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In realtà però Nietzsche non accetterebbe l’idea di un progresso della conoscenza perché diffidente
nei confronti della stessa “conoscenza”; si tratterebbe infatti dell’ennesima illusione inventata
dall’uomo per dare senso a un mondo che ne è sprovvisto, e così sopravvivere in esso. La
conoscenza è insomma una falsificazione della realtà circostante, una sua rappresentazione a misura
dei nostri bisogni naturali ed è quindi in un senso molto preciso che si deve parlare di una falsità
della conoscenza, cioè come una condizione che non può essere superata da un diverso approccio
alla realtà perché legata ad essa in modo essenziale e necessario: le nostre ambizioni di conoscenza
sono infatti destinate a mancare il loro obiettivo proprio perché ambizioni, vale a dire attribuzioni di
valore a una realtà che ne è priva e indizi di una loro origine non dalla coscienza, ma da qualcosa di
più profondo nell’uomo.
La critica nietzscheana alla scienza deriva direttamente da questa critica alla conoscenza e assume
fondamentalmente il significato di una confutazione del concetto di causalità; rifacendosi
innanzitutto allo scetticismo di Hume Nietzsche ne mostra la sostanziale inadeguatezza tanto dal
punto di vista gnoseologico che ontologico, non essendoci alcuna ragione per trasformare una
successione di eventi in una generazione dell’uno dall’altro , né per assegnargli un’intrinseca
necessità secondo un modello che spetta alla sola implicazione logica (se p allora q): la causa non è
infatti nulla del genere. La critica di Nietzsche si spinge però oltre questi argomenti tradizionali
mettendo sotto accusa il meccanicismo in generale e la teoria newtoniana in particolare, entrambi
impegnati come sono ad affermare l’esistenza di forze che agiscono su corpi materiali come fossero
cause dei loro movimenti nello spazio e nel tempo e non mere astrazioni atte a presentare il
fenomeno in forma semplificata e regole per una sua descrizione quanto più economica possibile.
L’errore della scienza consiste quindi nell’attribuzione a entità più o meno inesistenti della capacità
di avviare processi causali laddove sono in realtà del tutto assenti entità di questo tipo, non soltanto
nel mondo della materia inorganica ma anche in quello dei viventi; si tratta infatti di una stessa
illusione che dalla coscienza di sé si estende alla coscienza dell’altro da sé.
Tale errore può essere allora articolato nel modo seguente: all’origine troviamo una falsa credenza
nelle “cose” che ci consente di vedere l’uguaglianza dell’essere anziché la differenza del divenire di
un mondo così conformato ai nostri interessi pratici; e quindi l’ulteriore sviluppo della stessa nella
credenza in cose che agiscono come causa della propria azione. In realtà i due momenti sono
intimamente connessi, come mostra la scienza che intende la cosa come l’insieme delle sue
proprietà, cioè dei modi in cui può essere sollecitata da cause esterne. In tutto questo Nietzsche vede
un passaggio illegittimo dall’essere al dover-essere, un salto dal particolare e dal contingente alla
necessità universale di leggi a cui la natura è tenuta a obbedire; la scienza assume infatti nel suo
pensiero il valore di quella che potremmo chiamare una “morale della natura”, in cui si scoprono le
nostre aspettative e preferenze per il solito e l’identico, per un mondo ordinato e sicuro.
La critica di Nietzsche alla scienza si rivolge allora contro quelle concezioni generali della realtà
destinate a giustificare il modo in cui essa ne è rappresentazione, perseguendo l’obiettivo di una
confutazione del concetto di causa su cui si costruisce non soltanto il meccanicismo ma anche il
materialismo. In realtà, però, quest’ultimo si presenta a prima vista come una sorta di
meccanicismo riformato proprio nel senso proposto da Nietzsche, cioè in modo da eliminare la
contrapposizione tra forze che agiscono dall’esterno e corpi che reagiscono dall’interno, cioè
ognuno nel modo che gli è proprio, per mezzo della riduzione della realtà a una dimensione in cui le
sole differenze sono tali da un punto di vista eminentemente quantitativo, dal momento che la realtà
è qualitativamente sempre la stessa, cioè materia indifferenziata.
Se però da una parte il materialismo sembra più vicino alla posizione di Nietzsche rispetto alla
scienza e se in effetti alcune sue affermazioni riprendono evidentemente questo paradigma,
dall’altra emerge in più passi una resistenza di fondo a questa teoria. Dal suo punto di vista il
materialismo diventa problematico quando pone alla base dell’esistente delle entità semplici,
identiche e capaci di agire secondo leggi fisse, cercando di risalire ad esse attraverso l’osservazione
e la riduzione dei fenomeni a una loro particolare conformazione secondo l’errore proprio del
meccanicismo; potremmo anzi dire che si tratta di un vero e proprio cedimento alla sua
impostazione teorica. Il limite del materialismo è quindi la rinuncia all’idea di forze immanenti alla
natura e l’invenzione di entità esterne ad esse, contro le quali Nietzsche propone una versione della
realtà in cui forze che creano e danno forma alla materia di cui sono costituite si uniscono e
separano senza rispettare altra necessità che quella del momento. Tuttavia proprio come il
materialismo anche questa concezione di una realtà unitaria si scontra con le difficoltà di teorizzare
il passaggio dalla materia inorganica alla vita, da Nietzsche identificata con la cosiddetta
“sensazione di forza”; in altri termini la vita non sarebbe nient’altro che sensazione.
