmato in
continuo dal fattore sociale.
CAPITOLO 9
LALLAZIONE E CULTURA (Boysson-Bardies)
Come la lingua materna “coltiva” il cervello del bambino, geneticamente predisposto? Nel corso dei
primi 18 mesi di vita, il fatto di ascoltare la lingua materna permette al bambino di fare 3 “raccolti”
a partire dagli input linguistici: ricava un modello della struttura fonetica e prosodica della lingua;
scopre l’esistenza di parole che uniscono arbitrariamente suono e significato; riconosce dei modi di
produzione appropriati alla sua lingua e al suo contesto.
Questi raccolti non si fanno su un terreno vergine. Il bambino è in grado di fare distinzione raffinate
sulle dimensioni fonetiche. Cosi, i neonati sono sensibili alla maggior parte dei contrasti fonetici
presenti nelle lingue. Questa capacità è un prodotto dell’evoluzione perché se ne trovano degli
equivalenti in certe specie animali. Essa è generale perché permette di distinguere i contrasti di
valore fonologico nelle diverse lingue. E’ “linguistica” e non acustica. Accanto a queste capacità il
neonato dispone di processi che sviluppano in lui la sensibilità a organizzare prosodicamente la
parola, cioè in rapporto alle variazioni di durata e di altezza che producono il ritmo e l’intonazione
delle lingue. Dal primo mese di via il neonato risponde a questi marcatori che segmentano le
proposizioni nelle lingue. Nel bambino da 2 a 6 anni, ma solo per una decina di giorni, si osserva un
comportamento detto turn-talking (ciascuno a suo turno). Il bambino risponde molte volte di
seguito con piccole vocalizzazioni alle sollecitazioni vocali dell’adulto. Questo comportamento si
osserva anche nei bambini sordi, e mostra come i bambini siano programmati a reagire ai
movimenti della bocca in atto di parlare. Il turn-talking sembra segnare l’inizio di un
comportamento di comunicazione vocale. L’ascolto di una lingua è necessario perché questi doni in
potenza si traducano in atto, e perché si instauri il linguaggio e il desiderio di una comunicazione
parlata con le persone circostanti.
La prima “coltura” del cervello del bambino avviene ascoltando la lingua materna. Dal sesto mese
si comincia a notare una selezione dei dati forniti dall’ambiente linguistico. Questa selezione porta a
una specificazione delle capacità iniziali di distinzione e categorizzazione. A 6 mesi si nota una
percezione delle vocali modificata dall’ascolto di esempi di vocali trovate nella lingua adulta.
Tuttavia il neonato era in grado gia dal quinto mese di vita di associare i suoni delle vocali ai
movimenti della bocca; a circa 7 mesi un riconoscimento delle sillabe la cui struttura è conforme a
quella della lingua materna; sempre a 7 mesi una specificazione dei tratti indicanti le frontiere delle
frasi. Il neonato distingue solo quelli che segnano le frontiere della lingua materna. Il bambino
diventa inoltre sensibile alle posizioni degli accenti nelle lingue a stress. Le proprietà della lingua
materna hanno modificato l’udito del bambino. Il suo spazio percettivo iniziale si è sensibilizzato
alle priorità peculiari dei repertori fonetici e ritmici della propria lingua e le sue capacità di
discriminazione dei contrasti stranieri che non sono stati ascoltati nell’ambiente di vita vanno
progressivamente indebolendosi. I neonati sono introdotti nella loro lingua materna e aiutati nel loro
trattamento della parola dal modo in cui gli adulti si rivolgono a loro. Le intenzioni dei genitori
accompagnano lo sviluppo culturale del bambino. Altri meccanismi “automatici” accompagnano il
kit genetico per il linguaggio e favoriscono una rapida selezione delle forme e delle parole della
lingua. Uno di questi si basa sulla capacità del neonato di selezionare degli schemi fonetici su criteri
distributivi e di frequenza. Basta una presentazione di appena due minuti di una catena continua di
parole che consiste in 4 parole di 3 sillabe ripetuta in un ordine aleatorio a un tasso di 270 sillabe al
minuto perché il bambino possa estrarre da questo magma le parole a partire dal loro indice di
probabilità transizionale alle frontiere. Cosi la prima “coltura” legata all’ascolto della lingua
permette al bambino di 8-10 mesi di avere un modello preferenziale percettivo fondato sulle
caratteristiche fonetiche e prosodiche della sua lingua. La selezione dei dati acustico-fonetici della
lingua avviene prima che il bambino sia capace di produrre suoni linguistici. Il bambino comincia a
produrre delle sillabe simili a quelle adulte intorno ai 7 mesi: è l’inizio della lallazione. Le
produzioni della lallazione non sono indipendenti dall’acquisizione della parola e molto presto nella
lallazione si manifesta l’influenza della selezione percettiva effettuata nei mesi precedenti. Le
sequenze di sillabi della lallazione a 8 mesi si uniformano, in generale, ai pettern intonativi propri
della lingua. Verso i 9-10 mesi lo spazio vocalico delle produzioni della lallazione riflette quello
della lingua materna del bambino. Uno studio sull’analisi delle vocali di illazione dei bambini di 10
mesi francesi, inglesi, algerini e cantonesi mostra che gli spazi vocalici dei bambini tendono a
uniformarsi a quelli della distribuzione adulta. Sempre a 10 mesi il bambino produce sillabe che
tendono a riprodurre gli schemi più frequenti nella sua lingua. L’alternanza CVCV (consonante
vocale..)è generalmente la forma più frequente dei disillabi nella lallazione. Con la lallazione le
produzioni del bambino entrano a far parte del suo universo percettivo. Vengono associate
nell’esperienza della lingua alle produzioni adulte ed entrano a far parte del lessico del bambino.
