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Per la Spivak il modo in cui l'Occidente ha conosciuto le culture altre è stata una
modalità di costruzione dell'alterità, con relativa cancellazione (forclusione) della
possibilità di parola dell'informante nativo.
L' identità dell'occidente si è costruita grazie al fatto di aver scritto dei testi che sono
un'invenzione dell'altro, attraverso cui viene continuamente posta l'alterità assoluta
di questo mondo non-occidentale. La forclusione dell'informante nativo è
fondamentale per costruire la nostra identità, senza cui l'antropologo non sarebbe in
grado di costruire la finta alterità che ci fonda.
- Il passo ulteriore che fa Spivak è quello di dirci che è proprio la forclusione
dell'informante nativo il gesto fondamentale con cui si crea l'idea di Uomo nella
filosofia europea dell'Ottocento.
Un espulsione, dunque, che è però indispensabile per costruire la nostra identità.
La nostra definizione passa dalla forclusione dell'informante nativo dai testi culturali
europei.
Mentre i testi di antropologia, anche se forcludono l'informante nativo, ne celebrano la
figura, i testi filosofici veicolano un'idea di uomo e storia in cui si da per scontato
che la figura su cui costruire l'umano sia l'europeo.
Anche se nei testi di filosofia l'informante nativo non viene celebrato, se noi cerchiamo con
spirito decostruttivo, ci accorgiamo che questa figura esiste ed è appunto forclusa.
Nel caso di Kant la figura dell'informante nativo serve come esempio per mettere in
risalto il giudizio riflettente, la sua autonomia e il modo in cui esso riesce a
concedere all'uomo la libertà facendocelo percepire come uomo razionale.
Spivak definisce errata la lettura dei testi filosofici, perché inserisce un elemento empirico
all'interno di una serie di opere che non hanno riferimenti all'esperienza e alla realtà
concreta. Il riferimento empirico sfugge alle
(uomo rozzo > uomo selvaggio > colonizzato)
intenzioni dell'autore, che vuole farci riflettere su altro .
(Kant: perché il soggetto razionale?)
Rispetto alla sua lettura di Kant, Spivak si sofferma sul paragrafo §29 dell'analitica del
Sublime dicendoci che:
L'uomo rozzo è il soggetto subalterno e colonizzato a cui Kant non attribuisce le
stesse possibilità attribuite al soggetto che Kant vorrebbe universale ma che a
questo punto è geopoliticamente situato.
I momenti su cui Spivak si sofferma sono:
− quello relativo alla cultura: ci vuole una certa cultura per attribuire alla natura una
sublimità che in realtà è quella che il soggetto prova per sé stesso.
− la disposizione che Kant ci dice essere necessaria affinché il soggetto dica sublime
qualche cosa rispetto alla potenza della natura.
Kant ci sta dicendo che c'è una “disposizione” alle idee, quindi è come se in natura il
soggetto fosse programmato per quell'operazione grazie alla quale noi possiamo dirlo
razionale.
Proprio nel momento in cui qualcuno non riesce a compiere questo
(il soggetto colonizzato)
atto, Kant ci sta dicendo che forse c'è qualcuno che è del tutto alieno rispetto a questo
genere di operazione: ci sono dei soggetti che hanno una costituzione naturale che non li
conduce alla razionalità.
Il soggetto rozzo non è ancora razionale (e il non ancora è un concetto che Chakrabarty usa spesso
per descrivere il modo in cui l'Europa si è pensata: il centro del mondo che si erge su una periferia che è
.
temporalmente in una fase di “non ancora” (sviluppato/nel presente/ etc.)
Egli potrà ricevere l'insegnamento di questa cultura, potrà essere educato ad avere la
stessa disposizione naturale dell'uomo razionale (ma non è strano educare a una disposizione
naturale? → in virtù di questa stranezza Kant oscilla fra l'inammissibilità dell'educazione e la sua
possibilità, cosa che invece Hegel risolverà a favore della non educabilità: ci sono popoli che non
.
entrano nella storia dello sviluppo dello spirito)
Spivak però non si ferma al §29, individuando come l'uomo rozzo ritorni nella parte
dedicata al giudizio teleologico.
Il giudizio teleologico è quel giudizio che permette di trovare una finalità della natura non in
termini soggettivi ma in termini oggettivi.
(bello/sublime)
→ dunque il Soggetto kantiano non è universale ma geopoliticamente referenziato.
In quel periodo in tutta Europa ferveva il dibattito che si chiedeva se i popoli del resto del
mondo fossero o meno esseri umani e, rispetto a questo dibattito, cominciato in realtà
dalla conquista del Nuovo Mondo (fine del '400), Spivak dice che in fondo in fondo Kant
avrebbe risposto che no, essi non sono esseri umani → l'essere umano per Kant è l'eroe
razionale delle tre Critiche.
Spivak – Parte Storiografica
SPIVAK E BENJAMIN
Come Benjamin, la Spivak è dell’idea che la storia:
Non sia un continuum
Ma sia frammentata.
Piena di fallimenti conoscitivi causati dall’opera dello storicista a servizio della classe dominante.
Spivak crede nella pluralizzazione della storia e del tempo storico.
Distingue tra:
- Tempo, che equivale al “visibile”, alla “buona scrittura” della storia.