Per quel che comunque riguarda lo scetticismo di Nietzsche è evidente come non si tratti di una
negazione della validità e dell’autorità della scienza o di un invito a lasciar perdere con le sue facili
soluzioni, ma di un suo ridimensionamento entro confini più adeguati alla prospettiva umana,
secondo una linea di pensiero che sembra anticipare l’empiriocriticismo di Mach. Anche
quest’ultimo vedrà infatti nella scienza uno strumento per gestire in modo efficiente la nostra
esperienza, senza riuscire però a spiegarla ma dandone soltanto una delle molte descrizioni
possibili; tuttavia l’accento nietzscheano sui bisogni naturali da cui essa avrebbe origine è già il
segno di una impostazione più vicina alla corrente dello “psicologismo”.
Una facile obiezione a questo e a ogni altro scetticismo può allora essere quella di evidenziare la
capacità predittiva della scienza, cioè il fatto che i fenomeni della nostra esperienza comune
sembrino effettivamente sottostare alle sue leggi; tuttavia in questo modo si offrirebbe a Nietzsche
l’opportunità di ribadire ancora una volta come questa ricorrenza di eventi non è in alcun modo
prova della verità di una loro presunta “conoscenza” e non libera quindi la scienza da un posizione
d’inferiorità rispetto alla natura, dalla sua capacità di prendere l’iniziativa. Con questo non si vuole
però dire che tale argomento sia privo di valore; al contrario, il fatto che la scienza “funzioni”
quantomeno dimostra che essa è “funzionale” ad alcuni degli interessi che guidano la nostra vita.
Possiamo quindi dire che la critica nietzscheana alla scienza attacca sostanzialmente l’immagine
che ne aveva dato il positivismo, cioè quella tendenza al realismo, materialismo e riduzionismo che
si era imposta contro le posizioni degli stessi fondatori in materia. Un discorso a parte deve ora
essere fatto per quel che riguarda il rapporto tra Nietzsche e Darwin, quest’ultimo protagonista, con
la pubblicazione de “L’origine delle specie” nel 1859, del panorama culturale di un’epoca segnata
infatti dal cosiddetto “biologismo”di cui si sentono gli echi anche nella produzione nietzscheana. A
tale proposito può essere utile distinguere i due temi su cui si focalizza la critica a Darwin, e cioè il
suo concetto di “specie”e di “individuo”, tenendo nello stesso tempo presente che alcuni punti della
stessa non costituirebbero più una seria minaccia per le formulazioni più recenti della sua teoria.
All’idea di un’evoluzione della specie ottenuta attraverso una selezione naturale che premia gli
individui più forti, così investiti del compito di tramandare le loro migliori caratteristiche a una
progenie sempre più adattata all’ambiente e vicina al traguardo di un progresso indefinito,
Nietzsche oppone un’evoluzione che non riguarda la specie ma il singolo e lo chiama ad agire sul
proprio ambiente senza doversi con questo adattare passivamente ad esso. Del resto già Darwin si
era reso conto dei limiti di una teoria che riconducesse tutte le caratteristiche genetiche
dell’individuo ad adattamenti ricevuti in eredità dai propri predecessori, riconoscendo
l’inadeguatezza di tale teoria quando si fosse trattato di spiegare organi complessi come l’occhio
umano; questo non gli aveva però impedito di porre l’accento più sull’ambiente che sulla capacità
di risposta ad esso dell’individuo, assegnando piuttosto al caso un ruolo altrettanto importante: da
una parte avremmo infatti la trasmissione genetica che promuove un continuo ricambio dei tratti
individuali, dall’altra l’ambiente che seleziona gli individui più avvantaggiati da alcuni di essi
attraverso l’eliminazione dei concorrenti che ne sono sprovvisti, così da assicurarne una maggiore
probabilità all’interno della specie. Nietzsche assegna invece un ruolo centrale all’individuo perché
sua l’imposizione di una forma al contenuto genetico ereditato dai suoi genitori, secondo un
processo irriducibile a una mera reazione all’ambiente circostante; ambiente che è per altro sempre
culturale oltre che naturale. E’ proprio quest’ultimo aspetto a provocare in Nietzsche una forte
sfiducia per il futuro dell’uomo in netto contrasto con l’ottimismo darwiniano, nella convinzione
che la sua natura sociale abbia sempre portato i cosiddetti “casi felici dell’evoluzione”
all’isolamento e al rischio costante di essere soffocati da masse invidiose della loro autonomia ,
impedendo loro di promuovere quel miglioramento dell’umanità che soli potevano realizzare; è
questo il motivo per cui Nietzsche arriva a negare l’idea stessa di un’evoluzione della specie,
vedendo in essa