Inoltre hanno un peso nel rimaneggiamento percettivo che si osserva alla fine del primo anni di vita.
La raffinata facoltà percettiva riscontrata nel bambino di meno di 8 mesi non include la
rappresentazione di “entità conoscitive”, cioè di forme sonore a cui sono legati significati. Molto
preso il bambino realizza che i suoni del linguaggio servono a comunicare presenze, stati d’animo o
situazioni, ma è solo intorno ai 9 mesi che capisce che i suoni formano parole, che ogni parola
corrisponde a un concetto, e che ogni concetto può essere nominato. Si tratta del momento in cui il
bambino comincia a chiedere parole, cioè a indicare gli oggetti di cui vuole conoscere il nome. Alla
fine del primo anno di vita arriviamo dunque a una tappa molto importante e relativamente poco
studiata rispetto alla precedente. Il bambino comincia a capire che i suoni formano delle parole con
un senso. Le raffinate capacità di distinzione riscontrare nel neonato sono parzialmente mascherate
dalla priorità accordata alla ricerca del significato delle forme acustiche. A 7 mesi il bambino
riconosce una forma sonora solo se è identica a quella che gli è stata precedentemente insegnata. A
10 mesi il bambino estrae dalle parole dal suo ambiente familiare, e queste parole sono riconosciute
anche se hanno subito un cambiamento di posizione o di articolazione della prima consonante. Il
bambino non cerca più l’identità con una forma udita in precedenza, ma una forma che possa essere
riferita a oggetti o persone note. A 14 mesi i bambini che imparano il significato delle parole, non
identificano le sottili variazioni fonetiche nelle sillabe quando debbono imparare o riconoscere il
significato di una parola. Continuano a identificare queste variazioni solo nel caso che debbano
operare una distinzione. Il compito di unire delle parole a degli oggetti è gratificante, e il bambino si
concentra sulla ricerca e la produzione di senso. Il bambino tra 10 e 16 mesi continua la lallazione
agevolando la produzione di forme della lingua materna, ma a circa 1 anno di vita produrrà le sue
prime parole. Le prime parole dei bambini sono foneticamente imprecise. I bambini costruiscono
allora rappresentazioni in sillabe o in parole prosodiche, delle gestalt che integrano al loro lessico
accettando cosi delle forme approssimative. Il bambino diventa creatore di parole. Questa seconda
“coltura” del cervello attraverso la lingua ha insegnato al bambino la relazione arbitraria tra suono e
senso.
Un terzo “raccolto” dovuto all’influsso strutturale e culturale della lingua si imprime tra il decimo e
diciottesimo mese sulle strategie di accesso al linguaggio e sulla scelta delle prime parole. I bambini
hanno imparato a distinguere, ma fanno delle scelte quando non possono memorizzare e controllare
tutto contemporaneamente. Nel periodo relativamente lungo di 4-5 mesi, che va dalle prime parole a
un vocabolario di circa 50 parole, si assiste allo sviluppo di modi peculiari di accesso al linguaggio.