- Timing, indica il tempo realmente vissuto, il sentimento individuale.
Mentre il Tempo corrisponde alla Storia in quanto History, il timing si lega alle storie in
quanto stories. Secondo Spivak, il Tempo esercita sul timing la stessa tirannia che la
History esercita sulle stories.
SPIVAK E DERRIDA
Prendendo a riferimento Derrida e i suoi metodi de-costruttivi, ripercorre lo storia recente alla
ricerca di questi fallimenti conoscitivi; di certo non riempibili perché ormai persi, ma almeno
individuabili.
Dai dati raccolti, circa la realtà indiana dell’800, dice che:
il subalterno più subalterno è la donna bengalese
Perché dice:
C’è la classe imperiale dominante
C’è l’elité aristocratica e medio-alta borghese nazionale
C’è la classe subalterna (piccola-borghesia e masse contanide/metropolitane)
C’è la donna subalterna, la quale nella divisione di genere interna alla classe subalterna risulta in un livello
sottostante l’uomo.
Conclusione:
La figura del subalterno non è solo una figura storica, ma esiste anche e in ultima
istanza un problema di genere.
Spivak ritiene che per ascoltare la subalterna sia necessario rivolgersi alle stories: solo nella
dimensione del timing, infatti, la forclusione della subalterna non è completa e possono aprirsi degli
spazi per nuove forme di espressione.
È in questo senso che vanno lette le due storie di donne che Spivak presenta nella Critica della
ragione postcoloniale.
SUBALTERN STUDIES E DONNA SUBALTERNA
Nel lavoro del Subaltern Studies Guha si è chiesto:
E’ possibile recuperare la voce subalterna?
Guha: SI, attraverso quelli indizi recuperabili attraverso la decostruzione
Spivak: NON DIRETTAMENTE, attraverso quegli indizi possiamo solo giungere alla
voce subalterna indirettamente.
Spivak: NO, NE’ DIRETTAMENTE NE’ INDIRETTAMENTE se consideriamo che il
vero subalterno è la donna subalterna (comq sia, anche una donna non della classe
.
subalterna è da ritenersi come forclusa dalla storiografia)
DONNA come OGGETTO
La storia della Rani di Sirmur ( Non si sa quale sia il vero nome della Rani, dal momento in cui ella affiora
fugacemente dagli archivi britannici non nella sua individualità, ma in quanto “moglie di un re e appartenente al sesso
debole nella scacchiera del Grande Gioco”.)
Intorno al 1820, tra le colline di Sirmur, nel basso Himalaya, visse una Rani, una regina, sposata a
un Rajah spodestato dagli inglesi, la quale intendeva compiere il rituale sati, il suicidio delle vedove,
nonostante il marito fosse ancora in vita.
I britannici, emissari dell’Europa “civilizzatrice”, si sentirono in dovere di convincerla a non compiere
questo gesto “barbaro”. Agli occhi dei britannici, infatti, il sati era il simbolo dell’arretratezza e della
barbarie della società indiana, e le donne erano povere vittime inermi che venivano obbligate ad
immolarsi alla morte dei mariti.
La Rani di Sirmur non divenne mai una sati (divinità indù).
Dopo furiose polemiche, la pratica fu bandita in quanto atto barbaro a partire dal 1839. Ma secondo
la Spivak non è stata raccontata tutta la verità: Il sacrificio, infatti, non costituiva un obbligo per le
vedove, anche se era considerato come la scelta più nobile per una “brava moglie” (la parola sati,
infatti, significa proprio “brava moglie”).
Secondo Spivak, la presenza della Rani di Sirmur nella documentazione ufficiale è limitata ad un
uso strumentale: ella non compare mai in quanto persona, ma solo in quanto strumento ideologico
o politico al servizio della logica imperiale.
Dal suo punto di vista, il principio alla base della condanna britannica del sati può essere sintetizzato in una
formula: “uomini bianchi stanno salvando donne scure da uomini scuri”.
In opposizione a questa logica si ha la dichiarazione nativista del patriarcato indiano, secondo la quale “le
donne volevano morire”.
Tra questi due estremi, ciò che viene a mancare è proprio la “vera” voce della donna subalterna.
La storia di Bhuba-neswari Bhaduri
Bhubaneswari Bhaduri nel 1926, alla tenera età di sedici o diciassette anni, venne trovata
impiccata a Calcutta. Apparentemente il suicidio costituiva un mistero, poiché non poteva essere
interpretato come un suicidio “tradizionale” per una gravidanza illecita: non a caso, al momento
della morte Bhubaneswari aveva le mestruazioni, niente di più inconfutabile.
Quasi un decennio dopo, in una lettera lasciata alla sorella maggiore, si scoprì che ella faceva
parte di uno dei molti gruppi coinvolti nella lotta armata per l’indipendenza indiana. Le era stato
affidato un assassinio politico che lei non era stata in grado di portare a termine: proprio per
questo, convinta dell’importanza politica del suo incarico, scelse di togliersi la vita. Sapendo che la
sua morte sarebbe stata interpretata come conseguenza di una passione illegittima, decise però di
attendere l’inizio delle mestruazioni.
Secondo Spivak, l’attesa consapevole di questa ragazza indiana, rappresenta molto:
Bhubaneswari ha cercato di “parlare” facendo del proprio corpo un testo. In un ce