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Victor Klemperer scrive tra il 1932 e il 1933 molte pagine in relazione agli avvenimenti che stanno
imperversando al dilagare nazista. E' braccato a scusa di quello che scrive ma scampa al lager grazie alla moglie
e solo dopo, recuperati miracolosamente i suoi scritti, giunge ad alcune tesi riguardanti la funzione e il contagio
del linguaggio in ambito nazista. Egli dice che non è vero che il linguaggio cela e nasconde ciò che realmente
una persona pensa, ma anzi, è proprio nello stile del linguaggio nonostante i contenuti possano essere
menzogneri, che si possono intravedere le intenzioni di chi si esprime. Per Klemperer il compito della lingua è
essere logos e quindi ragione ma anche ambigua come potenza rivelatrice (rivela il vero volto delle cose) nei
confronti di ciò che essa stessa tende ad occultare, mistificare. Per Kemplerer non c'è lingua che sia poco
versatile, modellabile, espressiva, onnipotente. Quando la lingua invece è prigioniera di chi se ne serve per uno
scopo strumentale viene fatta servire principalmente all'esacrazione (=gettare su qualcuno un marchio di
infamia); disumanizzare dunque, fino a trasformare in oggetto. Esacrare significa strappare l'uomo dal sacro che
lo protegge come l'esacrazione possa dominare il linguaggio in una delle più potenti forme di totalitarismo. Che
cosa definisce il nazismo se non l'esecrazione di tutto ciò che differisce dall'identità nazista? Concentrato com'è
nel suo scopo distruttivo, questo linguaggio si fa tremendamente efficacie fino al punto in cui parola è già cosa,
insulto è già condanna, minaccia è già esecuzione, nessun appello. La massa, tramite la lingua e la ripetizione
meccanica di questa, è inconscia e passiva. Vettore della peste nazista è quindi, per forza di cose, LA LINGUA.
Hitler contagia in quanto contagiato e a ben vedere non è un demonio, come spesso viene dipinto, ma un
posseduto. Hitler è trascinatore in quanto trascinato egli stesso per primo dalle sue stesse parole, che pronuncia
come in uno stato di trance.
Per Hannah Arendt invece il male dovrebbe essere concepito come "banale": il male non può essere radicale
perché non ha profondità nè dimensione demoniaca; solo il bene ha profondità e può essere radicale. Sono 3 i
punti chiave di questo passo: 1 - il pensiero tenta di afferrare il fondamento delle cose ma si sgretola sul nulla
quando ha a che fare con il male che diviene tale quindi solo quando non c'è niente a contrapporsi, a
combatterlo; 2 - il male si manifesta superficialmente come un fungo attraverso "bacilli" o "spore" tradendo la
sua nota vistosità: il male dunque nasconde sé stesso e facendolo si introietta nell'umanità che non riesce a
distinguerlo e in questa indistinzione risiede la sua mostruosità. 3 - solo il bene è profondo e può essere radicale:
bene e male non son o sullo stesso piano ontologico al punto che il bene appartiene all'essere, il male appartiene
al non essere e al nulla. Il male quindi, viene dopo, come un parassita del bene.
Sulla questione della colpa, Jaspers distingue 4 senso di colpa: giuridica (la cui istanza è il tribunale), politica
(l'istanza è il diritto dei popoli), morale (l'istanza è la coscienza), metafisica (l'istanza è Dio). Per Jaspers la colpa
è "di tutti noi" in quanto nella situazione nazista è andato creandosi il cosiddetto "impulso incondizionato":
ognuno è colpevole in quanto sopravvissuto, è naturalmente portato a condividere un destino di morte. L'unico
rimedio è la vergogna, che scaturisce dalla colpa metafisica, e che la accompagna nelle sue manifestazioni.
La colpa non è mai di tutti ma allo stesso tempo tutti sono colpevoli in quanto passivi e apatici di fronte alle
ingiustizie del mondo --> pag 64 La colpa non è infine un'intenzione maligna, ma un modo di essere e una
condizione, la condizione umana.
Capitolo V
Perché si ride dei matti? Cosa fa si che un uomo deficiente sia ridicolo? e cosa lo fa apparire ridicolo ai suoi
stessi occhi? Ridicolo è l'uomo che crede in quello che non è credibile, benchè vero. Seppur ridicolo, tale uomo
applica il disincanto fino al cinismo rendendo qualsiasi elemento della propria realtà indifferente, nullo, tanto da
considerare indifferente anche il suicidio. Tolto il bene e tolto il male tutto diventa indifferente e si identifica con
il nulla. Perché dunque l'uomo ridicolo è ridicolo? Non il fatto di apparire un ingenuo utopista (dopo un grande
lungo sogno che lo vede partecipe di un mondo perfetto dove regna la perfezione e la gioia) visto che se lui
sogna la verità, è pur sempre verità quella che lui incontra. La terra senza male e senza peccato non è utopia in
quanto reale possibilità visto che appartiene al novero delle idee. Cosa rende possibile questa verità? La terra
prima del male non può essere utopia perché si deve poter dire che in essa tutto era perfetto. Non si può dire che
dove c'è il male non ci sia il bene perché esso, e quindi l'amore, si manifesta solo se legato alla morte( dio muore
per essere amato, gli dei sono immortali e infatti non si innamorano) perché che bene sarà mai quello che non
risulta dal doloroso contrasto con ciò che gli si oppone? L'uomo ridicolo non è ridicolo perché utopista ma
perché ha il coraggio di affermare la verità, sopratutto quando appare impossibile. L'uomo ridicolo è tale in
quanto non in difetto di consapevolezza del reale, ma in eccesso.