Questi riflettono le scelte diverse che i bambini fanno sulle forme che organizzano la lingua: fonemi
salienti, sillabe, ritmo sillabico, vocali, intonazioni della frase. Il temperamento, le determinazioni
genetiche, gli influssi dell’ambiente fanno si che un bambino non assomigli ad un altro. Tuttavia
questa varietà di scelta non indipendente dalla struttura della lingua parlata nell’ambiente
circostante. L’influenza della cultura agisce nettamente anche al livello della scelta delle parole. Il
bambino cresciuto in un quadro culturale che ha i suoi costumi e le sue esigenze, parla “per” questo
tipo di entourage. Fin nel primo lessico, la distribuzione grammaticale delle parole e il loro
contenuto sono influenzati dalle divergenze tra le forme culturali d’inserimento sociale. Il bambino
si mostra “acculturato” fin dalle sue prime parole. I bambini hanno selezionato le parole che fanno
parte del loro spazio sociale. L’adulto trasmette inconsciamente la sua cultura attraverso le parole
che utilizza con gli altri, e in quelle che pensa utili insegnare al bambino inteso come interlocutore
sociale. La lingua come fenomeno culturale agisce fin dai primi mesi per modellare lo spazio
percettivo del bambino verso uno schema preferenziale della struttura fonetica e prosodica di tale
lingua. Intorno a 1 anno essa gli schiude il mondo della parole, orienta i suoi modi di accesso al
linguaggio e la scelta dei suoi primi vocaboli, gia selezionato da e per il contesto culturale che
circonda il bambino.
CAPITOLO 10
LE BASI CEREBRALI DI UN’ACQUISIZIONE CULTURALE: LA LETTURA (Dehaene)
Quando leggiamo un testo non siamo complessità delle operazioni che vengono messe in atto dal
nostro apparato visivo. Da un lato il nostro apparato visivo si adatta alle molteplici variazioni della
forma delle parole In questo modo possiamo riconoscere la parola “quattro” sia essa scritta in
minuscole o in maiuscole, in un carattere inusuale e qualunque siano le sue dimensioni. Siamo
inoltre capaci di leggere delle parole nelle quali una lettere sua due sia minuscola. Dall’altro, siamo
straordinariamente sensibili alle differenze grafiche minime che a volte distinguono parole molto
diverse. Infine, è chiaro che questa capacità deriva da un lungo apprendistato. Ciò che distingue due
parole in una lingua può essere irrilevante in un’altra. A seconda che impariamo a leggere il cinese,
l’ebraico o i geroglifici, il nostro cervello saprà riconoscere senza esitazione tali caratteri, o al
contrario vedrà in essi delle forme astratte impossibili da decifrare. Solo qualche migliaio di anni fa
l’umanità ha inventato la scrittura. La struttura del nostro cervello non ha dunque avuto la
possibilità di adattarsi alle particolari difficoltà poste dal riconoscimento delle parole scritte, e
tuttavia il nostro apparato visivo realizza delle prodezze tali da sembrare perfettamente adattato a
questo nuovo compito. La maggior parte dei ricercatori accoglie implicitamente il modello che si
potrebbe definire della plasticità generica e del relativismo culturale. Secondo tale modello il
cervello è considerato come un organo talmente plastico che non vincola in alcun modo le nostre
acquisizioni culturali peraltro cosi diverse tra loro. In base a tale ipotesi, il cervello, liberato dai suoi
vincoli biologici, a differenza di quello delle altre specie animali, sarebbe in grado di assorbire ogni
forma culturale per quanto varia. Alcuni studi molto interessanti tendono a proporre un modello
alternativo, che si oppone radicalmente al precedente. In base a tale ipotesi, la struttura del cervello
è molto vincolata: prende le mosse da una serie di limiti genetici, ma resta aperta a un margine di
variabilità. Le acquisizioni culturali sono allora possibili nella misura in cui si inseriscano in questo
margine, riconvertendo ad un altro uso le predisposizioni, cerebrali già esistenti. La variabilità
culturale è dunque ridotta, la sua ampiezza apparente è solo un’illusione legata alla nostra
incapacità di immaginare forme culturali diverse da quelle che il nostro cervello è in grado di
concepire.
L’analisi funzionale per immagini attraverso la risonanza magnetica (IRMf) perfette oggi di
visualizzare l’attività del cervello durante numerose operazioni cognitive. Sarebbe sbagliato pensare
che una sola area cerebrale si faccia carico di un’operazione cosi complessa come la lettura. Il
riconoscimento visivo, l’accesso al lessico mentale, il recupero del significato di ogni parola, la loro
integrazione nel contesto della frase, e infine la loro pronuncia mettono in moto più di una decina di
aree cerebrali ripartire della regione occipitale, temporale, parietale e frontale. Nelle tappe più
precoci della lettura entra in gioco una piccola regione che si chiama area della forma visiva delle
parole, fa parte della via visiva ventrale sinistra, una banda della corteccia cerebrale che si estende
alla base del cervello dal polo occipitale, interessato nell’analisi dei tratti visivi, fino alla regione
fusiforme anteriore dove si estrapola l’identità degli oggetti. Una prima sorpresa è data
dall’incredibili riproducibilità per immagini di questa regione da un individuo all’altro. La si trova
sistematicamente nella stessa posizione in ogni individuo, in una sezione del cervello detta solco
occipito-temporale. Numerose caratteristiche dimostrano che questa regione svolge un ruolo
particolare dell’identificazione visiva delle parole. Anzitutto si attiva solo con le parole scritte, e
non quando le parole sono in forma orale. Inoltre non sembra interessarsi al significato delle parole
ma unicamente alla loro forma visiva. Si pensa che questa regione effettui l’analisi delle lettere che
compongono le parole, e che fornisca alle altri regioni cerebrali una rappresentazione della loro
identità e della loro disposizione secondo un certo ordine. La lesione di questa regione, ad esempio
in seguito ad un incidente vascolare, genera una sindrome particolare, l’alessìa pura: il paziente non
è più in grado di leggere rapidamente le parole. Tutto questo dimostra che una frazione della
regione infero-temporale sinistra svolge un ruolo molto particolare nell’identificazione visiva delle
parole.
La regione della forma visiva delle parole si adatta attivamente alla lettura. Ne è prova il fatto che
no basta una serie qualunque di lettere per attivarla. La risposta della regione cerebrale in esame
non è determinata soltanto dagli stimoli visivi, ma dalla storia culturale dell’individuo che,
imparando a leggere, ha imparato a decodificare certe serie di lettere meglio di altre. In tutte le
culture, nonostante le forme di superficie variabile, sembra che le parole scritte si inscrivano nella
stessa regione cerebrale, con minime differenze legate forse alla forma e alla struttura interna dei
caratteri. Questo processo di condizionamento culturale può essere visualizzato in modo diretto
attraverso l’analisi del cervello del bambino durante le diverse tappe dell’apprendimento della
lettura. Sono nel bambino di 10 anni si cominciano a registrare delle risposte che somigliano a
quelle dell’adulto. E’ affascinante constatare che anche un bambino di 8 anni, che sa già leggere da
vari mesi o anche da anni, non attiva necessariamente in modo marcato la via visiva ventrale
sinistra. Non basta saper leggere: è la perizia nella lettura all’interno di una cultura data che porta a
una specializzazione di questa regione. In questo modo si osserva una correlazione forte tra il grado
di attivazione di questa regione e le performance di lettura.
La regione visiva ventrale sinistra estrapola una rappresentazione visiva invariante, capace di
codificare l’identità delle parole facendo astrazione dai parametri visivi non pertinenti. Una prima
forma di invarianza è spaziale. Le prime tappe dell’analisi visiva sono dette retinopiche perché
interessano dei punti specifici della retina. Tuttavia, l’analisi funzionale per immagini mostra che la
regione della forma visiva delle parole è la prima regione che, nell’analisi visiva, non è retinopica.
Risponde infatti in modo identico a parole presenti sia a sinistra sia a destra del campo visivo, cosa
che ci consente di leggere le parole qualunque sia la loro posizione. Questo implica una connettività
particolare. Le parole presenti a sinistra sono infatti trattate inizialmente da regioni visive
dell’emisfero destro, e viceversa. L’invarianza di posizione può dunque essere colta dalla regione
ventrale sinistra solo se questa regione raccoglie le informazioni visive da entrambi gli emisferi.
Esperimenti permettono di stimare che l’identità invariante delle parole è estrapolata in meno di un
quinto di secondo. Un secondo aspetto di questa invarianza riguarda il tipo di carattere e il formato
in cui i caratteri sono stampati. Siamo in grado di riconoscere la stessa parola scritta in maiuscole o
minuscole, in carattere Garamond o Arial. La regione della forma visiva delle parole è all’origine di
questa capacità. L’analisi per immagini dell’attività cerebrale ha mostrato che tale effetto traeva
origine nella regione visiva ventrale sinistra. L’attivazione di questa regione era più elevata quando
venivano mostrate due parole distinte che quando la stessa parola era mostrata due volte. Il che
suggerisce l’esistenza, in questa regione, di popolazioni di neuroni in grado di identificare la
DESCRIZIONE APPUNTO
Riassunto per l'esame di Etnologia, basato su appunti personali e studio autonomo del testo consigliato dal docente Etnologia, Meschiari. Analisi dei seguenti argomenti: l'evoluzione degli ominidi e l'origine del linguaggio (Hublin), le malattie monogeniche e le turbe cognitive e del comportamento (Mandel), il ritardo mentale, i geni e la cultura, l'evoluzione culturale (lo spettro dei possibili).
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher anita K di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Etnologia e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Palermo - Unipa o del prof Meschiari Matteo.
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