La verità, non momento stesso in cui appare, si fa menzogna perché portata da una persona considerata ridicola:
ecco che la verità è inscindibilmente legata alla menzogna.
Capitolo VI
E' possibile non vedere quel che non si vuol vedere? Nel caso della peste, dunque, affibbiare a questo o a quel
motivo la causa del morbo? Lo sforzo impiegato per occultare e confondere gli indizi di ciò che sta realmente
accadendo si converte nello sforzo di ascrivere l'accaduto a cause fantastiche. Da questo fenomeno scaturiscono
due resistenze, sia in alto che in basso: da un lato fioriscono le pratiche negromantiche, mentre la figura del
mago trova insperata dignità tramite il mondo dei dotti (anch'essi, colpiti senza distinzione dal morbo, non sono
in grado o forse non hanno il coraggio di ammettere una simile sciagura). Appare così che la realtà si mostri
accompagnata da una serie di figure e metafore, fallaci ma potenti, false ma seducenti. Universalmente condivisa
è la teoria del complotto, non importa da parte di chi e contro di chi, : affacciatasi come un'ipotesi, diviene
certezza indiscussa. Che una materia oleosa fosse stata trovata sulle porte e sulle mura delle case è un fatto, ma
che quella avesse la proprietà di diffondere il contagio è tutto da dimostrare e a nessuno viene in mente di farlo.
Ed ecco che i magistrati sono pronti ad anticipare le richieste del potere politico prima ancora che vengaano
formulate: se il popolo vuole un colpevole, gli sia dato un colpevole.
Secondo bacone, morto 4 anni prime della peste descritta da Manzoni, questi equivoci comportamentali e
linguistici, questa involontà di riconoscere la peste in quanto tale, derivano dai giudizi fallaci del linguaggio detti
"idola fori". Le parole del linguaggio, grazie al quale ci si orienta nel mondo, ci traggono in errore fondando la
chiusezza associata alla pestilenza. Le parole agiscono dunque sulle convinzioni e la potenza del nominare
sembra influire sulla realtà. La peste è poi doppiamente nociva perché oltre ad appestare i corpi appesta anche le
anime facendo credere che il contagio sia un maleficio. L'ignoranza che è colpa prende il nome di falsa
coscienza: quella di chi ha una volontà perversa; i magistrati che misero a tortura due persone innocenti, se
fecero senza rendersi conto di quello che facevano, fu perché non vollero sapere. Tutto è appeso alla volontà e
ciò alla scelta del male in nome del bene, falsa coscienza è la coscienza dell’appestato.
Quando la peste imperversa il malato viene a trovarsi di colpo in quel punto culminante dove il giusto e
l'ingiusto, il lecito e l'illecito sono rimessi interamente a lui. Solo quando si è spogliati di tutto, ossia quando non
c'è più niente da perdere, verità e libertà coincidono e solo una mente alterata dalla paura e dall'angoscia può
inventarsi la figura dell'untore; ma una volta che questo è avvenuto, ovunque si possono trovare conferme della
sua esistenza reale.
Capitolo VII
In questo capitolo si affronta la figura di Leopardi in relazione alla peste a partire da alcune lettere che egli
scambia con i propri familiari trovandosi in campagna al sicuro a 12 miglia da Napoli. Cosa pensa leopardi della
peste? Per lui è la reazione davanti ad una calamità naturale, e cioè il sentimento di condivisione in segno alla
contraddizione di uomo e natura, suprema contraddizione. La questione grava sulla naturalità della peste e sulla
naturalità dell'uomo visto che l'uomo è natura, abita la natura ma non si riduce ad essa. Abbiamo da un verso la
forza smisurata della natura sotto forma di morbo, dall'altro la fragilità della vita dell'uomo, esposta alle ingiurie,
appesa a fantasie. Insensata e sovrabbondante potenza naturale è il "cholera" o peste che dir si voglia ed è forse
più esplodente delle altre in quanto pur sempre nell'uomo.
L'analogia è lampante se si confronta l'esplosione della peste con "La Ginestra" in cui tutto comincia con
un'esplosione e poi il deserto. La sovrana indifferenza della natura non fa che restituire all'uomo la sua verità: lo
riconsegna ad una dimensione che sta prima della verità pur essendone condizione e sorgente e infatti è proprio
l'uomo "non-uomo" spogliato di tutto ed esposto a qualsiasi offesa che comprende la verità che intride la sua
carne.
Nonostante tutto, la tenebra della natura genera luce, ma quale luce? Quella che gli uomini non sono riusciti ad
accogliere assecondando la forza invincibile che li ha creati e che li domina. La Ginestra sta dunque come
l'uomo dovrebbe ma non sa stare: nella verità della sua condizione, ovvero quella di vivente in quanto vivente e
basta. E cioè di chi non ha nulla, non spera nulla, non ha nulla e in questo nulla trova la sua forza e la sua luce.
Per Leopardi la tensione verso il superamento bene\male precipita nel male. A ben vedere il male è l'indifferenza
della natura e ciò il suo essere al di là del